La diffusione ormai capillare dei social media ha trascinato tutti, nativi digitali e non, in un flusso comunicativo senza soluzione di continuità e il confine tra vita privata e pubblica diventa sempre più sfumato: le emozioni, i ricordi e le immagini, che in passato erano confinati nella sfera privata, oggi sono messi a disposizione di una vastissima platea.
Il sociologo Vanni Codeluppi, introducendo il concetto di vetrinizzazione sociale, ha voluto indicare il fenomeno di “esporre in vetrina” se stessi, in un eccesso di narcisismo a dimostrazione che le forme di comunicazione sono ormai imperniate essenzialmente sul linguaggio visivo.
Ognuno di noi crea una propria immagine virtuale condividendo volontariamente momenti anche significative della propria vita incrementando giorno dopo giorno il proprio lifestream, ovvero tutto il flusso di notizie, gusti e preferenze associato al profilo social.
I figli in vetrina: lo sharenting
Cosa succede però quando i genitori “media moms and digital dads” iniziano a mettere in vetrina i propri figli?
Si tratta ormai di una pratica abituale e in continua espansione, tanto da dover coniare il termine sharenting, un anglicismo che deriva dalla parola share (condividere) e parenting (genitorialità).
Il repentino progresso tecnologico e la relativa trasformazione mediale hanno causato l’evolversi di una cultura che invoglia a essere inglobati dalla rete e quindi a esporre a un pubblico quanto più vasto possibile ogni oggetto o azione che rendono orgogliosi: da una gratificazione lavorativa, a un luogo visitato o, di più, ai propri figli.
È come se il rinforzo positivo, ampiamente studiato e dimostrato, che il potere del “like” ha sul cervello degli adolescenti, si applicasse con meccanismi analoghi anche agli adulti.
In realtà, genitori che condividono troppe informazioni sui propri figli non sono una novità; tuttavia, il moderno stile di vita digitale sta trasformando i genitori in “potenziali distributori di informazioni personali dei propri figli al pubblico di massa”.
Il target di riferimento sembra combaciare con quegli utilizzatori di social media che, abituati a condividere la propria vita on line, una volta diventati genitori tendono a perpetuare la loro abitudine a pubblicare immagini e dati anche relativi alla vita dei loro figli.
Uno studio inglese di qualche tempo fa su un campione di 2000 genitori ha rilevato che, entro i primi cinque anni, vengono pubblicate circa 1000 foto per ciascun bambino: dal momento della nascita alla prima poppata, dal primo sorriso alle prime parole, dai primi passi al primo compleanno. Per alcuni la pubblicazione avviene prima ancora di nascere, grazie ai post relativi alle immagini ecografiche.
In altre parole, ben prima che i bambini raggiungano l’età per essere direttamente protagonisti delle loro storie condivise e inizino a condividere le loro storie, è già presente un “tatuaggio digitale”, avuto in dote dai genitori.
Gli inconvenienti di una eccessiva esposizione
Il problema, quindi, è che molti adulti non considerano la possibilità che i propri figli, quando cresceranno, potrebbero non gradire i post su Facebook o le immagini su Instagram; purtroppo sarà troppo tardi perché tutto ciò che si pubblica in rete è per sempre.
Una eccessiva esposizione potrebbe essere foriera di inconvenienti e rischi, non solo perché le foto e i dati potrebbero essere utilizzati da malintenzionati.
Infatti, accanto alle insidie, anche di rilevanza penale, legate al furto dell’identità e delle relative immagini o alla geolocalizzazione, esistono rischi che potrebbero danneggiare il bambino/figlio dal punto di vista psicologico e sociale.
Il problema è che una fonte potenziale di abuso dei dati dei bambini proviene dai genitori stessi, poiché tutte queste impronte digitali, sulle quali i piccoli non hanno controllo, si accumulano nel web, plasmando la loro identità digitale.
I dati personali immessi nel social possono essere registrati da tutti i contatti e dai componenti dei gruppi a cui si è aderito, rielaborati e diffusi, anche a distanza di anni.
Illuminanti sono state le parole del Garante della Privacy nell’opuscolo “Social Privacy” del 2014: Non esistono più, infatti, “barriere tra la vita digitale e quella reale: quello che succede on-line sempre più spesso ha impatto fuori da Internet, nella vita di tutti i giorni e nei rapporti con gli altri”.
Il compito della scuola
La scuola, sia attraverso il Piano Nazionale Scuola Digitale che tramite i finanziamenti del Fondo Sociale Europeo relativi alla “Cittadinanza e Creatività Digitale”, è attivamente impegnata a costruire percorsi educativi che avvicinino gli studenti (quindi bambini e adolescenti) ai punti fondanti della cosiddetta “educazione civica digitale”, ovvero spirito critico e responsabilità.
- Spirito critico: dietro a straordinarie potenzialità per il genere umano legate alla tecnologia si celano profonde implicazioni sociali, culturali ed etiche.
- Responsabilità: è necessario “governare” il cambiamento tecnologico in modo da indirizzarlo verso obiettivi sostenibili per la società.
Il problema è che finora si è posta l’attenzione essenzialmente sui cittadini di domani dimenticando che anche il cittadino di oggi non può prescindere dal digitale, in quanto il digitale occupa una parte sempre più ampia della cittadinanza globale.
Non è stato colto appieno, quindi, il vuoto informativo e formativo nei confronti dei genitori degli studenti.
Essi dovrebbero essere coinvolti, informati e sensibilizzati in una riflessione generale rispetto all’uso della tecnologia, evitando di incorrere nella pulsione del web e condividendo responsabilmente, solo dopo aver riflettuto sulla relativa opportunità.
Occorre, attraverso semplici e chiare norme di carattere generale, far sì che l’adulto sia consapevole che le proprie azioni nella rete possono oltrepassare i confini del personale spazio fisico: le informazioni messe online dai genitori potranno essere vagliate ad esempio dai futuri datori di lavoro o da chi dovrà concedergli un mutuo.
Ed ecco qualche indicazione di massima:
- familiarizzare con le regole della privacy dei siti con i quali si condividono contenuti;
- usare cautela prima di pubblicare informazioni sulla posizione dei propri figli;
- evitare di condividere foto che mostrino i loro figli nella loro naturalezza;
- valutare gli effetti a breve e lungo termine della condivisione di contenuti che riguardano i figli.
E’ possibile riassumere i quattro punti precedenti con una sola parola: consapevolezza.
E tenere ben in mente che i figli non sono quasi mai nelle condizioni di dire no a un post, un’immagine o un tag e di difendere la propria privacy.