In Italia si sperimenta, anche a scuola, diffusamente e in modi diversificati. Difficilmente però queste sperimentazioni arrivano a sistema, cioè scendono in profondità fino ad ottenere cambiamenti osservabili nei processi, nei risultati e nelle modalità di lavoro di tutti quelli che sono coinvolti: studentesse e studenti, insegnanti, famiglie, decisori politici, società.
Come sviluppare innovazione a scuola
In uno dei suoi libri più visionari (Scuola creativa. Manifesto per una nuova educazione, 2016), Ken Robinson affrontò il tema di come sviluppare innovazione a scuola. Scrisse che per trasformare una qualsiasi situazione occorrono tre tipi di conoscenza: una critica dell’attuale stato delle cose, una visione di come dovrebbero essere e una teoria del cambiamento per passare ad un’altra. Robinson porta due esempi: gli Stati Uniti e la Finlandia.
Negli Stati Uniti, già a partire dagli anni Ottanta di Reagan fino a Obama, la critica alla base della riforma della scuola era che gli standard scolastici tradizionali fossero troppo bassi e andassero innalzati; la visione era quella di un mondo in cui gli standard scolastici sono molto elevati, si laureano quasi tutti e quindi si ha maggiore occupazione; la teoria del cambiamento era che il modo migliore per ottenere l’obiettivo fosse definire con maggiore esattezza gli standard, concentrandosi accanitamente su di loro con processi di valutazione standardizzata, cioè i famosi test per qualsiasi cosa.
L’esempio della Finlandia
La Finlandia negli anni Ottanta avviò un processo di trasformazione completamente diverso: nessuna standardizzazione e nessuna valutazione ossessiva. Scelse la via dell’equilibrio e della possibilità di scelta, mantenendo come principio la libertà di insegnamento: un curricolo ampio con diverse forme di educazione; grande importanza ai laboratori pratici e allo sviluppo della creatività; investimenti massicci nella formazione e nella crescita professionale degli insegnanti, tanto da far diventare la figura del docente un profilo lavorativo molto ambito; diede ai dirigenti scolastici molta discrezionalità nella conduzione della propria scuola e incoraggiò la collaborazione invece della competizione, spingendo a creare legami di comunità con gli studenti e con le famiglie.
La Finlandia risulta ancora ai primi posti delle rilevazioni internazionali, ma la sua popolazione scolastica sostiene un solo esame in tutto il ciclo di istruzione; è terra di pellegrinaggio anche per i docenti e i dirigenti scolastici italiani in Erasmus, che vanno a vedere che cosa funziona in questo sistema fiabesco, citato come la culla della scuola bella ed efficace per scoprire poi che la Finlandia non è perfetta e non il Bengodi dei sistemi di istruzione. La scuola funziona perché i finlandesi la fanno funzionare, come mi rispose un docente di una scuola, che ho visitato nel 2017 e che seguivo in job shadowing. Quando gli chiesi se avessero esami da far sostenere agli studenti, lui candidamente mi rispose: “Niente esami, noi siamo finlandesi”. Il clima però lo racconta questo cambiamento: mettiamo da parte tutte le facili osservazioni come il fatto che i finlandesi siano pochi, mentre noi siamo molti; oppure che la Finlandia costruisce edifici belli per le scuole, noi facciamo i conti con palazzi storici riadattati o con costruzioni inappropriate e vecchie.
Un confronto con l’Italia
La critica è chiara: siamo la scuola con il più alto numero di ore di inglese e siamo quelli che lo parlano peggio in Europa, abbiamo ricevuto milioni di euro di finanziamenti in tecnologie e ci sono ancora docenti che si rifiutano di servirsene in aula, ci sono stati massicci investimenti nella formazione e nell’accompagnamento, in seguito ai quali tutti gli insegnanti dovrebbero conoscere (ed applicare) le più moderne metodologie didattiche evidence based e far sì che nessuno studente rimanga indietro eppure sappiamo che questo accade in contesti molto circoscritti. Qual è la nostra visione di scuola e quale la nostra teoria del cambiamento?
Forse non ne abbiamo una, o meglio, non la stessa. Qui siamo spaccati molto più che a a metà.
L’art. 6 del DPR 275 del 1999 dà alle scuole autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo. Possiamo fare davvero tutto, volendo: creare reti, fare ricerca, curare la formazione anche localmente, usare le tecnologie come meglio possiamo, condividere documentazione e materiali didattici, esperienze e criticità. Possiamo utilizzare la flessibilità curricolare ma anche agire modifiche strutturali (art. 8) per promuovere innovazione. Perché solo pochi si avvalgono di una normativa che esiste già?
Pnsd e Piano Scuola 4.0
Prima il Pnsd e poi il Piano Scuola 4.0 hanno rilanciato il tema dell’autonomia della ricerca e dello sviluppo, indicandolo come strumento fondamentale per rilanciare l’adozione delle pedagogie innovative: si scrive che i docenti sono professionisti creativi del processo di apprendimento e possono favorire la motivazione e l’impegno attivo delle studentesse e degli studenti utilizzando modelli educativi progettati a misura della loro inclinazione naturale verso il gioco, la creatività, la collaborazione e la ricerca.
Il comma 2 dell’art. 11 ricorda che si possono promuovere progetti di innovazione e di sperimentazione, con una durata predefinita, indicando con chiarezza gli obiettivi. I risultati andrebbero poi sottoposti a valutazione e sulla base di queste valutazioni possono essere definiti nuovi curricoli e nuove scansioni degli ordinamenti degli studi,
Come si trasforma tutto questo in un modello o in un approccio metodologico, che sostenga il cambiamento in tutte le sue fasi?
Come hanno fatto le scuole che sono riuscite a innovare
Le scuole che in Italia sono riuscite nell’impresa (poche ma ce ne sono) lo hanno fatto agendo sulla motivazione degli insegnanti, creando un clima di sostegno e reciprocità, facendo sentire l’importanza del cambiamento, anche nel proprio percorso professionale. Non possiamo sperare sembra in miracolose variazioni dei nostri stipendi (ben al di sotto delle medie europee), ma forse si può rendere la scuola un luogo più sostenibile per tutti e trasformarlo in un incubatore di meraviglia. Creare un clima di collaborazione e sostegno reciproco è la sfida.
I modelli di innovazione a scuola che stanno funzionando
Ci sono modelli che stanno funzionando: il Dada, per esempio. Forse perché è impossibile attuarlo senza un coinvolgimento globale di tutta la comunità educante; o anche il Service Learning, perché aggancia il territorio alla scuola e lo unisce alla comunità estesa che è il quartiere. Serve una teoria del cambiamento condivisa, serve monitorare il cambiamento e renderlo sistematico per poterne raccogliere i frutti, serve coinvolgere gli insegnanti rendendoli la leva del cambiamento, non il peso che ostacola la trasformazione. Non serve diventare la Finlandia, serve imparare da quelli più bravi di noi e poi capire come possiamo farlo nelle nostre scuole e nei nostri territori, curando accuratamente la documentazione e divulgando le buone notizie e le criticità perché altri ne facciano tesoro. Il digitale non serve solo in aula, ma anche nella progettazione didattica, nelle pratiche di divulgazione, nei processi di condivisione.
Una roadmap per il cambiamento
Un altro anno scolastico è appena iniziato, potremmo cominciare subito a progettare il cambiamento che vogliamo essere. Cominciamo da qui:
- Stabiliamo gli obiettivi globali della sperimentazione, come migliorare l’apprendimento e il benessere a scuola attraverso l’integrazione di tecnologie e innovazioni pedagogiche (la Ricerca- Formazione può venirci in aiuto);
- Identifichiamo obiettivi precisi, quali competenze sviluppare, come servirci diei Framework esistenti a nostro vantaggio (es. un curricolo digitale, come quello realizzato da Iprase e dalla Rete delle Valli del Noce in Trentino);
- Analizziamo ricerche educative esistenti riguardanti l’impiego di tecnologie digitali e metodologie innovative nel contesto didattico per comprenderne i risultati, le sfide e le Best Practices.
- Identifichiamo gli ambienti e gli strumenti, le metodologie, la formazione necessaria per acquisire le competenze funzionali alla trasformazione che vorremmo ottenere.
- Realizziamo un progetto pilota con un gruppo ristretto di studenti e insegnanti per identificare potenziali ostacoli e aree di miglioramento, ma pensiamo subito al futuro con un processo di Roll-Out, per implementare l’intervento a breve termine su scala più ampia, applicando le modifiche e gli aggiustamenti derivati dal pilotaggio.
- Raccogliamo dati sul cambiamento, creando modelli di valutazione, monitorando con periodici questionari, test, osservazioni, Focus Group ecc. l’impatto sugli insegnanti e naturalmente anche un sistema di raccolta dati, che monitori i progressi degli studenti, il coinvolgimento e altri indicatori pertinenti.
- Non basta raccogliere, ma è necessario analizzare e restituire: analizziamo i dati raccolti per comprendere l’impatto dell’intervento sugli obiettivi prestabiliti, identificando successi e aree di miglioramento e restituiamo i risultati a tutta la comunità educante.
- A questo punto occorre valutare in maniera critica il successo o il fallimento della sperimentazione rispetto agli obiettivi, considerando tutti gli attori e tutti i dati, cerchiamo feedback da studenti, insegnanti e altri stakeholder per comprendere i punti di forza e le criticità.
- Rendiamo il cambiamento scalabile; estendiamo la sperimentazione ad altre classi o scuole, adattando l’intervento ai diversi contesti.
La Road map c’è. Buona scuola a noi.