La pubblicazione degli esiti delle prove Invalsi è da anni un appuntamento fisso dell’estate. I media ne forniscono sempre ampia informazione, solitamente con titoli a effetto tendenti a dimostrare, una volta di più, gli scarsi risultati ottenuti.
Nel 2019, ad esempio, La Repubblica titolava “Test Invalsi, il 35% degli studenti di terza media non capisce un testo d’Italiano”, il Corriere della Sera, nel 2018, “Invalsi 2018, in Calabria un tredicenne su due non sa l’italiano”.
Saltata l’edizione 2020, a causa della pandemia, era abbastanza prevedibile che anche nel 2021 ci sarebbe stato poco da festeggiare. E, infatti, secondo Repubblica “Scuola, i dati Invalsi: crollo delle competenze dopo Covid e Dad. E al Sud aumenta il divario”, mentre il Corriere titola “Prove Invalsi 2021, il tonfo della Dad. Alla Maturità metà degli studenti ne sa come in terza media”.
La novità di quest’anno, tuttavia, è, finalmente, l’individuazione del “colpevole”. Mentre negli anni precedenti ci si limitava a registrare l’ennesimo disastro (annunciato), questa volta l’emergenza epidemiologica e, soprattutto, la controversa “didattica a distanza” (DAD) diventano i protagonisti.
È davvero tutta colpa della Dad?
Ma è andata davvero così?
A prescindere da una più approfondita analisi dei dati, che gli interessati possono effettuare ricorrendo ai dati completi forniti dall’INVALSI e dai quali si evince senz’altro un aumento della percentuale di studenti che non raggiungono i traguardi previsti, soprattutto nella secondaria di primo grado (a parte, stranamente, l’inglese) e, in misura ancora maggiore, nella secondaria di secondo grado (anche in questo caso con l’eccezione dell’inglese), si può individuare così facilmente la DAD come causa di questo “crollo”?
Si potrebbe quasi essere felici di averla finalmente trovata, questa causa, dopo anni di risultati costantemente deludenti. E se così fosse, si dovrebbe anche pensare a misure urgenti da adottare per evitare di ricorrervi in futuro, anche solo per poco tempo: sarebbe intollerabile consentire l’utilizzo di una pratica palesemente nociva per gli apprendimenti dei nostri studenti!
Andando oltre la facile ironia, che tuttavia è forse giustificabile, dato il tono di certi titoli, si può tentare di riassumere la situazione attraverso alcuni punti chiave
La validità delle prove INVALSI
Cosa misurano, esattamente, le prove standardizzate nazionali? Si tratta di una questione fondamentale, sulla quale negli anni si sono polarizzate le opinioni e su cui vi è anche ormai un’importante letteratura scientifica (ad esempio i lavori del professor Cristiano Corsini). Ci ha provato l’INVALSI stesso, a spiegare cosa le prove tentano di misurare e cosa, viceversa, non possono e non intendono fare. Nonostante tutto ciò, le prove nazionali non sono ancora state “digerite” compiutamente dai docenti, molti dei quali continuano a sospettare che esse finiscano, in modo più o meno implicito, per valutare proprio il loro lavoro. In molte scuole, tuttavia, è da anni in corso un processo di riflessione sulle prove, utilizzate in chiave di autovalutazione e miglioramento. La questione di fondo è che le prove non misurano “tutto” ma forniscono comunque informazioni utili. Non le sole, non sono “verità assolute”, ma sarebbe opportuno superare la contrapposizione frontale tra oppositori e sostenitori, magari cercando di creare nelle scuole una “cultura della valutazione che unisse i “classici” metodi della ricerca (qualitativo e quantitativo), entrambi importanti e utili, invece di tentare di stabilire la supremazia dell’uno o dell’altro.
Quest’anno più che mai, però, è comunque lecito domandarsi cosa si sia realmente misurato, in relazione all’esperienza vissuta dagli alunni nei due ultimi anni scolastici, caratterizzati dall’emergenza Covid, da situazioni personali, familiari, scolastiche talvolta addirittura drammatiche;
Cosa sarebbe accaduto, invece, senza la Dad?
La DAD è stata da subito “nel mirino” di molti e soprattutto, a parte forse la fase iniziale, nella primavera del 2020, ha costantemente goduto di “cattiva stampa”. L’opinione su di essa è stata generalmente improntata a evidenziarne i limiti e le criticità. Si è ampiamente parlato del cosiddetto “learning loss”, senza quasi mai evidenziare, al contempo, l’acquisizione di nuove competenze che, pure, si è verificata sia tra gli studenti che tra i docenti. Le prove INVALSI di quest’anno, pertanto, da questo punto di vista si possono considerare una sorta di profezia autoavverante: non si vedeva l’ora di “provare” che la DAD è stata un’esperienza disastrosa. Stranamente, in pochi hanno riflettuto su cosa sarebbe accaduto alla scuola senza la DAD! Eppure, basterebbe pensare a come avremmo fatto fronte alla pandemia soltanto dieci anni fa, quando le tecnologie non erano ancora mature per supportare lo sforzo di tenere comunque connessi milioni di studenti, pur con tutte le note criticità, peraltro in buona parte dipendenti da situazioni strutturali e socio-economiche preesistenti e comunque rilevanti anche in condizioni normali;
La difficoltà nel proporre modalità didattiche più efficaci attraverso la DAD
Questa è forse la criticità principale per cui la didattica a distanza prima e la didattica digitale integrata dopo non sono state percepite positivamente e, al contrario, hanno fatto rilevare fenomeni di disagio e rifiuto da parte di alcuni studenti e anche docenti. La Fondazione Agnelli ha recentemente pubblicato gli esiti di una ricerca, relativa alla scuola secondaria di secondo grado, dalla quale si evince che “nella pratica quotidiana della DaD non c’è stato alcun significativo cambiamento metodologico e organizzativo rispetto a prima della pandemia”. La DAD, nella maggior parte dei casi, ha visto la riproposizione dei consueti modelli didattici, in alcuni casi già fortemente criticati prima della crisi pandemica e spesso assai difficili da replicare online;
Le enormi differenze territoriali
Anno dopo anno, l’INVALSI (ma non solo, situazioni simili emergono sistematicamente anche dalle rilevazioni internazionali, ad esempio OCSE-PISA) evidenzia la spaccatura tra le regioni del Nord, sostanzialmente allineate agli standard europei e quelle del Centro ma soprattutto del Sud e Isole. L’ultima rilevazione non fa eccezione e, anzi, accentua ulteriormente il divario. È una situazione nota da molto tempo ma non sembra, finora, essere stata affrontata in maniera strutturale. Sarebbe semplicistico, oggi, “incolpare” la DAD anche per questo problema, sostenendo che nelle regioni meridionali si sono incontrate maggiori difficoltà, ad esempio per quanto riguarda le connessioni internet. Sono certamente dati di fatto, ma attenzione al rischio di scambiare la causa con l’effetto.
Conclusioni
In conclusione, il rischio di una comunicazione non rigorosa sul tema delle prove nazionali ma, più in generale, della scuola, è sempre quello della semplificazione eccessiva.
Bisognerebbe provare a superare certe “indignazioni stagionali”, tanta retorica sulle prove, le recriminazioni, i rigurgiti nostalgici che periodicamente appaiono, a cura di questo o quel gruppo di intellettuali. La scuola “di una volta” non era migliore di quella attuale, era soltanto profondamente diversa, a partire dai suoi obiettivi politici e sociali.
Non si può neanche però fare finta di niente: i risultati delle prove (non solo di quest’anno, ma anche dei tanti anni precedenti) non possono essere soltanto oggetto di qualche titolo giornalistico, ogni metà luglio.
Cogliamo l’occasione (anche quella offerta, perché no, dal PNRR) per cercare di capire cosa e come dobbiamo migliorare, con e senza DAD e DDI.
La scuola merita di essere trattata seriamente, con prospettiva di lungo respiro.