La recente uscita del rapporto “Educare Digitale” dell’Agcom sullo stato di sviluppo della scuola digitale aiuta a meglio definire il quadro culturale in cui ci si trova ad operare in Italia. I dati emersi dal rapporto e l’impostazione di quest’ultimo fanno riemerge un annoso problema: l’importanza della connettività quale fattore abilitante non basta a nascondere come la barriera principale allo sviluppo dell’ “Educare digitale” sia culturale e strettamente legata alla messa in campo di un’efficiente piano di formazione al “digitale” – il PNSD che ha demandato questo aspetto agli snodi territoriali sembrerebbe avere in gran parte fallito – un piano virato all’alfabetizzazione mediale e allo sviluppo di un apprendere scevro di mode che si concentri sulla progettazione e la messa in campo di una didattica per competenze in cui si concretizzi l’integrazione significativa delle competenze digitali con tutte le altre competenze.
La premessa al rapporto ci fa fare subito un tuffo nel passato ed è davvero emblematica dello stato di arretratezza del nostro paese. Sarebbe potuta essere l’introduzione di un rapporto scritto 10-15 anni fa all’albore o nel corso del prorompente sviluppo del web 2.0. La sensazione di distonia temporale ci accompagna in parte anche nel prosieguo della lettura del rapporto, ma viene ad essere ben presto sopravanzata dalla sensazione di un parziale distacco di quanto si legge dalla realtà quotidiana della scuola, realtà restituita solo in parte dall’analisi dei dati.
L’e-maturity di un ecosistema di apprendimento dovrebbe tener conto in modo bilanciato degli aspetti infrastrutturali (rete, hardware e software), delle competenze (tecniche, tecnico-didattiche, tecnico-gestionali), dell’impatto dell’ICT sia sui processi didattici che su quelli organizzativi e amministrativi, della visione strategica e delle policy che caratterizzano l’ecosistema e, infine, in una visione culturalmente più profonda e avanzata, del benessere di tutti gli attori che partecipano al processo.
Se da una parte il rapporto riconosce al comparto educativo un ruolo rilevante quale base fondante dello sviluppo digitale del paese e della sua sostenibilità culturale, dall’altra lo cala, sminuendo molte delle sue peculiarità, all’interno del calderone della digitalizzazione della Pubblica Amministrazione, tema a cui viene dedicato ampio spazio nel rapporto.
Connettività e infrastrutturazione interna
La conseguenza più evidente è che il rapporto finisce per essere fortemente incentrato sulla connettività al punto che da questa deriva uno dei due indicatori di leadership nel processo di modernizzazione digitale della scuola.
Pur non disconoscendo l’assoluta rilevanza della connettività (sarebbe come disconoscere la rilevanza degli acquedotti rispetto ai pozzi, o delle reti elettriche rispetto all’uso delle lampade a petrolio) è però importante far emergere il reale peso che oggi essa riveste nei processi scolastici, sia ai fini di sviluppare un’analisi di sostenibilità che per identificare priorità e azioni parallele che necessitano di essere intraprese.
Di certo un aspetto di non poca rilevanza è quello dell’infrastrutturazione interna. A cosa serve una broadband o ultrabroadband se poi la LAN interna genera dei colli di bottiglia ? A cosa serve un’efficiente rete interna se poi non ci sono dispositivi che se ne servono generando un “flusso di dati” che ne giustifichi la presenza ? A cosa serve tutto questo se poi il flusso di dati non determina un reale ripensamento della didattica che contribuisca a ridurne l’approccio trasmissivo a favore di percorsi in grado di far sgorgare dalle conoscenze abilità e, successivamente, competenze ?
Nel rapporto l’analisi dell’infrastrutturazione interna resta un po’ sul vago e fa riferimento alla sola copertura percentuale degli spazi fisici; poco ci dice sull’efficienza della rete interna e sulla disponibilità di strumenti/attrezzature che possano contribuire ad un processo di digitalizzazione significativo sia in termini metodologici che didattici.
Docenti e strumenti digitali, dati preoccupanti
Dal rapporto, anzi, emergono dati in qualche modo preoccupanti: ad esempio solo il 47% dei docenti utilizza quotidianamente “strumenti digitali”.
Il dato sulla tipologia di attività svolte dai docenti non è facilmente leggibile, perché non è chiaro se le percentuali si riferiscano al totale dei docenti che utilizzano quotidianamente gli strumenti digitali o a tutti i docenti.
Nel migliore dei casi, ovvero quello in cui si riferiscano all’intero corpo docente dovremo dedurne che il 100% di chi usa quotidianamente gli strumenti digitali, ovvero il 47% del totale, lo fa per consultare fonti e contenuti digitali. In altri termini usa l’infrastruttura di rete come amplificatore informativo da utilizzare all’interno della classe.
Di contro solo l’8,6% del totale dei docenti utilizza il digitale per attività a distanza e che travalicano i confini della classe. Molte altre attività non hanno stretta necessità di connettività, quali le presentazioni basate su slide dei docenti o la verifica e valutazione (a meno che non si utilizzino servizi on-line e/o in cloud, ma il rapporto non ci permette di comprenderne le modalità attuative).
Solo il 20% circa adotta pratiche di lavoro collaborativo, ma apparentemente interne alla classe o alla scuola.
Dal report si evince anche una scarsa influenza della banda ultralarga sulle attività didattiche: infatti l’incremento nell’utilizzo giornaliero del digitale generato dalla banda ultralarga è solo del 4% !
I nodi da sciogliere, dunque, sembrano, tutti interni alla scuola e molto probabilmente sono in gran parte culturali.
La sostenibilità della connettività delle scuola
Prima di approfondire questo aspetto proviamo a fare un piccolo ragionamento economico sulla sostenibilità della connettività.
Dal rapporto si evince che per i soli costi della connettività a banda ultralarga (sono esclusi i costi di manutenzione e gestione interna e l’ammortamento delle attrezzature) si deve affrontare una spesa di circa 6000 euro l’anno per scuola che moltiplicato per le circa 8000 scuole comporterebbe una spesa annua a carico della comunità di 48 milioni di euro, davvero un po’ troppo per essere finalizzata quasi esclusivamente al reperimento di informazioni, seppure multimediali.
Non appare strano, dunque, che le scuole tendano ad orientarsi – per l’espletamento degli obblighi di legge (digitalizzazione dei processi gestionali) – verso una connettività a banda ridotta, 30 Mbps, comunque venduta, almeno apparentemente, a prezzi anche molto più elevati di quelli delle utenze domestiche (si consideri che oggi nel caso di utenze domestiche per una connessione a 100 Mbps si spende dell’ordine di 550 euro annui).
La sostenibilità del digitale passa sicuramente per una riduzione, anzi un azzeramento dei costi di connettività che non possono essere così elevati per un comparto quale quello dell’educazione riconosciuto da tutti (vero?) fondamentale per lo sviluppo digitale del paese.
La scuola e, in generale gli ecosistemi educativi pubblici, dovrebbero godere di uno statuto diverso e privilegiato rispetto a tutto il resto della PA. E’ infatti l’unico comparto in cui si opera in toto per far crescere gli individui che popoleranno il futuro: cittadini, lavoratori e, persino, consumatori. Dovrebbero bastare questi pochi ruoli generalisti per stimolare la responsabilità sociale delle aziende e la loro lungimiranza imprenditoriale. I gestori di rete dovrebbero offrire gratuitamente la connettività alle scuole, direttamente o tramite le loro fondazioni. Il governo centrale e gli enti locali dovrebbero imporlo a seguito di concessione di permessi, contributi e appalti.
D’altra parte in un mondo in cui il quasi 100% delle persone (studenti e docenti) è connesso a internet tramite dispositivo personale (a costi dell’ordine di 6-7 euro al mese) è ancora pensabile utilizzare la connettività della scuola quasi solo esclusivamente per ricercare informazioni?
Solo il ritiro dei cellulari prima delle lezioni potrebbe fornire ancora una debole giustificazione a questo stato di cose, ma al prezzo di riportare gli attori del processo didattico, quasi sempre, in un medioevo tecnologico caratterizzato da una ridotta connettività.
ICT e alfabetizzazione mediale
La sostenibilità dell’ICT, tuttavia, dipende ancor di più da una necessaria transizione culturale verso un uso del digitale consapevole, significativo e ottimizzato. Se l’ICT deve fungere da supporto per la realizzazione di un’educazione di qualità finalizzata allo sviluppo delle competenze necessarie per il lavoro (anche tecnologicamente aumentato) e delle basi culturali imprescindibili per produrre comportamenti sostenibili e favorire la cittadinanza attiva (anche digitale) si deve porre in essere la realizzazione parallela di percorsi altri rispetto a quello che conduce alla diffusione della banda larga, la costruzione di vere e proprie “autostrade culturali”, in cui il digitale si integri e trovi collocazione, ad esempio, nell’ambito delle lezioni di cittadinanza, e grazie alle quali possa prendere forma, stabilizzandosi, un vero e proprio percorso di alfabetizzazione mediale.
Tra le competenze chiave elencate in tutti i framework di competenze, ci sono le classiche leggere, scrivere e far di conto, potenziate dalla padronanza delle lingue straniere. La scrittura, regina della dimensione diacronica e una volta mezzo dominante per la trasmissione del sapere, oggi sta perdendo importanza a favore di altri canali mediali quali l’immagine (dominata dalla dimensione sincronica) e il filmato (nel quale le dimensioni diacronica e sincronica si fondono assomigliando alla vita). Ma quanti oggi godono di un’alfabetizzazione ai media figli della “riproducibilità tecnologica”?
Pur non trascurando una più che necessaria difesa della scrittura è però giunto il momento di introdurre nella scuola una vera e propria educazione alla medialità. Ormai tutti realizzano immagini ma quanti le sanno leggere, quanti sanno costruirle nella mente prima che nello scatto? Ormai tutti produco filmati ma quanti sanno interpretare la dinamica di un filmato e sviluppare una narrazione?
Voglio persino spingermi oltre: quanti del popolo dei videogiocatori sono in grado di analizzare e comprendere gli elementi costitutivi e le dinamiche di un gioco?
Le capacità tecnica nel trattare immagini, filmati e suoni (che, comunque, in pochi hanno) non basta più e anzi passa in secondo piano rispetto a una quanto mai necessaria alfabetizzazione mediale, ovvero a un saper “leggere e scrivere” i non tanto più “nuovi media”.
Dai linguaggi, si potrà poi passare alle applicazioni e alla produttività personale e a quella collettiva che, inevitabilmente, contribuiranno a formare un cittadino e un lavoratore consapevole delle potenzialità dell’ICT e non un consumatore inconsapevole in balia delle mode.
E’ solo attraverso un’adeguata alfabetizzazione mediale che il digitale si farà metodo, strategia, processo e ancor prima progetto, quindi si reificherà in una società consapevole in grado di fare un uso ottimizzato del digitale, ovvero competente.
Non ci si può limitare al pensiero computazionale e alla robotica. Quantunque sia importante sviluppare nei ragazzi una capacità di ragionamento logico, l’attrarre studenti verso discipline informatiche e ingegneristiche viene dopo la formazione del cittadino digitale consapevole e competente!
La formazione di docenti e dirigenti
Logica vuole che i dirigenti scolastici e gli insegnanti siano i primi a essere formati, perché sono loro che dovrebbero essere in grado di programmare e gestire l’alfabetizzazione degli studenti. Sono loro che dovrebbero saper integrare giornalmente competenze digitali, trasversali e “hard” e quindi sono loro che dovrebbero saper progettare per competenze.
Inevitabile il riferimento alla formazione degli insegnati e al curriculo, ma rimandiamo la riflessione su questi importanti tasselli del puzzle ad altri interventi, ci porterebbe troppo lontano.
La digitalizzazione didattica
Non possiamo però esimerci, in questa sede, dal commentare la costruzione dell’altro indicatore utilizzato nel rapporto “Educare Digitale”, quello relativo alla “digitalizzazione didattica”.
Il primo indicatore che compone l’indice riguarda l’infrastrutturazione interna e quindi poco ci dice sui processi educativi. L’unica domanda che sfiora gli aspetti didattici riguarda l’adeguatezza o meno della connessione internet per la didattica; ma se l’utilizzo principale della connessione è finalizzato alla ricerca di informazioni quale significatività è associabile alle risposte?
Il secondo indicatore si compone di tre contributi:
- la percentuale di classi in cui è in uso il registro elettronico,
- la percentuale delle classi in cui il registro elettronico è aperto alle famiglie,
- la percentuale di docenti che utilizzano strutturalmente il registro elettronico.
In che modo questi dati ci possono aiutare a comporre il quadro della penetrazione significativa del digitale nei processi educativi? L’uso del registro elettronico è praticamente obbligo di legge (anche se manca ancora l’approvazione per il Piano per la dematerializzazione delle procedure amministrative in materia di istruzione) e, infatti, è diffuso in circa il 90% delle scuole italiane. Dovendosi poi utilizzare nelle aule richiede necessariamente che sia disponibile un accesso alla rete (a questo punto viene spontaneo chiedersi: è stata studiata la correlazione tra sottoindicatori e quella fra indicatori?).
Un docente potrebbe utilizzare un hotspot personale o riempire il registro al di fuori dell’aula, ma in teoria non è concesso. Ciò che dovrebbe contare, comunque, è l’uso che si fa del registro elettronico.
Le indagini sul campo, in mancanza di specifici indicatori, ci dicono che l’adozione del registro elettronico non è stata particolarmente digerita dal corpo dicente e che nella stragrande maggioranza dei casi viene utilizzato come strumento di gestione del processo didattico, senza alcuna influenza sul suo svolgimento. L’utilizzo del registro elettronico, dunque, è molto lontano dallo stimolare la costituzione di una community scolastica ed è più adatto a comporre altra tipologia di indici di carattere gestionale, quantunque riferiti ai processi didattici. Relativamente significativo anche l’indicatore di innovazione per il quale, ad esempio, le presentazioni accompagnate da slide sembrerebbero avere lo stesso peso della gestione di attività progettuali a distanza. Trattasi comunque di dettagli rispetto agli elementi che compongono un quadro complessivo, come quello delineato sin qui, in cui fa molta fatica ad emergere e affermarsi una reale cultura del digitale (definizione dei tasselli del puzzle, utilizzo significativo a fini didattici, valutazione, ecc.) .
Di fronte a tale quadro, si fa fatica a riconoscere nella connettività a banda larga o ultralarga l’elemento trainante di un “Educare digitale” né tanto meno di un educare digitale di qualità (con riferimento al SDG 4), mentre se ne individuano limiti alla sostenibilità di carattere economico, tecnologico e di competenze. La natura abilitante della connettività, lo ripetiamo, non è in discussione ma non si possono nascondere le preoccupazioni per il bassissimo impatto che sino ad ora ha avuto sulla didattica.
In un recente articolo abbiamo avviato una riflessione sul possibile ruolo e sostenibilità dell’ICT nel percorso che dovrebbe portarci al raggiungimento dell’obiettivo numero 4 dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile – Educazione di qualità – e interessare, quindi, trasformandoli, gli attuali ecosistemi dell’apprendimento, scuole incluse.
Non resta che rimboccarci le maniche e provare a costruire insieme percorsi paralleli e a definire priorità che ci possano consentire di non arrivare in ritardo con l’appuntamento del 2030.
Primo passo l’open debate del 22 maggio alla sede centrale del CNR in occasione di SLERD 2019.