Tra il 9 e il 30 giugno 2020 l’Indire ha promosso un’indagine per monitorare la didattica durante la primavera del 2020. Da pochi giorni è stato pubblicato il report integrativo a quella prima consultazione: le nuove informazioni fanno emergere le inferenze e le relazioni fra i fenomeni fotografati a luglio. All’indagine hanno risposto in maniera volontaria 3.774 docenti (3.195 donne e 579 uomini): il 10% della scuola dell’infanzia; il 29,8% della scuola primaria; il 21,8% della scuola secondaria di primo grado e il 38,4% della scuola secondaria di secondo grado.
Analisi dei risultati
L’analisi dei risultati restituisce almeno cinque informazioni, sulle quali riflettere:
- La maggior parte dei docenti ha trasposto la didattica tradizionale frontale nella Didattica a distanza, soprattutto nella scuola secondaria: 73% alla secondaria di primo grado e il 71% alla secondaria di secondo grado;
- Un gruppo di docenti minoritario, che corrisponde al 14,5% del campione (549 soggetti su base dati 3.774), ha utilizzato una didattica più laboratoriale e insegna soprattutto nelle scuole secondarie di primo grado. Tra le pratiche didattiche di questo 14.5%, spiccano forme di autovalutazione da parte degli studenti e forme di valutazione tra pari.
- I docenti appartenenti alla categoria che l’Indire ha denominato “laboratoriali” comunica una percezione della Dad non così distruttiva e controproducente, come invece sembra essere stata percepita dagli altri, quelli della didattica tradizionale: hanno dichiarato miglioramenti nell’autonomia, nella concentrazione e nella volontà di collaborazione degli studenti.
- Tutti hanno dovuto ridurre: il numero di ore di lezione e i curricula disciplinari. I docenti hanno lavorato ai nuclei essenziali della disciplina o dell’area disciplinare. Il lavoro sui nuclei fondanti è stato svolto nella scuola dell’infanzia per il 2%, nella scuola primaria per il 21,1%, nella scuola secondaria di primo grado per il 17,5% e nella scuola secondaria di secondo grado per il 30%.
- Quattro docenti su cinque hanno fatto formazione online durante il primo Lockdown e hanno manifestato la volontà di continuare con questa pratica.
La didattica frontale ha fallito, viva la didattica frontale
Trasferire un modello di interazione per l’apprendimento già vecchio dall’aula fisica a quella virtuale non ha giovato a nessuno e questo è il grave punto di frattura, sul quale occorre un confronto urgente, libero da pregiudizi e populismi, aperto a tutte le possibilità di sviluppo, per il quale vale la pena impiegare tempo, parole e risorse.
Invocare la didattica in presenza come panacea della scuola in questo momento storico è come voler curare il Covid 19 con l’acqua piovana invece che col vaccino.
Veramente siamo convinti che ci si rechi a scuola a cuor leggero, liberi e pronti a qualsiasi proposta di attività si prepari (compatibile col protocollo Covid)? Non è più realistico supporre che tutti quelli che a scuola lavorano siano consapevoli che il contagio esiste ovunque? Il virus abita i luoghi promiscui e la scuola lo è, come hanno dimostrato le percentuali parziali dei contagi rese pubbliche solo un mese fa.
Credo che non si possa attribuire alcuna responsabilità ai Dirigenti scolastici: penso che abbiano fatto tutto quello che era possibile realizzare per tutelare personale scolastico e studenti, ma non si tratta delle misure interne, nella maggior parte dei casi accurate e monitorate. Non c’è una copertura abbastanza sicura, se non con il vaccino.
Quando sarà pronto invece il farmaco che guarirà le contraddizioni di un sistema scolastico che sulla carta sembra uno dei più innovativi al mondo e nei fatti potrebbe assomigliare di più ad un setaccio bucato?
Il PNSD avrebbe dovuto filtrare le vecchie consuetudini della lectio magistralis imposta a studenti annoiati e distratti, per azionare una leva di cambiamento strutturale: rete per tutti (docenti e studenti), digitale educativo come ambiente di apprendimento, Byod diffuso, metodologie didattiche innovative ed Evidence Based, sistemi organici di formazione dei docenti interna ed esterna, figure di riferimento di sistema (Animatore Digitale e Team per l’innovazione, Équipe territoriali regionali).
La pandemia ha spostato poche di queste variabili in verità: la rete forte doveva essere quella domestica e la relazione educativa indispensabile per un rapporto pedagogico intenzionale doveva essere già impostata e collaudata, tanto da reggere il colpo anche per studenti e studentesse con Bisogni educativi speciali. Al primo bisogno, il Miur ha risposto con il Piano Voucher, che ha previsto l’erogazione alle famiglie con ISEE inferiore ai 20.000 euro di un contributo massimo di 500 euro, sotto forma di sconto, sul prezzo di vendita dei canoni di connessione da rete fissa a internet in banda ultra larga per un periodo di almeno dodici mesi, compresi i costi di attivazione e del dispositivo per la connettività, nonché di un tablet o un personal computer. L’intenzione dichiarata era quella di promuovere un accesso facilitato alla Didattica Digitale Integrata, per almeno un anno. Al secondo bisogno, il Miur ha risposto, cercando di promuovere la presenza a scuola per quei ragazzi e ragazze con disabilità e altri disagi, anche se la socialità e la vicinanza dei compagni di classe non può essere garantita, visto che molte scuole hanno dovuto comunque attivare didattica a distanza per evitare rischi di maggiore contagio.
Docenti full time, docenti che rubano lo stipendio (e che stipendio)
Non c’è bisogno di andare al bar o salire su un autobus: ora basta un giro sui telegiornali o sui social per assistere a polarizzazioni imbarazzanti per una società civile. Come nella retorica del medico e dell’infermiere durante la pandemia, anche il docente è stato visto prima come il professionista che non si è mai fermato di fronte al virus, tuffandosi nel digitale anche se non si era mai staccato dall’indice del libro di testo, e ora aleggia l’idea che sia il solito dipendente statale che non vuole lavorare perché cerca misure di sicurezza adeguate, che tutelino anche la sua salute e condizioni di lavoro possibili nonostante la pandemia. Maestri e docenti di scuola secondaria non hanno quasi mai interrotto la scuola in presenza.
Tutte le ricerche svolte in questi mesi hanno registrato un aumento del lavoro: la didattica digitale prevede un impegno intenso di preparazione di materiali, di strategie e soprattutto restituzione di feedback costanti agli studenti, proprio per sopperire alla mancanza di pacche sulla spalla e dialoghi dal vivo.
Siamo in Didattica a distanza, la scuola è chiusa
Le proposte di prolungamento della scuola fino a fine giugno, di pomeriggio, di sabato contribuiscono a nutrire lo storytelling che la scuola a distanza non sia scuola. Faticoso e ripetitivo controbattere i continui attacchi di chi, paladino della presenza, sostiene che la Dad è una maledizione divina. Il mondo sarebbe più bello senza un virus letale, ma “Huston, abbiamo un problema”: l’emergenza richiede pratiche nuove e imparare da queste ci farebbe onore. La distinzione che va fatta non è più tra didattica a distanza e didattica in presenza, ma tra didattica efficace e didattica dannosa.
La didattica è ogni azione che si intraprende per progettare e costruire, con mezzi e strumenti, un ambiente nel quale avviare e monitorare processi di insegnamento e apprendimento e in questo il docente è il mediatore, l’esperto, la guida. La Didattica, dovunque si faccia, è didattica solo se ha questa intenzione. Credo che neanche nella scuola in presenza si possa parlare di “didattica” se docenti e studenti non siano disposti a far scattare questa dialettica e questo dialogo educativo: la lezione frontale non è didattica se è l’unica azione che si intraprende, nella speranza che qualcuno, prima o poi, impari qualcosa. Se avessimo davvero coraggio, dovremmo dire a tutti gli studenti e le studentesse (quantomeno a quelli che si trovano nella fascia di obbligo scolastico, quindi fino ai sedici anni) che saranno promossi quest’anno e lasciare ai docenti la possibilità di sperimentare didattiche coinvolgenti, motivanti, che conquistino invece di impaurire, con tempi più morbidi e meno serrati, che consentano percorsi personalizzati e individualizzati, saperi essenziali e comprensioni profonde. Quanti sarebbero disposti a mettersi davvero in gioco solo per fruire del diritto di imparare e per la sfida di farlo insieme ai loro compagni e agli esperti di apprendimento, cioè i loro docenti? Quanti abbandonerebbero il campo?
Dispersione scolastica, i dati
La dispersione scolastica esplicita è altissima per un Paese moderno come il nostro: secondo i dati Eurostat 2019[1] in Italia è del 14,5%. Aggiungiamo anche la dispersione scolastica implicita, cioè quella dei ragazzi che nonostante i dieci anni di obbligo scolastico (che da noi diventano tredici anni), non raggiungono minimamente le competenze attese, pur non essendo stati bocciati. Se sommiamo le due dispersioni arriviamo quasi al 20%.
Nei giorni scorsi è stata pubblicata l’indagine condotta da IPSOS, “I giovani ai tempi del Coronavirus”, che ha analizzato per Save the Children opinioni, stati d’animo e aspettative di mille studenti tra i 14 e i 18 anni, attraverso un questionario.
I risultati del sondaggio sono interessanti:
- Il 63% dichiara che i docenti hanno introdotto qualche novità nel loro modo di fare lezione (uso di video, app, giochi di ruolo, materiali offerti prima delle lezioni, lavoro di gruppo)
- Alla domanda: “Da quando le scuole hanno riaperto a settembre, nella tua classe o nella tua scuola ci sono stati casi di studenti positivi al COVID che hanno implicato quarantena e isolamento fiduciario?” il 41% dichiara di aver avuto almeno un caso di contagio in classe (di questa percentuale, il 23% dichiara più di un caso) e la percentuale sale al 73% quando si chiede se ci siano stati casi nella propria scuola. Anche i docenti risultano molto contagiati (26%).
- Tra le voci indagate c’è anche la dispersione e non c’è alcun dato che possa essere messo in correlazione con la Didattica a distanza. Infatti, l’84% dichiara di seguire sempre o quasi sempre le lezioni online.
- Tra le motivazioni dichiarate per la frequenza non regolare delle lezioni si legge che il 28% ha problemi di connessione, il 26% fa fatica a concentrarsi, il 10% fatica a svegliarsi in tempo (perché dichiara di andare a letto più tardi la sera), il 7% non ha voglia e solo il 5% dice di avere problemi di strumentazione.
- A proposito invece delle difficoltà percepite durante la Didattica a distanza il 45% dichiara di faticare nel seguire le lezioni, il 41% lamenta difficoltà di connessione personale e il 40% di difficoltà invece sono delle connessioni dei docenti, il 33% si annoia e il 13% imputa le difficoltà ai propri device.
La situazione allora non è proprio come sembra, direi.
Conclusioni
Il 21 agosto del 2020 ci ha lasciato Ken Robinson. Il 4 marzo prossimo avrebbe compiuto settant’anni. Nel suo libro “Scuola creativa. Manifesto per una nuova educazione” lo studioso parla delle abilità di cittadinanza e di come le società democratiche debbano farle esercitare ai loro giovani fin dall’inizio del cammino scolastico, continuamente rinnovate, apprese ed esercitate. Poi cita John Dewey: ”La democrazia deve rinascere nuovamente a ogni generazione e l’educazione è la sua ostetrica”. Forse quello che stiamo vivendo è un parto podalico, ma qualcosa ha l’occasione di nascere, evitiamo di sprecare questa opportunità.
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Bibliografia
Ken Robinson, Scuola creativa. Manifesto per una nuova educazione, Erickson, Trento, 2016
- Secondo gli ultimi dati Eurostat, il tasso di dispersione scolastica dei ragazzi di età compresa tra i 18 e i 24 anni è stato, nel 2014, pari all’11,2% nell’UE-28; al 15% in Italia, al 9% in Francia, al 9,5% in Germania, all’11,8% nel Regno Unito, al 21,9% in Spagna. La media europea è dell’11%. Sempre secondo dati Eurostat, nel 2014 la percentuale delle persone tra i 30 e i 34 anni che hanno completato l’istruzione terziaria o equivalente risulta invece pari al 37,9% nell’UE a-28; al 23,9% in Italia; 43,7% in Francia; 31,4% in Germania; 47,7% nel Regno Unito; 42,3% in Spagna. ↑