Formazione

Quale digitale per l’età pre-scolare: cosa considerare



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Il fenomeno definito come concentrazione dell’attenzione e della seduzione visiva si trasforma in una zona militarizzata dal digitale che rischia di diventare il nuovo attore di un processo inequivocabile di co-formazione. Ecco l’impatto a scuola, nella fascia d’età 0/6, dove si misura il gap che mette in crisi il compito educativo della scuola

Pubblicato il 22 set 2023

Mario Morcellini

Professore ordinario emerito in Sociologia della Comunicazione e dei Media digitali alla Sapienza Università di Roma



Il digitale prima della scuola: focus sull’età per costruire il futuro

Oggi è tempo di una cartografia dei cambiamenti sociali a cui le scienze dell’uomo aspirano. In forza di questa legittima postura conoscitiva, non pochi studi reclamano l’attenzione dei lettori, ricorrendo ad un incipit apparentemente consunto: c’è qualcosa di radicalmente nuovo nel nostro tempo.

La prima novità riguarda l’età della vita più delicata e strategica per la costruzione del futuro. La novità di un’infanzia che fino a pochi anni fa si avvicinava alla scuola, e addirittura al rituale d’ingresso, senza una vera e propria qualificazione dello spazio di attesa tra la nascita e l’avvio dell’esperienza formativa.

Cosa perdiamo acquisendo abitudini e scelte diverse dal passato

Già oggi questo è un vero e proprio campo di battaglia, a partire dalla constatazione
di un tempo la cui intensità e durata sono cambiate profondamente sotto i nostri
occhi. Infatti negli ultimi anni, i bambini non “nascono” alla società nel momento di ingresso a scuola, ma si cimentano molto rapidamente con la crescente concentrazione dell’attenzione rappresentata dalla bellezza e modernità dei due
caratteristici device digitali, tablet e smartphone.

Ma non si fermano qui le novità. Altre coinvolgono le procedure con cui le scienze della cultura approcciano i rapidi cambiamenti dei fondali simbolici delle nostre esistenze, in qualche misura, ridimensionando fisiologicamente ciò che è nuovo e sovrastimando il fatto che esso si confonde e si “incarta” continuamente con il già visto, almeno fino al momento in cui scatta l’interrogativo su cosa perdiamo acquisendo abitudini e scelte diverse dal passato [1] .

Il gioco caratteristico della modernità è proprio l’oscillazione continua tra vecchio e
nuovo
. Ma su questo tema non si registra un’adeguata attenzione perché ognuno di
noi tende a mappare il “mondo antico” considerando il presente come un suo
prolungamento, quasi prevalesse nel nostro sguardo l’idea che la continuità
sormonta comunque le differenze, mentre stiamo vivendo una fase di terremoto che
Papa Francesco ha chiamato esattamente “cambiamento d’epoca”.

Non si tratta allora di discutere se l’adulto di oggi sia antiquato (secondo quanto aveva ammonito Günther Anders [2]), perché il radicale licenziamento del passato, ma soprattutto l’affermazione disordinata di una cancel culture fanno pensare ad un radicale cambiamento antropologico. Certamente non siamo la prima generazione che si interroga sul mutamento, e dunque niente di nuovo sotto il sole. Ma non a costo di non riconoscere le novità profonde che stanno emergendo, circoscrivendo dati più precisi e ancora indefiniti per una compiuta osservazione del nuovo soggetto moderno. Del resto è in gioco il modello di sviluppo non solo sociale, ma quello di ognuno di noi. E dunque dobbiamo mettere in ordine il nostro sapere e dare un senso ai trend oltre
l’individualismo
, selezionando segni distintivi rispetto al passato. Solo così si
affermano nuove immagini sociali, una diversa “percezione del tempo” che ne comporta la sensazione di labilità e svuotamento, una sottovalutazione generale del
fatto che il mutamento delle impostazioni culturali e simboliche presenta sempre un
conto in termini di valori, e persino in termini di adeguata definizione della loro
rilevanza nella vita.

Ecco come l’accelerazione percepita del tempo coinvolge e stravolge funzioni sociali elementari, mettendo in discussione la consecutio temporum nei processi di crescita e una piena presa di possesso delle parole.

Chiara Saraceno | Povertà educativa | festivalfilosofia 2022

Zero/sei: il digitale a scuola nell’età pre-primaria

Già Gabriella Paolucci [3] ha notato, in un contesto più generale, che la compressione spazio/temporale provoca una rottura degli equilibri precedenti, ancora una volta
incidendo sugli stili di conoscenza del mondo.
Diventa allora una vera scommessa anche teorica riflettere sui cambiamenti posti
all’inizio della vita, per la buona ragione che si tratta di un periodo poco approfondito dalla letteratura contemporanea e su cui le variabili di impatto risultano semplici e facilmente leggibili anche in termini di interferenze.

Prendiamo le mosse dalla natura assorbente dello sguardo dei bambini verso i digital media, che già di per sé si configura come una novità assoluta, poiché solo fino a pochi anni fa prevaleva una diversa varietà di interazioni e possibili indirizzi di socializzazione che oggi appaiono sullo sfondo. Infatti la familiarizzazione e sintonia che i bambini rapidamente esibiscono verso la cosmologia comunicativa dei media digitali mette in evidenza che questi due mondi letteralmente si aspettavano.

Una tale evidenza è persino ovvia da parte dei grandi player mondiali degli immaginari, a cui era certamente chiaro che il mercato dei bambini potesse diventare un ingrediente fondamentale di successo e accreditamento.

Ben diversa è la nostra postura volta a interrogarsi su un’autonomia percepita che rischia di diventare impenetrabile per gli adulti. Entro questo processo è difficile non
riconoscere un aspetto più squilibrante del percorso di crescita, e cioè, da un lato, la velocità nel “riconoscimento di affinità” tra linguaggi e tecnologie digitali e, dall’altro, aspettative e bisogni profondamente cambiati da parte dei bambini.

I nodi

Al momento è presto (e soprattutto complicato) per porre il nodo del diverso potere di
impatto dei due fenomeni
. Ma è tardi per riconoscere che tutto questo non può essere senza conseguenze per la costituzione della mente, dell’espressività, degli
stili e della stessa varietà comunicativa dei bambini
. Una letteratura sia scientifica che divulgativa non ha mancato di segnalarci quanto tale realtà profili un processo di “conquista” delle menti non solo degli adulti ma di tutti [4]. Soprattutto bambini [5].

Anche quest’ultima è una precisazione molto riduttiva, poiché se è certamente in questione un processo di implementazione delle mentalità degli uomini contemporanei, e dunque sulle architetture cognitive imperniate su nuove relazioni
tecnologiche, non possiamo non riconoscere che un tale processo può ingigantirsi in termini di autorevolezza e credibilità se proiettato su quanti stanno costruendo e abbigliando la propria identità.

Da un lato, l’impatto degli adulti di riferimento resta figurativamente al suo posto, ma troppo spesso si confonde con una specie di distrazione e conseguente vuoto sociale rispetto ai nuovi venuti. Dall’altro, per contrasto, il fenomeno definito come concentrazione dell’attenzione e della seduzione visiva si trasforma in una zona militarizzata dal digitale che rischia di diventare il nuovo attore di un processo inequivocabile di co-formazione.

Un nuovo cantiere conoscitivo

Bastano questi pochi spunti per dichiarare aperto un cantiere conoscitivo radicalmente nuovo, che chiama in causa etica e deontologia di quanti debbono pensare e verificare la loro capacità educativa [6]. Ma fa intravvedere anche responsabilità nuove della politica, e meglio ancora, delle policy soprattutto sovranazionali chiamate a pensare nuove strategie di adeguazione e di reazione.
Si apre dunque un diverso spazio scientifico nel quale l’unica cosa a cui non dovremo
cedere è la disputa sulla proprietà e affinità di questo imponente segmento di
ricerca, poiché solo il concorso di tanti saperi può ridurre quello che sembra un
certo ritardo nel mettere in campo un pensiero strategico.

La titolarità scientifica non potrà che essere plurale. Ma è difficile non annotare che chi studia comunicazione è in vantaggio nel capire o intravvedere tanti nodi di influenza delle tecnologie e di definizione del tipo di cultura che esse comportano.

L’unica certezza è che i settori scientifico-disciplinari sono troppo autoreferenziali e chiusi rispetto ad una tematica che, anche a causa delle continue novità nella comunicazione, va affrontata con una sensibilità larga che dovrebbe ispirarsi ai “novissimi”.

Sullo sfondo si profila un aumento di responsabilità per tutti quelli che non vogliono chiudere gli occhi sulla realtà semplicemente perché è offuscata da una corsa che appare quasi estrema.

L’indagine

Questo territorio è emerso con chiarezza ai miei occhi a partire da una lunga ed elaborata indagine [7] che già nel decennio precedente è stata avviata, riempita di contenuti e per molti versi ultimata, sempre in presenza di un clamoroso ritardo di finanziamento da parte di soggetti pubblici che pure l’avevano sostenuta nella parte programmatica.

Questa ricerca è stata, almeno per la parte sociocomunicativa e giuridica, documentata per tempo in diversi interventi e convegni scientifici [8], ma soprattutto in un monografico della rivista Comunicazionepuntodoc.

L’obiettivo di quell’indagine ampia e ambiziosa era, infatti, quello di offrire elementi utili anche ai fini di eventuali applicazioni didattiche dei dispositivi touch screen e degli smart objects e, più in generale, del ruolo della comunicazione in un tempo in cui essa non implica più una società ordinatrice ed un punto di riferimento esterno alla cosmologia dei media (Morcellini 2013) [9].

Erano queste le principali istanze che hanno spinto a realizzare un team di ricerca con due anime distinte, ma fortemente correlate. Da un lato, i partner universitari (Sapienza Università di Roma, Università di Napoli “Federico II”, Università di Salerno, Università di Trento). E dall’altro, quelli tecnologici (Engineering Ingegneria Informatica, capofila del progetto, Fastweb, Interactive Media e il Consorzio iCampus).

Dalla sinergia fra queste sensibilità conoscitive e specifiche expertise dei singoli soggetti è del resto nato il Progetto di Ricerca Inf@nzia DIGI.tales 3.6, vincitore del bando PON Ricerca e Competitività 2007-2013 – “Smart Cities and Communities and Social Innovation”, promosso dall’allora Ministero dell’Università e della Ricerca con l’intento di proporre un rinnovamento dei modelli educativi delle scuole dell’infanzia, favorendo, in un’ottica di interazione con insegnanti, gruppo dei pari e famiglia, il potenziamento delle modalità di esplorazione e manipolazione dei più piccoli.

L’ipotesi di un Monopoly digitale prima della scuola

Bambini e giovani di oggi possono essere descritti attraverso una semplice formula semantica: quella dell’indicativo presente. Il trapassato prossimo non esiste più, e
perfino l’imperfetto (la forma linguistica dello ieri) sembra tramontato. A dir la verità anche il futuro non è messo bene, in questo caso seguendo perfettamente la proiezione di quello che la realtà percepita presenta a ragazzi e giovani.

In tale contesto lo spasmo di questi ultimi nei confronti della comunicazione è profondamente indicativo della percezione di vuoto addebitata al vocabolario della
vecchia educazione. Allora riflettiamo su alcuni caratteri che possiamo solo accostare speculativamente a questo ritratto dei nuovi venuti con la comunicazione.
Per nostra formazione culturale, non riusciamo a cogliere bene cosa significa per gli uomini cambiare tutto e veder cambiare tutto. Partiamo allora da un primo aspetto connaturato al modo in cui la comunicazione sovrasta le persone.

Non c’è simmetria nel rapporto tra soggetto e media, mentre il soggetto crede di essere in una situazione di parità quando addirittura non si percepisce alla regia delle scelte.

Cerchiamo dunque di rappresentarci bene il vissuto profondo del nesso diventato assolutamente preferenziale con la comunicazione perché da qui discendono alcuni
aspetti degli atteggiamenti di fondo con cui il soggetto in età scolastica gira la testa
verso i media digitali
.

Dobbiamo inoltre domandarci se non ci sia, più che in passato, un eccesso di pulsioni individualistiche nell’atmosfera culturale che il ragazzo già respira nel mondo in cui è immerso. Ora esse sono frequentemente antisocietarie e dunque enfatizzano un modello di sviluppo individuale, meno legato che in passato agli adulti e persino al gruppo dei pari.

Per converso ci è chiaro, anche storicamente, che la formazione e l’educazione possono darsi solo in società e dunque diventano più difficili in un contesto di individualismo e di frammentazione. Anzi è proprio questa frammentazione l’opzione tipica dell’esperienza mediale che spinge a cercare altrove il senso, o almeno un momento di ricomposizione, ed è così che la comunicazione assurge a grammatica fondamentale a cui il soggetto si volge per essere uguale agli altri, ma anche per sentirsi diverso dalle voci degli adulti circostanti, nell’illusione di costruire una sua personalità nuova e alternativa. Un vero sistema operativo della società contemporanea, destinato dunque a costruire un altro modello di relazioni prevalentemente virtuali.

Networking individualism

La letteratura teorica sui media ha definito tale trend come networking individualism, ma questa celebrata formula ideata da Castells va verificata. Così sembra sollecitare piuttosto un rovesciamento, suggerendo l’idea che le relazioni comunicative, definite da Thompson quasi interazioni, sostituiscano le relazioni sociali, ormai per molti versi
congedate in termini di coinvolgimento e priorità dell’attenzione.

La stagione della formazione

Occorre la pazienza di scoprire tracce della modificazione personale, psicologica e quasi percettiva del ragazzo che vive la stagione sempre più tempestosa della formazione. Può aiutarci l’indagine sugli interessi del soggetto emergenti dal suo sistema di orientamento soprattutto comunicativo, nella speranza che dalle architetture cognitive riscontrabili nelle frequenze al livello di scelte e comportamenti (ad alto tasso di ripetizione), emergano tratti culturali nuovi e da definire con grande pazienza.

Le tendenze

Accanto alle pulsioni, già segnalate sopra, anche per rendere più concreta l’implementazione di quel concetto, si individua un importante trend (o meglio un’accentuata disponibilità) alla disinibizione, aspettative corte quanto i pensieri, un evidente disinteresse nei confronti di regole condivise e una noncuranza per gli altri che induce una perdita di empatia nella vita e rischia di segnare un’età della formazione.

Qui appare nella sua portata quel concetto di “fine del potere di assimilazione della
cultura” [10], correlato al profondo mutamento dei modi in cui il soggetto percepisce e
recepisce il presente. Non si può trascurare, del resto, che il giacimento di pulsioni sia
sovralimentato dalla disinibizione, a sua volta strettamente connessa alla disintermediazione e al disordine informativo condizionato dalle fake news.
Si tratta dunque di lavorare ricorrendo all’inferenza. Dall’osservazione, attraverso un
processo faticoso di scavo e verifica, arrivare alle conclusioni e dunque alla formulazione di possibili ritratti tipologici
.

Lo studio

Del resto, superare le crisi significa anzitutto studiarle, altrimenti si afferma una generica retorica del cambiamento incapace di cogliere cosa resta dopo. Da esse, infatti, si esce rafforzando la fiducia, ricostruendo nuove geometrie sociali e affinità diverse rispetto al passato, contro ogni rischio di isolazionismo e relativismo che altrimenti diventa la cicatrice della nostra epoca.

I Care, We care: una responsabilità collettiva di fronte al cambiamento

Non è una scelta di maniera chiamare ora in causa il centenario della nascita di Don
Milani
[11] per l’attualità dei messaggi che ci consegna e per il grande esperimento
educativo riconducibile alla sua impronta.

A partire da quel magistero, buona parte della cultura e della ricerca ha considerato la povertà formativa un rischio connesso ai processi educativi. Invece il prodotto di questa sventatezza collettiva, rispetto a cui nessuno è davvero esonerato da responsabilità, dimostra che ogni fenomeno significativo di perdita di studenti lungo il percorso si traduce in un contributo alla fibrillazione della democrazia. Se a tutto ciò si aggiunge l’aumento del chiasso della comunicazione digitale ed un’ignoranza pubblica sempre più urlata, ne discende che il danno non è solo quello inferto ad un’assunzione di responsabilità politica, ma al clima culturale e valoriale che si sta instaurando, anche in forza della veloce globalizzazione degli immaginari.

Don Milani ha speso la vita condividendo un’idea semplice e radicale: ogni ragazzo che non riusciva a raggiungere e coinvolgere diventava una sconfitta pro futuro. In questi anni, la controprova è che le percentuali di dispersione o parziale disimpegno dalla formazione sono state un ingrediente decisivo posto contro gli ideali dell’uguaglianza e della promozione sociale.

Ecco allora che il messaggio del maestro di Barbiana diventa quanto mai pertinente.

Gli indicatori della situazione d’allarme sulla formazione

Egli non avrebbe esitato ad intervenire su quello che ruvidamente dobbiamo definire come allarme sulla situazione contemporanea della formazione, provocato da evidenti indicatori di spaesamento normativo, fragilità di risposte e permanenti difficoltà ad individuare forme di tutela adeguate all’aggressività delle nuove piattaforme digitali. Tutto ciò sollecita una nuova responsabilità da parte degli organismi di regolazione chiamati in causa dall’impatto della comunicazione proprio per fronteggiare questa contrazione delle chance formative che la letteratura ormai individua come “povertà educativa digitale” [12].

Sulla base di tale presupposto, e tanto più dopo una prolungata stagione di emergenza segnata dal Covid, occorre rinnovare l’attenzione sulla straordinaria novità di un incipit “educativo” che va in scena prima dell’ingresso formale nella scuola primaria, costretta così a confrontarsi con uno dei passaggi più critici della condizione moderna.

Lo scenario culturale sta cambiando più radicalmente di quanto possiamo renderci conto, in termini non tanto di crisi dei valori, quanto di troppo rapidi processi di sostituzione. Non c’è bisogno di ricordare che rapidità e ritmi dei mutamenti socioculturali moderni [13] non coincidono agevolmente con le dinamiche formative. E questo gap mette ancora una volta in difficoltà il compito educativo della scuola, rischiando sia di compromettere la disponibilità dei bambini all’educazione, che il ruolo e la passione degli stessi insegnanti.

La deriva tecnologica

Si tratta di riflessioni tanto più degne di attenzione per quelle frange sociali di
bambini ancora escluse dall’istruzione pre-primaria
e dunque potenzialmente a
rischio di “deriva tecnologica”. Se è vero infatti che la percentuale di iscritti alle
Scuole dell’Infanzia – una fase del percorso da considerare sempre più centrale per la
crescita dei minori – è, in Italia, notevolmente aumentata attestandosi al 91%, è
innegabile che la distanza rispetto al nuovo obiettivo indicato dall’Unione Europea
(96%) sia ancora da colmare [14]. Ma il disallineamento è ancora più rilevante

sull’offerta di asili nido e di servizi 0-3-anni, ambito in direzione del quale, non
casualmente, sono stati destinati importanti fondi del PNRR
.

Gli elementi di criticità e disagio che incrinano il progetto formativo

Una tale presa d’atto è capace di richiamare caratteristiche e ragioni costitutive del cambiamento spingendo ad individuare gli elementi di criticità e disagio che possono incrinare l’efficacia del progetto formativo, fermo restando che bambini provenienti da famiglie più attente e culturalmente dotate sembrano comunque manifestare una minore “dipendenza” dal sovradosaggio di device digitali.

Sulla base di queste premesse, riflettiamo sui dati essenziali del consumo mediale relativo alla fascia 0-6 anni, richiamando i dati di sintesi sulla “dedizione” dei bambini (poi ragazzi e giovani) alle interfacce digitali, essenzialmente tablet e smartphone. La dilatazione dei tempi di attenzione è infatti radicalmente nuova e diversa anche rispetto alla fase storica in cui si parlava acriticamente di teledipendenza [15].

Peraltro, al tempo del festival della connettività, l’amplificazione percettiva che le tecnologie digitali regalano (non solo ai giovani), finisce per facilitare una vera e propria assuefazione ai climi culturali dominanti.

Tutto ciò rischia di tradursi in un’arma di distrazione e desensibilizzazione del pensiero, con il pericolo conseguente che tutti finiamo per diventare nient’altro che ciò che fa di noi la comunicazione. Una nuova forma di “disabilitazione” degli individui, in nparticolare quelli dentro il percorso educativo, che può tradursi in povertà formativa, e dunque in una brusca riduzione delle possibilità di partecipazione e cittadinanza.

Le radici del piacere: il prolungato contatto con il touch dei device

Il problema più generale che dobbiamo porci è capire le radici del piacere alla base del prolungato contatto dei ragazzi con i device digitali. È plausibile attenderci che la
funzione psicologica principale assolta dalla tecnologia sia quella dell’entropia comunicativa e della centralità del di-vertimento.

Se tutto questo diventa totalizzante, sfiorando la dipendenza, la funzione della scuola risulta compromessa.
Ma senza una presa d’atto delle ragioni della dedizione alle piattaforme non si riesce
a restaurare un canale formativo adeguato.
Nella crescente moltiplicazione dei dispositivi comunicativi che consentono il collegamento in rete, il ricorso a strumenti che utilizzano il touchscreen [16] ha preso il sopravvento rispetto alle tradizionali tastiere fisiche dei computer fissi o portatili.

Già dal 2017 si segnala l’avvenuto sorpasso delle interfacce touch rispetto a quelle tradizionali, protagoniste di una navigazione sempre più mobile (Audiweb Trends, a partire dal 2017 e successivi aggiornamenti) [17].

I dati, però, raccontano anche un’urgenza conoscitiva non più rimandabile, tutta inscritta nel divario tra l’elevata penetrazione delle touch technologies tra giovani e
giovanissimi e il bisogno di una ricognizione sistematica sull’utilizzo di tali strumenti
nella fascia d’età 0-6
.

Anche il nostro Istituto nazionale di statistica, che negli anni ha aggiornato l’impianto metodologico delle sue rilevazioni sui comportamenti degli italiani rispetto alla tecnologia, a lungo ha concentrato l’attenzione per smartphone e tablet a partire dai quattordicenni [18].

Una certa disorganicità dei dati puntuali sulla penetrazione di queste tecnologie tra i giovanissimi rende ancor più preoccupante, tanto più dopo i lunghi tempi della didattica a distanza (Dad) [19], l’assenza di un framework teorico coerente e condiviso per quanto riguarda gli effetti dell’utilizzo dei touch screen tra i bambini fino a sei anni.

Tessere di un mosaico da analizzare

Singoli recenti esperimenti, di impostazione quasi esclusivamente psicologica e laboratoriale, iniziano a comporre un timido mosaico di risultati. Manca, però, un’analisi complessiva dell’impatto sociale di queste nuove tecnologie su una fascia d’età così delicata dal punto di vista dello sviluppo cognitivo e comportamentale.

L’impatto sociale del digitale sulla fascia d’età 0/6

Ecco perché diventa necessaria e urgente una vertenza conoscitiva sul tema.
Dobbiamo ricorrere ad un’espressione volutamente provocatoria parlando di bambini come “soggetti sociali non identificati”. Rischiano di restare sostanzialmente sconosciuti, a partire dal fatto che non presentano le caratteristiche di organizzazione del discorso e sequenza logica tipiche (più o meno) degli adulti.
Senza pensare, inoltre, che in questi livelli di età non si è ancora compiutamente costituita quella risorsa di personalità che è la memoria. Occorre, pertanto, tematizzare l’incredibile capacità di suggestione delle tecnologie che puntano sull’immagine e sullo schermo, e sulla possibilità di agire quasi immediatamente su queste forme della rappresentazione attraverso l’intervento diretto, ma soprattutto performativo, della mano.

A maggior ragione per quanto riguarda la fascia d’età prescolare, una stagione in cui è possibile osservare l’impatto dei media sullo sviluppo cognitivo, emotivo e relazionale del bambino, prima dell’incontro con gli insegnanti, che pure è stato da secoli una specie di cerimonia di apertura alla conoscenza.

Effetto Dad durante la pandemia

Proprio la scuola, durante la crisi Covid, ha rappresentato il teatro di ingresso ufficiale delle tecnologie nella vita di molti bambini soprattutto della primaria. Tutto questo è attestato (anche) da una ricerca condotta dalla Università Milano Bicocca sulla fascia di età 1-11 anni. Essa rileva che i bambini in età scolare hanno utilizzato di più i device digitali, anche se sono stati mediamente impegnati (53,4%) fra le tre e le quattro ore con la Dad.

L’effetto ‘stanchezza da digitale’ non è soverchiante. Anzi, si può forse ipotizzare una sorta di adattamento all’utilizzo dello strumento, che non viene più percepito come un qualcosa di inedito.

Per i bambini al di sotto dei 5 anni, invece, il tablet e altri device mobili sono stati presenti per motivi di svago e per passare il tempo del confinamento casalingo, in modo più intenso laddove i genitori possiedono un titolo di studio basso [20].

Serve un programma di ricerca sistematico e plurale

Lo scenario delineato sollecita la necessità di un programma di ricerca sistematico e plurale su questi temi e sulle relative implicazioni, concentrato sull’analisi delle conseguenze in termini di socializzazione alla tecnologia.

Si tratta di un focus specifico e stringente, orientato a mettere a sistema una suggestione teorica di lungo corso che si sostanzia nella novità delle interfacce ospitate dai tanti dispositivi tecnologici che fanno compagnia ai bambini.

Dobbiamo tener conto che proprio in quella fascia di età cominciano ad esplicitarsi nuove pulsioni identitarie, con comportamenti che delineano una percezione di sé sempre più anticipata e sostanziata da spinte anche aggressive.

La fatica della socializzazione

Questo profilo incerto che si intravvede rende più complicata la successiva “fatica della socializzazione” coincidente con il percorso scolastico poiché il sentiment dei bambini, iperstimolato dalla compagnia digitale, offre una gratificante sponda anche espressiva alla grammatica dei comportamenti. Impossibile non annotare che il sovradosaggio di stimoli mediali inerisce alle aree cerebrali del bambino, alimentando interessi completamente nuovi per quella fascia di età e comunque manifestandosi in un’intensità di relazione con i dispositivi che tutto è meno che una garanzia di formazione. Il problema è che sappiamo ancora troppo poco di loro.

La possibile spiegazione è che le ricerche sono diacroniche, e le interpretazioni spesso “di seconda mano”: ci si limita a confronti spontanei con la propria esperienza e a libere associazioni di idee osservando i nuovi venuti.

L’anticipazione cognitiva

Bisogna invece capirli così come sono. Soltanto così si può intuire di più sulla funzione dei media. E tutto ciò implica anche prospettare un superamento del media system, in un nuovo contesto in cui la frammentazione sovrasta la ricapitolazione e dunque la possibilità di riconoscere un sistema ordinato.

Se non riflettiamo sui nuovi trend non si coglie l’aspetto potente di “anticipazione cognitiva” che essi portano con sé e che forse fa intravvedere il vero gadget di successo nelle scelte giovanili (l’esempio più affine nel vecchio sistema mainstream è stato prima Italia 1 e poi MTV).

La mappa dei cambiamenti

La mappa dei cambiamenti è tuttavia ben più ampia e attende di essere adeguatamente compilata. Si va da un radicale mutamento della visione della vita ad una riclassificazione non meno rilevante della percezione dell’adulto, genitore e tanto più maestro.

A ben vedere quest’aspetto è così significativo da ipotizzare addirittura una derubricazione di centralità del suo valore nell’interazione quotidiana.

Infatti è impossibile non mettere in dubbio l’ipotesi che siamo di fronte ad una minima quantità di socializzazione documentata dai cambiamenti delle agende quotidiane, dai modelli di gestione del tempo, dall’ipertrofia dei consumi mediali, da uno slittamento significativo dei sostantivi di valore e da una pericolosa confusione di reale e virtuale, ma anche di vero e falso comunicativo fino alle fake, che finisce per costruire una black box di contenuti in cui è impossibile capire cosa resterà.
Parliamo di comfort zone perché la destrezza digitale induce empatia nella visione
della loro personalità in costruzione
. Ma la verità è che comfort significa semplicemente un’autonomia non assistita dalle figure di mediazione [21] .

Chi è mancato nello scambio educativo

Sarebbe logico interrogarci su “chi è mancato” nell’esercizio dello scambio educativo e nell’interazione con i bambini. Ammettiamolo: è un quesito ingeneroso perché nessuno vive con chiarezza processi che non sono stati adeguatamente coltivati e annunciati dalla cultura e dalla ricerca.

Tuttavia è certo che i genitori reagiscono troppo spesso con la distrazione e con la vaga speranza che le cose cambieranno all’arrivo della scuola. Ma in realtà la stessa capacità di gestualità affettiva è messa in discussione, ben più che in passato, dall’immersione digitale che troppo spesso finisce col costruire un muro divisorio con genitori e famiglia.

In questo contesto il ruolo del genitore sembra già “usurato” dal digitale, perché il
maestro può contare almeno sul fatto che la cerimonia istituzionale della formazione continua a metterlo al centro dello sguardo. Si tratta di indizi empirici troppo poco fondati.

E allora bisogna confessare che tra quanti sono mancati debbono essere conteggiati gli studiosi, i ricercatori, gli esperti di formazione, ma anche di comunicazione. Sono i primi a constatare quanto il ritmo del cambiamento è incalzante.

E qui l’interrogativo su chi non si è fatto adeguatamente sentire si confonde con un altro passaggio ineludibile di una lista di responsabilità in cui nessuno può sentirsi del tutto innocente.

Cosa manca: l’autorità

Se dovessimo riassumere al massimo cosa manca, in una partita che si giochi ancora in termini di socializzazione, il primo termine ad affacciarsi alla mente è quello di istituzione. Ma per rendere più preciso questo elenco occorre chiamare in causa il termine autorità, spesso addolcito da autorevolezza, il senso del limite che diventa sempre più improbabile ed evanescente, accanto ad ogni dimensione di tipo verticale. L’insaziabile sete di interazioni in rete costruisce e reitera una dimensione puramente orizzontale. Dove il confronto tra pari diventa una delle bussole più potenti della crescita.
Non sono banali gli interrogativi che poniamo. Se anche solo una parte delle tendenze delineate risultasse condivisa, la scossa etica e deontologica diventerebbe perentoria. Ma vedremo presto che non siamo certo gli unici ad aver intravisto le criticità dei processi di cambiamento.

Il sapere: condividere, non tramandare

Si dovrebbe, per esempio, riconoscere che sapere non è più tramandare, ma essenzialmente condividere. Ed è così che si può prospettare una cancellazione culturale del passato e dei valori che sembrano faticare sempre più a sopravvivere ai nostri giorni.

Ecco perché, a questo punto, il discorso deve estendersi all’incipiente processo formativo. Infatti, non essendo facile intervenire in una fascia di età poco istituzionalizzata, l’interrogativo conseguente è quanto il nostro mondo educativo ce la può fare a rimettere a posto le priorità di discorso, sostenendo la sfida della nuova complessità e senza trascurare il contesto di incertezza sociale e valoriale che respiriamo nel nostro tempo.

Contrasto alla povertà educativa

La necessità è quella di dominare e divulgare il più possibile la “letteratura grigia” e l’imponente produzione di dati, non sempre adeguatamente comunicati e tematizzati. Ciò significa un completamento dell’analisi e dell’individuazione delle fonti, anche comunitarie [22].

Fatta la debita citazione dei documenti istituzionali, ovviamente decisivi in una società democratica anche in ordine all’adozione dei conseguenti provvedimenti normativi, occorre dire che sulla tematica della deprivazione educativa si è registrata una funzione di spinta e sostegno da parte del Terzo settore. Esso ha esemplarmente funzionato su questo tema in una logica talora di supplenza ma più spesso di sussidiarietà e coordinamento, l’unica che può garantire risultati significativi nel contrasto alla povertà formativa.

Disuguaglianze

Nell’ambito di quest’ampio catalogo di apporti viene avanzata poi una riflessione sulle disuguaglianze educative nella direzione del digitale, motivandola sulla base
dell’analisi dei comportamenti di ragazzi e adolescenti italiani, e dunque
alorizzando una seconda base empirica rispetto al dibattito precedente [23].

La povertà culturale

Ancora una volta i dati mostrano dunque una chiara convergenza nella sottolineatura della povertà culturale, a partire dalle sue evidenze lungo il percorso formativo. La
deprivazione educativa deve essere assunta come un attacco frontale alla società e
persino alla stessa digital transformation
.

Non vogliamo accontentarci di una generazione che rischia di sentirsi esonerata dal progetto di superare i propri limiti. Altrimenti finiamo per incoraggiare una coincidenza tra i giovani a scuola e quanti presto diventeranno i neet, soggetti né in formazione né al lavoro, “portatori sani” di una vera e propria disoccupazione mentale e valoriale. Sotto questo profilo, la questione della povertà educativa rappresenta davvero un’intervista al mondo moderno. Si parte così da una consapevolezza più diffusa (soprattutto nell’universo femminile) che la deprivazione aggrava possibili forme di disabilità, dense di conseguenze sociali di lungo periodo.

La necessità di coinvolgere gli adulti

C’è bisogno letteralmente di alimentare un dibattito pubblico. A partire dalle Istituzioni, bisogna coinvolgere gli adulti nel momento stesso in cui si capisce quanto la loro definizione derivi ironicamente da adolescere, spesso inclinando verso una
troppo esile assunzione di responsabilità.

Infatti è necessario riprogrammare il posizionamento delle varie parti dello scambio culturale intorno alla scuola.

Conclusioni

Si è rotto un equilibrio secolare in forza di cui la complessità ineludibile della formazione era data per scontata. Non come un “servizio militare obbligatorio”, ma
aggiornamento di un ideale forgiato da millenni.

Il senso di quella storia era che il soggetto sottoposto a stimoli e contenuti attentamente studiati e graduati, si avviava alla fatica della conoscenza che, nel tempo, si sarebbe rivelata fonte di autonomia e coinvolgimento.

Non possiamo dimenticare quanto Aristotele ci dice sul percorso di acquisizione dei saperi: esso ha radici amare ma frutti dolci [24].

In momenti di passaggio come questo, la scuola implicitamente finisce sotto
attacc
o, perché additata come luogo di complessità. E siamo allora indotti a riflettere su chi siamo noi, oggi, interrogandoci su dove stiamo andando e se non rischiamo di buttar via istituzioni che hanno in sé la forza patrimoniale dei secoli.
Anche sotto questa angolazione viene alla mente la memorabile frase degli Annalisti francesi che ci hanno ammonito: “per essere, bisogna essere stati”.

Meditiamo su quanto un tale motto ci insegna ad abbracciare anche la parte di fatica e iniziazione tipica di ogni processo istituzionale di apprendimento del sapere.

Bibliografia

[1] Il riferimento di partenza è al Numero monografico della Rivista Paradoxa, “La comunicazione al posto della politica”, anno XIV, n. 3, luglio/settembre 2020, curato da me e da Michele Prospero, anch’egli dell’Università di Roma.

[2] Cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato (vol. 1: Considerazioni sull’anima nell’epoca della Seconda Rivoluzione industriale), Il Saggiatore, Torino 1963, anno di edizione originale 1956.

[3] G. Paolucci, Cronofagia. La contrazione del tempo e dello spazio nell’era della globalizzazione, Guerini Studio, Milano 2003.

[4] Particolarmente significativo a questo proposito il monito rivolto ai giovani da Papa Francesco il 3 agosto 2023 durante la Giornata Mondiale della Gioventù a Lisbona: “Tanti oggi sanno il tuo nome, ma non ti chiamano per nome. Il tuo nome infatti è noto, appare sui social, viene elaborato da algoritmi che gli associano gusti e preferenze. Tutto questo però non interpella la tua unicità, ma la tua utilità per le indagini di mercato” … “Sono le illusioni del virtuale e dobbiamo stare attenti a non lasciarci ingannare”. Cfr. https://www.rsi.ch/news/mondo/Papa-Attenti-ai-lupi-nei-
social1-16443292.html

[5] Per fare qualche esempio rappresentativo, rinvio a testi recenti di G. Lizza, Gli orizzonti della nuova geopolitica. Verso il 2050, Utet Università, Roma 2021 e G. Tremonti, Globalizzazione. Le piaghe e la cura possibile, Solferino, Milano 2022.

Non meno interessante il lavoro di A. Cazzullo, Metti via quel cellulare. Un papà, due figli. Una rivoluzione, Mondadori, Milano 2017. Sulla complessità e criticità di questo scenario segnalo inoltre il saggio di G. Mascheroni, “Datizzati alla nascita: a rischio i diritti delle nuove generazioni”, in I Quaderni di Agenda Digitale, n.6, settembre-
dicembre 2020, ma si veda anche, nello stesso Numero, l’interessante contributo di I. Ferrero, “Tik Tok, perché cattura così tanto i ragazzi: l’onboarding”.

[6] In tale contesto, che chiama in causa anche una rinnovata “filosofia della libertà”, non solo educativa, il pensiero corre alle teorizzazioni imprescindibili di I. Berlin e, in particolare, alla distinzione fra “libertà positiva” e libertà negativa”. Si rimanda per questi temi al suo capitale Two concepts of liberty (prima pubblicazione 1958). Per la
versione italiana si veda I. Berlin, Due concetti di libertà (traduzione di M. Santambrogio), Feltrinelli, Milano 2000.

[7] Cfr. M. Morcellini, “La relazione dinamica bambini/tecnologie. Una ricerca che ricomincia da tre”, in Quando la tecnologia stressa la formazione, Comunicazionepuntodoc, n. 18 (dicembre 2017).

[8] In particolare rinvio ad un Convegno monografico svoltosi presso l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni e a un intervento al Giffoni Film Festival, entrambi nello stesso anno di edizione della Rivista.

[9] Sull’intera tematica rinvio a M. Morcellini, Comunicazione e media, Egea, Milano 2013.

[10] Il passaggio è tratto dall’intervento introduttivo di Massimo Cacciari a un Convegno dell’Associazione Italiana Docenti Universitari (AIDU), organizzato il 7 maggio 2019 dal Presidente Alfonso Barbarisi presso l’Istituto “Luigi Sturzo” di Roma.

[11] Ho dedicato all’impatto tutt’altro che tramontato dell’educatore e sacerdote, a cento anni dalla sua nascita, la mia rubrica intitolata “Don Milani, prete maestro. Anche a distanza”, in Formiche, n. 192 (giugno 2023).

[12] Qui allora il rinvio d’obbligo è alla Ricerca “Povertà educativa digitale” promossa da Conferenza dei Rettori delle Università Italiane, Ministero dell’Istruzione e del Merito e Ministero dell’Università e della Ricerca a partire dal 2022 e aderente alle indicazioni della Legge 178/2020, art. 1, commi 507, 508 e 509. Rimando qui al primo Dossier di
restituzione dati (“Povertà educativa e digitale. Una “Spada di Damocle” nella rigenerazione post-Covid”), da me coordinato e firmato, e consegnato al Ministero dell’Istruzione a fine 2022.

[13] Su questi temi rimando a M. Morcellini, Passaggio al futuro. La socializzazione nell’età dei mass-media, FrancoAngeli, Roma 1992.

[14] Su questi aspetti, si rinvia ai recenti e interessanti dati di Openpolis 2022 disponibili su L’accesso all’istruzione pre-primaria in Italia e in Ue – Openpolis.

[15] Cfr. M. Morcellini, La TV fa bene ai bambini, Meltemi Editore, Roma 2005.

[16] Questo trend è più articolatamente discusso nel mio editoriale premesso al monografico della rivista Comunicazionepuntodoc già citato, “La relazione dinamica bambini/tecnologie. Una ricerca che ricomincia da tre”.

[17] Audiweb Trends, Sintesi e analisi dei risultati della Ricerca di base sulla diffusione dell’online in Italia, varie edizioni a partire da giugno 2017, ma soprattutto gli aggiornamenti successivi.

[18] Istat, Cittadini imprese e ICT, varie edizioni annuali.

[19] In prima lettura, rinvio almeno a M. Morcellini, Antivirus. Una società senza sistemi immunitari, Castelvecchi, Roma 2020 (con prefazione di Maurizio Costanzo).

[20] Per il Report completo si veda S. Mantovani, M. Picca, P. Ferri, C. Bove, P. Manzoni, Bambini e lockdown un anno dopo: la parola ai genitori, Università degli Studi di Milano Bicocca, 2020.

[21] Ho discusso la stessa tematica in un saggio recente: M. Morcellini, “Giovani geneticamente modificati dall’infosfera.
La ricerca sociale come impegno di ascolto”, in NPG (Note di pastorale giovanile), 57(2023), n. 6, pp. 19-28. Rimando inoltre ai saggi di C. Costa e del Direttore della Rivista G. De Nicolò, ma anche all’intero Fascicolo per la varietà e ricchezza dei contributi.

[22] Il primo riferimento da citare in proposito è certamente un testo del gennaio 2018 firmato dall’allora Miur, e specificamente dalla Cabina di regia per la lotta alla dispersione scolastica e alla povertà educativa, intitolato “Una politica nazionale di contrasto del fallimento formativo e della povertà educativa”. Il testo presenta numerosi vantaggi per chi intende valorizzare la conoscenza della deprivazione formativa, costituendosi così come fonte attendibile delle iniziative e ricerche (anche europee) fino al momento della chiusura di quel Rapporto.

[23] Un punto di forza è rappresentato certamente dall’ampia disponibilità di dati, spesso aggiornati, di fonte anzitutto istituzionale, ma anche provenienti da Enti che si sono specializzati sul tema, in particolare negli ultimi 15 anni.
Nell’insieme questa letteratura è rilevante anche per determinare una strategia operativa chiaramente aderente alle indicazioni della citata Legge 178/2020, art. 1, commi 507, 508 e 509.

[24] Rinvio qui a M. Morcellini, V. Martino, Contro il declino dell’Università. Appunti e idee per una comunità che cambia, Il Sole 24 Ore, Milano 2005.

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