L’interazione tra cultura umanistica e scientifica ha radici antiche, ma mai come nell’era digitale questa relazione si è rivelata così fondamentale. È in questo contesto che l’interdisciplinarietà emerge come un metodo innovativo di ricerca, capace di superare i tradizionali confini disciplinari per dare vita a un dialogo fecondo tra saperi diversi.
Eppure, malgrado il suo indubbio valore, l’approccio interdisciplinare incontra ancora ostacoli e pregiudizi nel panorama accademico italiano. Tuttavia, esistono esperienze significative che dimostrano l’efficacia di questa metodologia: un esempio è il corso di laurea in Filosofia e Intelligenza Artificiale offerto dall’Università La Sapienza di Roma. Un modello che potrebbe rappresentare il futuro dell’educazione universitaria in un mondo dove tecnologia e umanesimo sono chiamati a dialogare sempre più strettamente.
L’evoluzione del dialogo tra cultura umanistica e scientifica
Già nel 1959 Charles Percy Snow con la pubblicazione del saggio Le due culture portava l’attenzione sul dialogo tra cultura umanistica e cultura scientifica, partendo dalla costatazione di un problema comunicativo di fondo tra i due campi del sapere.
Sosteneva però Snow che in ambito sociale e politico il dialogo tra le due culture fosse necessario per assicurare pluralità e integrazione di metodi e vedute. In realtà, se volessimo disegnare una storia del rapporto tra scienze e discipline umanistiche dovremmo constatare che per la maggior parte della storia dell’umanità la distinzione non è esistita.
I filosofi antichi consideravano lo studio della natura una parte integrante della loro speculazione sulle cose del mondo, un’ottica che è rimasta immutata fino alla nascita della scienza moderna e del metodo scientifico sperimentale nel XVII secolo. Un’ulteriore netta separazione si ebbe tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, quando da una parte il Positivismo sostenne la ricerca della scienza pura, svincolata da aspetti culturali, dall’altra il Neoidealismo teorizzò che la vera conoscenza fosse solamente quella filosofica, perché in grado di cogliere l’universale. Si arrivò così, alla metà del Novecento, alla situazione descritta da Snow.
La pubblicazione de Le due culture avviene in un momento particolare: siamo agli esordi dell’informatica come la conosciamo oggi, ossia alle origini di quella serie di innovazioni che determineranno il formarsi della società complessa e la modificazione del sapere scientifico, con una sempre maggiore importanza attribuita alla componente tecnologica, prima considerata ancillare rispetto alle scienze tradizionali. Il dibattito innescato da Snow prosegue nei decenni successivi. Paul Fayerabend pubblica nel 1975 Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, in cui dimostra l’importanza della componente non prettamente scientifica agli esordi della storia della scienza moderna e rivaluta l’importanza della creatività per il progresso. Nel 1995 John Brockman nel volume La terza cultura. Oltre la rivoluzione scientifica analizza l’emergere di una nuova figura di scienziato in grado di parlare non solamente a un’élite composta da altri esperti, ma capace di comunicare con tutti. Sono solamente alcuni esempi di come l’avvento della società dell’informazione abbia progressivamente rimesso in discussione lo specialismo in favore dell’interdisciplinarietà e dell’apertura dei saperi.
Interdisciplinarità vs multidisciplinarità: definizioni e differenze
Ma cosa si intende per interdisciplinarità e in cosa di differenzia dalla multidisciplinarità? Nella ricerca multidisciplinare discipline diverse collaborano per trovare insieme soluzioni, ognuna contribuisce con le proprie competenze, mantenendo le separazioni tra i diversi ambiti; nella ricerca interdisciplinare, invece, le conoscenze di campi diversi concorrono alla creazione di nuovi modelli, strumenti e approcci che non sarebbero potuti emergere in scenari monodisciplinari. Nascono, così, nuovi modi per trovare risposte a problemi vecchi e nuovi.
La situazione della ricerca interdisciplinare a livello internazionale
Oggi, in ambito internazionale molte università offrono corsi di studio interdisciplinari. Negli Stati Uniti oltre 200 corsi adottano nuovi approcci per integrare meglio la conoscenza di arti, discipline umanistiche, scienze, ingegneria e medicina. Si tratta spesso di corsi strutturati intorno a nuove sfide, globali e locali, la cui risoluzione appassiona studentesse e studenti. Anche dal punto di vista della ricerca si va verso una sempre maggiore interdisciplinarità: ad esempio, Horizon2020 finanzia progetti non a partire da temi di ricerca ma in base a obiettivi concreti per il progresso della società; mentre l’UK Research Councils promuove la ricerca interdisciplinare su economia digitale, energia, sicurezza alimentare, incertezze globali, cambiamento ambientale, salute e benessere permanente. Varie università hanno attivato dipartimenti e centri di ricerca interdisciplinari, come il Belfer multidisciplinary center on energy and environment challenges di Harvard e la School of Interdisciplinary Area Studies di Oxford, mentre Stanford ha ben quattro aree di ricerca interdisciplinare.
Ostacoli e pregiudizi verso l’interdisciplinarietà in Italia
In Italia la ricerca interdisciplinare incontra ancora ostacoli a causa delle politiche in materia di assunzione, promozione, valutazione e allocazione delle risorse, che favoriscono le discipline tradizionali. Le strutture delle università, come facoltà o dipartimenti, ricalcano la divisione tra discipline e la ricerca e gli insegnamenti sono ingabbiati all’interno dei settori scientifico disciplinari. Questo si ripercuote sui corsi di laurea, con la conseguenza che le università italiane nella maggior parte dei casi formano ancora figure professionali poco adatte a muoversi tra conoscenze diversificate, mentre il mondo del lavoro mostra che lo specialismo non è un elemento che favorisce l’occupazione e che anche nei lavori più tecnici sono indispensabili abilità di base di comunicazione orale, scrittura, versatilità, capacità organizzative e risoluzione dei problemi. Solo un’educazione olistica che integri arti, scienze umane, scienze e ingegneria può preparare gli studenti e le studentesse ad affrontare le sfide sempre più complesse della società digitale.
Non è da sottovalutare, poi, la persistenza di pregiudizi: da una parte c’è la tendenza dell’area scientifica alla ricerca di un utile (spesso puramente economico) che porta a ritenere superfluo l’apporto dei saperi umanistici, dall’altra la mancanza di disponibilità delle discipline umanistiche a fornirsi degli strumenti di base per il dialogo con quelle tecnico-scientifiche. I risultati ottenuti in alcuni campi specifici, si pensi a quello delle Digital Humanities, dimostrano che l’integrazione è possibile; è necessario, però, lavorare per un approccio più aperto alla conoscenza e al lavoro di gruppo, favorire il finanziamento di progetti di ricerca interdisciplinari e rivedere i corsi di laurea e il sistema dei settori scientifico-disciplinari.
L’IA come campo di studi interdisciplinare
Si tratta di mutamenti che sono in atto all’interno delle discipline stesse: per capirlo basti pensare all’intelligenza artificiale, un campo di studi interdisciplinare per sua stessa natura. Fin dalle sue origini l’intelligenza artificiale ha sfidato i confini del possibile e del conosciuto, il suo proposito tende a forzare i confini della tecnologia e a spingersi verso ambiti che attengono alla scienza della mente e perfino alla metafisica. Allo stesso tempo, gli sviluppi più recenti dei sistemi di intelligenza artificiale hanno aperto un dibattito etico, che è filosofico e sociale al tempo stesso, sull’utilizzo corretto delle tecnologie e sul loro impatto a livello economico, lavorativo e antropologico. L’intelligenza artificiale porta nuovamente alla ribalta il dibattito sulle due culture e ci mostra una via di conciliazione che non è basata su schemi sovraimposti, ma che deriva dalle necessità stesse di un oggetto di studio complesso e le cui implicazioni ricadono in diversi ambiti del sapere.
Il corso di laurea in Filosofia e Intelligenza Artificiale alla Sapienza
Per tutti i motivi descritti finora, l’Università La Sapienza ha attivato il primo corso di laurea in Italia in Filosofia e Intelligenza Artificiale, un corso interfacoltà. Si tratta di un’esperienza che si inserisce nel solco della formazione interdisciplinare delle università anglosassoni e che è già stata pensata in maniera simile, ad esempio, dall’Università di Oxford con l’attivazione di un corso in Computer Science and Philosophy. Il corso di laurea in Filosofia e Intelligenza Artificiale mira a formare persone in possesso degli strumenti per affrontare le sfide etiche e sociali dell’intelligenza artificiale e del digitale in generale. Per gestire lo sviluppo dell’intelligenza artificiale non bastano competenze tecniche, ma c’è bisogno di approccio interdisciplinare, che coinvolga filosofia, sociologia, psicologia, economia, diritto, letteratura, arte. Solo così saremo in grado di utilizzare le nuove tecnologie in modo consapevole, con finalità non unicamente di lucro, ed evitare l’aumento di discriminazioni di genere, etniche ed economiche. I dati del corso in Filosofia e Intelligenza Artificiale della Sapienza sono incoraggianti: 100 iscrizioni il primo anno, 147 il secondo.
Il futuro dell’interdisciplinarietà nell’educazione universitaria
Questi dati mostrano l’interesse verso l’impatto sociale delle tecnologie e provano la comprensione, da parte delle giovani generazioni, della necessità di un approccio interdisciplinare. Pare insomma che il nostro tempo ce lo stia chiedendo e che gli studenti e le studentesse siano pronti ad aprirsi a nuovi orizzonti di formazione e di lavoro, ciò che è necessario ora è avviare un lavoro di adeguamento normativo e delle strutture dell’università che consenta alla formazione di essere al passo coi tempi.