scuola e tecnologie

eBook a scuola ancora figli di un Dio minore, ma sarebbe ora di cambiare

All’interno del villaggio scolastico il dogma dell’intelligenza scrittoria e del libro cartaceo come ultimo baluardo di resistenza al digitale sembra inattaccabile. Sullo sfondo, la lotta per la sopravvivenza della stampa, la cui identità è fatta coincidere con quella della scuola. Ma sarebbe forse il caso di cambiare

Pubblicato il 23 Ott 2018

Roberto Maragliano

docente di Tecnologie dell'Istruzione e dell'Apprendimento, Università Roma Tre

scuola

A tutti coloro che frequentano la scuola con un po’ di interesse per il digitale il paradosso appare evidente: gli ebook sono snobbati nella didattica e la forma cartacea del libro sembra il solo modo possibile per tramandare, fissare la cultura nella testa degli studenti. Pregiudizio, per altro, radicato anche nel mercato editoriale.

Ma perché è così difficile cambiare? Inutile girarci attorno, il digitale pone alla scuola un grosso problema di identità e faremmo tutti un bel passo in avanti se provassimo a cogliere nei problemi di identità della scuola i riflessi di una battaglia quanto mai aspra sul fronte delle tecnologie del sapere e di conseguenza ci impegnassimo a capire meglio le ragioni di quella che è, sostanzialmente, una profonda e drammatica crisi di identità dei saperi che essa propone/impone, nonché dei modi con cui lo fa, o è costretta a farlo.

Cerco di spiegarmi meglio.

Il ruolo della scuola in una società che cambia

Questa del chiedersi che funzione debba avere la scuola in una società in trasformazione, non è cosa nuova: ogni società, ogni tempo ha a che fare con dei cambiamenti e dunque si interroga sulle conseguenze che questi potranno produrre sul piano dell’educazione istituzionale, nel bene come nel male. Ma mai come ora la domanda s’è fatta tanto urgente, e la risposta così difficile da individuare.

Certo, da noi, nella provincia italica, poco si parla di queste cose. Tanto meno lo si fa negli attuali frangenti, a fronte di un ministero perlopiù assente e di un confronto pubblico sulle istituzioni formative perlopiù silente.

Basta fare qualche passo fuori, però, che subito ci si imbatte nell’interrogativo. Così in Francia, all’apertura delle scuole, un periodico di filosofia si chiede, dedicandogli anche un nutrito dossier, qual è o meglio quale dovrebbe essere il compito prioritario da affidare alla scuola, oggi: se indirizzarla a reinventare l’ideale classico, corrispondente all’esigenza di far sviluppare, nel giovane, la riflessione e il pensiero critico o se, invece, non sia più giusto sollecitarla a lavorare affinché quello stesso giovane possa essere positivamente e costruttivamente inserito dentro un mondo sempre più concorrenziale e mutevole.

Scuola: conservazione o rinnovamento?

Proviamo, controcorrente, a porci la stessa domanda, e soprattutto rivolgiamola a chi nelle aule quotidianamente, qui da noi, svolge il suo compito di fare ed essere scuola: la risposta, ne sono sicuro, andrà ad orientarsi sul primo piuttosto che sul secondo polo. Risulta quasi inevitabile, infatti, che di fronte a un mondo sempre più opaco e ad apparati di comunicazione sempre più caotici ci si rinserri dentro la conferma di quella che è stata l’anima prevalente della scuola europea, da un secolo a questa parte: educare al distacco dalla realtà mondana piuttosto che al coinvolgimento in essa; e che ci si adagi nella critica nei confronti di chi, in Occidente, per esempio gli Stati Uniti, ha investito su una versione di quel modello più aperta alla dimensione socializzante e all’integrazione nel mondo. Ma è davvero inevitabile, questo modo di pensare e di agire, e, comunque, quali conseguenze ha prodotto e sta producendo?

Al di là dei modi tutt’altro che degni di encomio con cui un simile orientamento ideale viene talvolta attuato al presente, qui da noi (che poi, ammettiamolo, non sono lontani da quelli che inducono un pensatore di tutto rispetto come Guido Davico Bonino a sostenere icasticamente, in un’intervista al Corriere, che “oggi gli insegnanti, ovvio con le dovute eccezioni, sono degli impiegati, non gliene frega niente di niente e gli alunni non vedono l’ora che finisca la lezione”), non sarà da interpretare come ozio pedagogico né come trastullo accademico che ci si domandi da dove provenga la forza di questa immagine di scuola come luogo del distacco e se non sia essa stessa meritevole di essere sottoposta a riflessione critica. Tanto più è necessario che ci si attrezzi a dare delle risposte attendibili, a tale quesito, quanto più si è disposti a riconoscere che un massiccio concorrente e disturbatore dei riti e dei miti dell’universo scolastico sta ora davanti a tutti noi (e pure dentro!), ed è, appunto, l’universo digitale.

La diffidenza dell’editoria libraria verso l’universo digitale

Su questo fronte c’è da segnalare la presenza di un soggetto tutt’altro che marginale. Intendo l’editoria libraria, cioè il primo e più ascoltato dei mass media, almeno dagli operatori scolastici. Da tempo lì sta attuando una massiccia e sistematica azione di delegittimazione del valore conoscitivo ed esperienziale delle condotte digitali, in particolare di quelle dei giovani. È sufficiente fare una visita in libreria per vedere che uno dei motivi correnti della saggistica più recente di orientamento educativo è quello dei pericoli, mentre a discorsi sulle opportunità e soprattutto sulle caratteristiche innovative dell’esperienza digitale sono dedicati pochissimo titoli, e pochissimo sostenuti.

Lo stesso atteggiamento è dato trovare sui quotidiani. In SociaList. Diario di rete 2013-2017 ho documentato la regolarità con cui gli inserti domenicali delle maggiori testate nazionali lanciano strali contro il digitale. Motivi non dissimili, del resto, punteggiano le trasmissioni televisive e radiofoniche, le volte che si parla dei giovani e delle loro affezioni digitali.

Andrebbe dunque preso in seria considerazione il fatto che tra i mass media (editoria radio tv), da una parte, e la rete, dall’altra, è in atto una battaglia non tanto per l’egemonia, che ormai ha un esito inevitabile, quanto per il bottino o per quel che resta di esso.

Ma al di là di questo c’è un aspetto che va messo in evidenza: si lega strettamente al tema della crisi di identità della scuola e rimanda ai miei due precedenti interventi (il primo e il secondo) in cui ponevo la questione di un necessario ripensamento del che cosa e non solo del come insegnare, a scuola.

Stampa e scuola: un destino intrecciato?

Inevitabilmente, sembrerebbe almeno, tanti dei discorsi di denigrazione del digitale che sono messi in circolo presentano come argomento privilegiato il tema del libro cartaceo, più o meno esplicitamente raffigurato come inespugnabile baluardo di resistenza alla barbarica colonizzazione digitale. Riducendo tutto ciò ad una formula di pronta presa si fa passare come incontrovertibile dato di fatto che la carta sia l’ambiente privilegiato per la fissazione del sapere, e lo schermo operi come un agente disturbatore, allontanando, o distraendo dal sapere, quello vero.

Gli ebook quindi sono visti come figli di un dio minore.

Una simile disputa potrebbe figurare come ulteriore esempio della tradizionale guerra di resistenza alle nuove tecnologie, destinata darwinianamente a premiare col tempo (ce lo insegna la storia) la tecnologia più forte ed attrezzata. Tante guerre di posizione si sono fatte, a questo proposito, e i futuri perdenti vi hanno preso parte massicciamente, pure sostenuti da importanti appoggi culturali e politici (basti pensare al Locomotive Act, che tra metà e fine Ottocento operò con misure varie al fine di contenere l’uso dei veicoli a motore). Altrettante si sono concluse con una loro sconfitta.

Se non fosse che il destino del “frammento” dell’universo culturale di cui sto dicendo, cioè il libro, diversamente dalla carrozza a cavalli, si trova ad essere strettamente intrecciato, o meglio si opera attivamente perché, nel comune sentire, lo si intenda come indissolubilmente intrecciato con il destino stesso della scuola.

Vista in una simile prospettiva, la questione assume ben altro spessore e importanza.

Non sarebbe in atto un confronto anche aspro tra culture quanto una lotta per la sopravvivenza di una tecnologia (la stampa) la cui identità è fatta (anche forzatamente) coincidere con quella della scuola.

Un’idea di istruzione (forse) non più attuale

Se affrontiamo la questione dal punto di vista storico, traiamo una parte di conferma a questo stato di cose, soprattutto per quanto riguarda la sua origine.

L’idea di scuola tuttora egemone, e non solo localmente, non solo qui da noi, si inscrive infatti nel più ampio processo attraverso cui l’Europa conquistò il mondo, nel periodo di transizione tra Ottocento e Novecento. “La mondialità europea fu conseguenza della modernità industriale nei trasporti, nella produzione, nella potenza armata, nell’accumulazione di capitali e nel loro investimento ovunque sul pianeta. E fu conseguenza anche della modernità politica, cioè lo Stato nazionale e laico, l’autorità centrale, la razionalità burocratica, l’organizzazione della libera ricerca, l’istruzione pubblica, la trasformazione delle masse dei governati in cittadini liberi, con diritti e doveri, partecipanti alla scelta dei governanti”: questo sostiene Emilio Gentile, in Ascesa e declino dell’Europa nel mondo 1898 – 1918, appena uscito da Il Mulino.

L’istruzione pubblica è stato, appunto, uno dei contenuti vincenti del processo di mondializzazione messo in atto dalla ‘civiltà europea’. Ma, chiediamoci, a quale idea di istruzione si faceva riferimento, allora? Quell’idea è ancora valida?

Qui il tema della tecnologia svolge un ruolo importante.

Un secolo fa, la tecnologia dominante nella diffusione di massa del sapere era la stampa. Per la semplice ragione che altre non ce n’erano. Radio e cinema e televisione e rete dovevano ancora nascere, almeno nella forma che permetterà loro di attraversare buona parte del Novecento. Alludo, con questo riferimento alla forma, a ciò che fa delle prime tre degli ambienti di coltura di linguaggi post o pre-scritturali, comunque a-scritturali, e della quarta un ambiente di coltura di un linguaggio multimediale e composito, scrittorio e non scrittorio ad un tempo, in quanto alimentato contemporaneamente dalla parola scritta e dalla molteplicità dei codici sonori e visivi (per non dire di quelli operativi). Dunque, sto dicendo di tecnologie e linguaggi che presentano caratteristiche diverse da quelle che siamo abituati a riconoscere alla scrittura nella sua versione a stampa. Ma che non li fanno essere, necessariamente, inferiori sul piano conoscitivo. Tanto più oggi, in presenza di dispositivi che consentono e promuovono raffinate operazioni metaconoscitive, dove la mediazione della scrittura è ridotta al minimo. Chi domina quelle strumentazioni è meno o, piuttosto, è diversamente intelligente rispetto a chi domina il libro a stampa?

Coerentemente con l’assetto tecnologico di allora, l’immagine di scuola su cui il modello di scuola europea ha conquistato il mondo centra la sua identità sul dominio della lingua scritta, presentando come prioritari i saperi scrittori, e marginali i saperi sonori e visivi. Lo abbiamo visto: il codice del distacco intellettuale al centro, i codici del coinvolgimento sensoriale in periferia.

Da allora molte cose sono cambiate, e le scuole sono andate sviluppando il tratto di modernità politica connesso all’istanza della democratizzazione sociale del sapere, ma senza che quella gerarchia cognitiva e dunque quel legame tecnologico fossero messi in discussione.

Probabilmente questa è stata una linea di azione legittima finché a concorrere con la stampa (e dunque con la scuola) figuravano le tecnologie non scrittorie. Ma sta diventando assai meno scontata oggi che la concorrenza è attuata da una tecnologia capace di inglobare la scrittura, anche trasformandola, e porla, in una forma assolutamente originale, dentro un rapporto di scambio e interazione con i codici del suono e dell’immagine.

Dovrebbe risultare evidente che la globalizzazione dei saperi, fenomeno del presente, è cosa ben diversa dalla mondializzazione dei saperi di cent’anni fa. Ma la scuola, ahimè, continuiamo a pensarla come uguale a sé stessa, nei suoi principi costitutivi, e ci rifiutiamo di pensarla diversamente.

Libri digitali (ebook): non sono figli di un dio minore

Tanta editoria si ostina poi a presentare e pure a realizzare il libro digitale come un prodotto minore, pochissimo vantaggioso, al limite un non-libro. Così si fa e ci fa del male. Questo almeno io penso. Se ben progettato e attuato, il libro digitale potrebbe infatti aprirsi e aprire i suoi utenti al suono e alla visione e pure all’operazione, tutte cose che, una volta integrate nello spazio chiuso e autosufficiente di quello che continuerebbe ad essere un libro, andrebbero a rinforzare l’apprendimento scolastico ed avvicinarne i meccanismi alle forme più diffuse di intercomunicazione sociale. Per non dire poi del contributo che la cultura italiana, con la sua tradizione in fatto di arti e musiche, potrebbe dare, dentro una prospettiva globale, nel sostenere un impegno verso una positiva interazione e integrazione dei codici e dei meccanismi del sapere.

Ma tant’è, il dogma dell’intelligenza scrittoria sembra inattaccabile, all’interno del villaggio scolastico. O almeno di come siamo abituati a concepirlo e viverlo.

“È pensabile che anche lí [nella scuola] il problema sia la fissità, le strutture permanenti, la scansione novecentesca dei tempi, degli spazi e delle persone. Magari andrà avanti cosí ancora per decenni: ma certo che il giorno in cui a qualcuno verrà in mente di rinnovare un po’ i locali, le prime cose che andranno al macero, dritte dritte, saranno la classe, la materia, l’insegnante di una materia, l’anno scolastico, l’esame. Strutture monolitiche che vanno contro ogni inclinazione del Game. Fidatevi, andrà tutto al macero”. Così Alessandro Baricco, nel suo The Game, recentemente pubblicato da Einaudi.

Fidati, Alessandro, pure il libro cartaceo andrà al macero.

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