Dal 2010 la gamification è diventata, oltre che una parola di uso comune, una metodologia didattica pienamente accolta nelle aule di tutto il mondo. La gamification è l’uso di elementi propri del game design in contesti non ludici, come l’educazione, il marketing, la salute (Mango Health), la formazione aziendale, la politica (social credit system) e addirittura il terrorismo (Huroof).
Gli studi dimostrano che tradurre gli obiettivi educativi, promozionali o propagandistici attraverso sfide emozionanti, sul modello dei videogiochi, quindi attraverso il conferimento di badge di avanzamento e la visibilità dei grafici delle prestazioni, appaghi il bisogno di competenza e aumenti la significatività percepita del compito[1].
Il termine “gamification” pare sia stato coniato nel 2002 dallo sviluppatore Nick Pelling, fondatore di una start up di pubblicità in-game. In seguito, nel 2008, l’allora Senior Director Corporate Development della gaming company Zynga, Bret Terrill, definì la “gamification” come: “Prendere le meccaniche dei giochi e applicarle ad altre proprietà del web per aumentare l’engagement”.
A scuola, “Gamification” non significa “rendere giocosa la lezione”, piuttosto è applicare elementi propri dei videogiochi nella didattica, per stimolare l’apprendimento delle materie tradizionali.
Cosa avviene mentre giochiamo?
Secondo Jane McGonigal (nota game designer, autrice del libro “La realtà in gioco” ed ex direttrice della Games Research and Development in California) i videogame sono in grado di portare alla luce il meglio di noi. Piuttosto che distrarci dai nostri obiettivi, dice, ci aiutano a concretizzarli. I videogame sono in grado di stimolare motivazione, interesse, creatività, senso di appartenenza e felicità, sentimenti che si traducono in risorse immediatamente spendibili nelle attività quotidiane. Addirittura, è stato dimostrato che i militari americani di ritorno dall’Afghanistan che giocavano dalle tre alle quattro ore a Halo o Call of Duty avevano meno probabilità di soffrire di nevrosi post-traumatiche e di commettere atti di violenza domestica o suicidio. Insomma, secondo la game designer se traducessimo ogni compito quotidiano, dalle pulizie domestiche all’apprendimento, inquadrandolo dentro gli schemi e le regole tipici dei videogiochi, potremmo portarlo a termine con maggiore motivazione, ottenendo, così, risultati migliori.
Che cosa avviene mentre giochiamo? Mikaly Csikszentmihalyi sostiene che i giocatori sperimentino una sorta di rapimento: lo psicologo a tal proposito parla di “flow experience”, un’esperienza ottimale in cui il soggetto è totalmente assorto nell’attività che sta svolgendo con piacere. Le condizioni che rendono possibile il flow sono: un compito possibile da completare, controllabile, con un obiettivo chiaro e dal feedback immediato. Quando sussiste una differenza troppo ampia tra la missione e le reali abilità soggettive, gli individui provano rabbia, frustrazione e ansia: ne consegue un inevitabile allontanamento dalla sfida. Perché l’esperienza ottimale abbia luogo, allora, bisogna regolare la progressione in un climax ascendente capace di coinvolgere profondamente gli alunni. Una partecipazione priva di fatica, così da rendere possibile la concentrazione del soggetto sul “gioco”, distogliendolo da eventuali frustrazioni e preoccupazioni legate al suo quotidiano. Il tempo, in questo caso, risulterà alterato, contratto per il piacere procurato dal gioco.
Se le condizioni ottimali elicitate dai videogame venissero sperimentate nell’aula, in un contesto di formazione, l’apprendimento risulterebbe ovviamente potenziato. Perché l’interesse provocato dai giochi diventi il tono emotivo anche della formazione, sarà necessario applicarle le strutture del game design, mutatis mutandis.
Gamification in aula: come farla e perché, anche oltre i videogiochi
Per la gamification non c’è un quid comune a tutti gli esempi. Basta ritrovare, in contesti non-gaming, quelle meccaniche con cui identifichiamo i videogame. Analogamente, non esiste una lista di qualità che un videogame deve necessariamente possedere per essere definito tale: già il filosofo del linguaggio Ludwig Wittgenstein argomentava l’inesistenza di un quid univoco con cui identificare tutti e soli gli elementi che appartengono a una categoria. “Gioco”, diceva, non ha una definizione valida per ogni attività che definiremmo tale. Sotto la categoria “Gioco” inseriamo pratiche molto eterogenee, legate una all’altra da “somiglianze di famiglia”: come un figlio assomiglia a un genitore ma non all’altro, dal quale, magari, ha ereditato caratteristiche condivise con i nonni, anche per i giochi si possono notare reti di somiglianze incrociate, tali da farci riconoscere una familiarità distribuita, senza che debba necessariamente sussistere in ogni elemento un’essenza condivisa.
La gamification non necessariamente richiede l’uso dei videogiochi. È possibile “gamificare” le attività simulando, in modo analogico, le meccaniche e le trame tipiche del game design. Laddove i videogame diventano strumenti con cui apprendere nozioni e abilità “serie”, si parla di serious game, il quale rappresenta una sotto-categoria della gamification.
A mio avviso, tuttavia, non ha senso includere anacronisticamente nella gamification anche pratiche pre-digitali, come per esempio la simulazione che nel film “La vita è bella” Roberto Benigni improvvisa per il figlio, così da rendergli il lager più lieve. In epoca pre-digitale, si era già pedagogizzato il detto “ludendo docere” attraverso la ludodidattica: tale strategia trovò definizione a partire dai lavori dei noti pedagogisti Vygotskij e Piaget, tra i primi a comprendere il ruolo evolutivo del gioco e la sua funzione formativa. Attraverso l’esperienza e il fare viene appreso il 70% delle informazioni e solo il 10% è acquisito tramite didattica frontale (Modello 70:20:10).
La gamification si può considerare come metodo costruttivistico. L’alunno è posto al centro del processo formativo, è costruttore del proprio apprendimento, che acquisisce attraverso esperienze dirette. Questo approccio consente di amplificare la sua motivazione, permettendogli di memorizzare le informazioni in maniera significativa e più a lungo termine.
Ci sono due diverse fonti di motivazione: una basata sulla padronanza, l’altra sul prodotto (e sul suo paragone con il risultato degli altri). Le evidenze dimostrano che l’apprendimento motivato dal solo voto è efficace solo nel breve termine, invece la volontà di apprendere competenze più vaste garantisce una ritenzione delle stesse a lungo raggio. A tal proposito, il teorizzatore del Mastery Learning, l’apprendimento per la padronanza, Benjamin Bloom sosteneva che ogni alunno potesse raggiungere ottimi risultati se l’apprendimento fosse stato personalizzato, cioè adattato alle caratteristiche individuali, ai tempi e alle motivazioni soggettive. Il programma curriculare andrebbe così diviso in sotto-fasi, dando a tutti gli strumenti migliori per progredire di livello in livello con l’obiettivo di stimolare la comprensione dei processi per risolvere in modo concreto i problemi, senza più distinzione tra teoria e pratica. Anche la socializzazione è un elemento importantissimo di questi approcci, in grado di promuovere al contempo autonomia e auto-controllo.
La gamification permette di segmentare il programma in livelli consecutivi e soddisfa i bisogni di crescita, attività, autostima, mantenendo alti gradi di appagamento e interesse, grazie anche alla customizzazione del percorso.
I videogame garantiscono al soggetto ampi spazi di libertà, personalizzazione, scelta, e rendono immediatamente visibili i progressi. L’errore non è più una definizione scoraggiante, ansiogena, ma è un impulso a riprovare. Al posto della valutazione tradizionale, vengono inseriti i sistemi di punteggio-valutazione tipici del videogioco, come le ricompense che vanno dallo zero in avanti, al posto della classica valutazione sottrattiva, calcolata in base agli errori.
Come suggeriva già il behaviorismo, le ricompense fissano i comportamenti molto di più delle punizioni. I videogiochi, infatti, inducono il soggetto a riprovare, insegnandogli a considerare l’errore come un’opportunità, senza che un solo sbaglio diventi ciò attraverso cui definire la carriera, trasformando il voto in una condizione rimediabile solo attraverso una media matematica. Nel caso della gamification, l’errore blocca il soggetto solo temporaneamente a un livello del gioco, mentre il punteggio viene calcolato sulle effettive progressioni, secondo i propri tempi. Non è importante quanto si sbaglia, ma quando l’impasse viene risolta, acquisendo finalmente la competenza richiesta nel percorso di formazione.
Neal e Jana Hallford[2] descrivono quattro tipi di ricompense, tutte indispensabili per generare esperienze ottimali durante il gioco:
1) Ricompense di gloria: badge, trofei, premi estrinseci che non hanno utilità nel game play, ma che servono a motivare l’alunno, che si vede riconoscere un merito oggettivo e confrontabile.
2) Ricompense di sostentamento: medicamenti che guariscono le ferite, armature, pozioni protettive o scatole e zaini più grandi per ampliare l’inventario. Anche il collezionismo è considerabile una ricompensa. Si tratta della dinamica che sottende l’imperativo del “gotta catch’em a!”, “Acchiappali tutti” del mondo Pokemon.
3) Ricompense di accesso: permettono a un giocatore di accedere a nuove locazioni o a risorse prima inaccessibili.
4) Ricompense di abilità: il giocatore ottiene skills nuove o migliora quelle di base per sbloccare nuove possibilità nel gioco.
Una valutazione fondata sul punteggio dei videogiochi ha il vantaggio di restituire il feedback immediato delle proprie attività: elemento necessario per conservare alti livelli di “ingaggio”. È importante avere un riscontro della nostra azione, altrimenti non trarremmo soddisfazione alcuna dai tentativi. Le prove senza errori né successi resterebbero semplicemente vuote, mai avvenute, così come un canestro invisibile, posto al di là di un muro, non è considerabile un obiettivo. L’apprendimento è un continuo processo di conferme e aggiustamenti: si basa sempre sul confronto tra l’output atteso e quello effettivamente ottenuto ed è solo attraverso un feedback immediatamente visibile che si può aggiustare la parabola di tiro.
Avere un punteggio visibile soddisfa inoltre il bisogno di sfida tipico dell’essere umano, nonché la socialità derivante dai giochi cooperativi. Altri elementi chiave della gamification sono, poi, il mistero, l’azione, il rischio, l’incertezza su cosa possa succedere e una trama emozionale[3] utilissima anche per aumentare le competenze prosociali. Tutti questi elementi contribuiscono a facilitare l’immersione e il divertimento, motivando enormemente gli studenti.
Infine, la gamification ha il vantaggio di tradurre le richieste scolastiche in possibilità concrete all’interno del videogioco, in skills utili ai fini della challenge. È molto importante contestualizzare una materia scolastica e trasformare l’astrattezza di un compito in una prova concreta, la cui finalità abbia un senso pratico, immediatamente comprensibile e utilizzabile. Il noto problema delle 4 carte di Wason, risolvibile applicando le regole logiche del condizionale, veniva risolto solo dal 4% degli individui: tuttavia, quando l’esperimento fu tradotto in un compito concreto, la maggior parte delle persone rispose correttamente, dimostrando di saper padroneggiare la logica formale. La presentazione di un compito incide in maniera cruciale sul risultato.
Gamification per l’apprendimento: esempi pratici
Tra gli esempi di gamification, Ribbon Hero, un videogame attraverso il quale si apprendono le competenze di Microsoft Office o Duolingo, nota piattaforma che consente di imparare le lingue in modo facile, divertente e gratuito. La progressione avviene attraverso un punteggio che garantisce l’avanzamento nei livelli. La descrizione dell’app premette che potrebbe causare dipendenza da gaming.
Gli idraulici, invece, possono usare Virtual Reality House per simulare la costruzione delle tubature, oltre che la gestione dei materiali e dei costi. Anche Virtonomics è un videogame simulativo che promette, in questo caso, di far sviluppare la competenza imprenditoriale, così da aumentare la resa della propria attività.
Brainscape, invece, è utilizzato per creare flashcards, utilissime per la memorizzazione. È un sistema usato anche in epoca pre-digitale: sono carte che prevedono una domanda sul dorso e la risposta sul retro, con un ampio database di flashcards già disponibili per l’uso.
Q-Learning G è una piattaforma che consente agli studenti di padroneggiare il linguaggio di programmazione C. Qualche tempo fa io stessa scaricai un’app, Mimo Code, per apprendere la semantica Python. Prevedeva una serie di quiz ed esercizi di completamento attraverso cui imparare, passo dopo passo, il noto linguaggio.
Conclusioni: bene come training complementare, mai in sostituzione dell’insegnante
Al di là degli evidenti vantaggi della metodologia fino ad ora esaminata, esistono, a mio avviso, alcune criticità abbastanza evidenti.
Innanzitutto nella gamification la motivazione si fonda essenzialmente su premi estrinseci, i meno efficaci sul lungo termine. Secondo Skinner e Belmont, gli studenti meno motivati sono quelli che basano l’apprendimento sull’attesa di ricompense esterne e non sul puro interesse, sull’amore per la conoscenza fine a se stesso. Secondo la teoria della self-determination, sono proprio le motivazioni intrinseche a renderci soggetti autonomi, liberi e determinati a proseguire nell’apprendimento e non individui dipendenti dal giudizio degli altri.
La visibilità del punteggio potrebbe, poi, essere un incentivo solo per qualche alunno. Per molti, di contro, potrebbe invece rivelarsi un ulteriore motivo di ansia da prestazione. Come in Social Dilemma l’inventore del pulsante “mi piace” ha rivelato l’effetto inintenzionale di una funzione pensata non per generare depressione e senso di inferiorità ma per rendere le piattaforme un luogo di gentilezza e reciproco scambio, allo stesso modo anche il punteggio della gamification potrebbe indurre gli alunni a competere negativamente, generando profonda tristezza a causa di un ideale di perfezionismo irreale. La prestazione diventerebbe una sorta di grafico, una classifica e non un’occasione di miglioramento e di crescita solo personale.
Inoltre la metodologia della gamification, come la maggior parte dei metodi costruttivisti[4], ha lo svantaggio di non riuscire a coprire interamente le richieste dei programmi scolastici. Insomma, la gamification potrebbe essere uno strumento con cui addestrarsi su specifiche competenze, un training complementare alla didattica, ma non può essere in grado di sostituire il carisma di un insegnante, unica garanzia contro l’abbandono scolastico e l’apatia adolescenziale. L’obiettivo è saper suscitare interesse in una materia, riuscendo a cogliere collegamenti di valore tra le richieste scolastiche, la ricchezza personale dell’alunno e le effettive necessità del territorio e del mondo del lavoro[5].
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- Cfr. M. Sailer, J. U. Hense, S. K. Mayr, H. Mandl, “How gamification motivates: An experimental study of the effects of specific game design elements on psychological need satisfaction”, in “Computers in Human Behavior”, Volume 69, 2017, pp 371-380. ↑
- Cfr. Hallford, Neal e Jana, Sword and Circuitry, Prima Publishing, Roseville, 2001 ↑
- Cfr. N. Lazzaro, “Why we play games: Four keys to more emotion without story”, Design, vol. 18, pp. 1-8, 2005 ↑
- Cfr. G. De Vecchi, Aiutare ad apprendere, La Nuova Italia, Firenze, 1998, pp. 216-222. ↑
- Cfr. L. Saettone, Connected learning, quando i videogame spingono i ragazzi a studiare, in Agenda Digitale, 2020, url: https://www.agendadigitale.eu/scuola-digitale/connected-learning-quando-i-videogame-spingono-i-ragazzi-a-studiare/. ↑