Negli ultimi tempi s’è ripreso a discutere di contenuti scolastici. Vuoi per denunciare l’attenuarsi dell’importanza di certi insegnamenti, come la grammatica, la storia, la filosofia, vuoi per salutare l’ingresso o il ritorno di altri, ed è il caso dell’educazione civica.
C’è da rallegrarsene, non fosse altro perché con simili aperture si crea scompiglio e si immette ossigeno all’interno di un confronto che da tempo si è andato concentrando su digitale e valutazione: due temi tanto più fossilizzati e fossilizzanti quanto più ci si è trovati a considerarli tecnici e dunque indipendenti da tutto il resto. Altro motivo di soddisfazione verrebbe dal fatto che l’egemonia del “come insegnare”, che per tradizione tendeva a saturare la riflessione collettiva sulla scuola, viene così intaccata da una presa in considerazione del “che cosa insegnare”.
Ma questo basta?
Il problema dei contenuti dell’istruzione
È sufficiente che, di fronte alle lamentate carenze di tanti giovani nel produrre e pure nell’interpretare un testo scritto di una qualche complessità si chieda di rinforzare l’apprendimento della grammatica o che, constatata la loro difficoltà a collocare nel tempo e nello spazio avvenimenti e pensieri che hanno fortemente segnato il secolo scorso e le cui conseguenze si fanno tuttora sentire, si pretenda un rinforzo delle competenze disciplinari che fanno capo a quello che un tempo si etichettava come “asse storico-sociale”?
Temo di no. Ragionando in questa maniera si rischia, infatti, di indulgere allo stesso vizio che ha portato, fin qui, a secare la problematica valutativa o quella tecnologica dal corpo vivo della scuola, facendone delle questioni settoriali, da affidare ai specialisti. Del resto, non c’è storico che non concordi sul fatto che a scuola la sua materia è sacrificata. E analoghe considerazioni farebbero il filosofo, il fisico, lo storico dell’arte. Pure il numismatico, se la sua disciplina fosse prevista nel novero dei saperi della scuola.
Il problema dei contenuti dell’istruzione è, dunque, ben più vasto di quanto non appaia muovendo dalla prospettiva dei localismi disciplinari.
Il “caso” Gino Bartali
Lo mostra il caso recente della traccia della maturità in cui è stato chiamato in causa Gino Bartali. C’è chi, sulla stampa, ha commentato favorevolmente la novità. L’ha fatto, però, saltando a piè pari sull’anomalia rappresentata dalla proposta di un argomento del tutto esterno all’insegnamento storico standard: doppiamente esterno, per di più, quanto a cronologia e quanto ad impianto. Evidentemente la distanza tra l’apparato di valutazione da una parte (i ministeriali che hanno avuto questa bella trovata) e il che e il come dell’insegnamento effettivo dall’altra (i piani di studio, gli orari, i libri di testo) s’è fatta così ampia d’aver reso legittima un’autonomia decisionale di quello rispetto a questi e, tramite la decisione assunta, di aver sdoganato l’idea di un curricolo implicito (evenemenziale, di microstoria della vita quotidiana, per dirla con gli specialisti) non previsto dal curricolo ufficiale (prevalentemente di tipo monumentale, scandito da guerre e trattati).
Due opposte valutazioni del (mis)fatto
Del (mis)fatto si possono dare, comunque, due opposte valutazioni.
La prima, tendenzialmente negativa, mette in luce l’atto di delegittimazione che la procedura più emblematica della valutazione istituzionale – l’esame di stato! – rivolge all’insegnamento scolastico stesso, alla sua forma e ai suoi contenuti effettivi: paradossalmente, una traccia sortita dalla decisione di eliminare la storia tra le tracce propone un tipo e un contenuto di storia che non si insegnano a scuola.
La seconda, più positiva, muove dall’invito, peraltro realizzato ambiguamente e maldestramente, a includere nel sapere di cui dar conto nella prova d’esame un’area di esperienza e conoscenza che pur non prevista dai documenti e dagli strumenti di riferimento appare comunque contigua a quella fissata dai percorsi scolastici “normali”.
In ogni caso, s’è messo in campo un problema di contenuto, che sarebbe improprio e controproducente considerare, una volta ancora, come un tema locale, tecnico, da consegnare ai custodi e ai garanti dell’una e dell’altra disciplina. Non è detto, infatti, che con una scuola meglio attrezzata quanto a grammatica, storia e filosofia, e pure educazione civica, l’ipotetico maturando si troverebbe più a suo agio nel trattare l’argomento Bartali (argomento che, nella sua presunta “semplicità”, ha il potere di toccare assieme e intrecciare questioni di storia, educazione civica e pure filosofia).
Ciò che emerge da questo esempio, ma altri se ne potrebbero fare, è che al fondo della questione dei contenuti scolastici, di quelli che si vorrebbero rinforzare, di quelli che si vorrebbero includere, c’è un problema di impianto, di forma, di ordinamento. Possiamo certamente aggiungere pagine al manuale di storia, ma come si riuscirà a rendere, lì, l’immaginario di cui Bartali è tramite e catalizzatore, un immaginario fatto di foto, filmati, radiocronache, figurine, tappi, storie, vissuti individuali e collettivi?
La messa in crisi del paradigma testuale
Di fatto, stiamo assistendo (perlopiù impotenti, pedagogicamente parlando) alla messa in crisi del paradigma che fin qui ha garantito la produzione/riproduzione dei saperi di livello elevato, quello che la tradizione ci ha consegnato come perfettamente coincidente con la forma libro, in particolare nella sua versione a stampa: una modalità dell’esperire e del pensare centrata sulla lingua scritta e organizzata secondo modalità lineari e sequenziali. Accanto a questo paradigma che per comodità potremmo chiamare “testuale” è andato sviluppandosi, nel corso del secolo scorso, fuori della scuola, nel mondo, un’altra forma di ordinamento dell’esperire e del conoscere, centrata sulla logica di rete.
All’origine di quest’altra modalità stanno le crisi degli ordinamenti scientifici e artistici maturate nel passaggio tra Otto e Novecento, il cui effetto ha solo tangenzialmente toccato le istituzioni addette alla riproduzione del sapere (scuola e università, ma non solo) mentre ha profondamente intriso di sé, grazie all’azione dei media dell’audiovisione, il comune sentire. Generazioni di giovani hanno “respirato” il nuovo clima tramite la musica, i fumetti, il cinema, la televisione, infine con la rete: per loro, per tutti noi, è stato più facile sentirsi in sintonia con lo spirito della teoria della relatività più da lettori di Superman (Nembo Kid!) che da studenti di scuola, o ritrovarsi nelle sonorità dodecafoniche più da ascoltatori di jazz o rock che da allievi del conservatorio, o anche scoprirsi sensibili alle forme e ai cromatismi delle avanguardie pittoriche più da consumatori dei cartoni animati che da iscritti all’accademia. Per non dire del tanto di Joyce e di Woolf e di Mann, della loro indole, ch’è profuso nella narrativa degli attuali serial televisivi.
Quanto poteva, quanto può reggere una simile dissociazione tra il sapere vissuto e il sapere riflesso, tra esperienza mondana e esperienza trascendente, tra mondo e scuola? Ad essere onesti, si dovrà ammettere che la sua sopravvivenza è andata al di là di ogni corretta previsione. Tanto più che, a renderla ancora più anacronistica, è intervenuta, da tre decenni ormai, la rivoluzione digitale, la sua fenomenologia e soprattutto la sua ontologia: penso con questo a tutto ciò che ha ufficializzato e “consacrato”, anche a livello concettuale, la mentalità reticolare, al di là di ogni nostra riduttiva interpretazione socioeconomica dell’universo che ne è sortito, anzi di questo nostro universo.
Il problema della revisione degli insegnamenti scolastici
È in una simile prospettiva impegnativa e “alta” che andrebbe affrontato e discusso il problema della revisione degli insegnamenti scolastici. Profittiamo dunque di Gino Bartali per andare in fuga col pensiero.
L’ho sostenuto in precedenti articoli, su queste stesse colonne. Il “leggere, scrivere, far di conto” non basta più, e nemmeno assicura il raggiungimento di quel che promette (ossia che gli scolarizzati sappiano leggere e scrivere) e che un tempo garantiva, almeno agli eletti. Occorre aprirsi al “vedere, ascoltare, fare”, ad apparati di concettualizzazione altrettanto sofisticati e complessi di quelli classici, anche se non saturati completamente dalla parola, scritta e non scritta. Occorre ripensare coraggiosamente l’intero sistema dei saperi scolastici, fuoriuscendo da modelli disciplinari (ed editoriali) ottocenteschi.
Già sarebbe un bel passo in avanti riconoscere che l’intero comparto dei contenuti scolastici vada ripensato nei suoi più intimi presupposti. La smetteremmo di baloccarci con la proposta di aggiunte e integrazioni ai saperi/libro. E potremmo cominciare a guardare con fiducia a quei docenti e dirigenti, non sono pochi, che andando controcorrente, stanno sperimentando generosamente nelle loro scuole, delle “isole di futuro”, liberandosi e liberando gli studenti, almeno per un po’, della camicia di forza degli orari, delle discipline, dei libri di testo, dei test, insomma: dello scolasticismo burocratico. A questi pionieri, esploratori, precursori, antesignani, anticipatori, ma anche guastatori (dello status quo) ho dedicato il saggio Zona franca. Per una scuola inclusiva del digitale, in uscita presso Armando Edizioni.