Qual è la vera natura della prestazione studentesca? Definire il vero oggetto dell’attività dello studente aiuta gli stessi studenti e gli addetti ai lavori al raggiungimento di risultati coerenti e sostenibili in relazione agli sforzi profusi in termini di tempo e di energie mentali, anche nell’era delle “distrazioni” digitali.
Prestazione e risultati
All’attività didattica si possono applicare le risultanze di quegli studi scientifici che hanno voluto indagare come ognuno di noi possa avvicinarsi alle proprie potenzialità. Pur non esistendo una formula magica per raggiungere la nostra prestazione ottimale, agendo su motivazione e concentrazione sappiamo di poter ottenere risultati di livello, ridefinendo però i nostri obiettivi e accrescendo inevitabilmente la consapevolezza e la conoscenza di noi stessi.
Se definiamo come “prestazione” ogni attività che sia finalizzata al raggiungimento di un risultato, potremo allora ricondurre tutti i campi di studio e più in generale tutta la “didattica” a questo concetto astratto che si propone di tracciare una consistente linea di collegamento tra le nostre buone intenzioni e i risultati che vorremmo arrivare a vantare.
Il motivo per cui può essere utile accostare lo studio e la didattica al concetto di prestazione è di carattere scientifico. Il tema di come massimizzare i nostri risultati e soprattutto di come raggiungere le nostre reali potenzialità è stato oggetto di continue ricerche sperimentali negli ultimi cinquanta o sessanta anni, a partire da quando in piena guerra fredda la CIA coinvolse le università americane nello sviluppo di programmi segreti volti a cercare il segreto del soldato perfetto.
Ricondotte a utilizzi civili, queste ricerche sono state messe alla prova sempre più intensamente in campo lavorativo o sportivo, ma è nel campo dell’apprendimento che mostrano gli ambiti di applicazione più promettenti, ancora tutti da esplorare. Quali sono le indicazioni teoriche e concrete che ci vengono suggeriti per portare insegnanti, educatori e studenti ai migliori risultati?
Le evidenze raccolte ci raccontano come sia impossibile strutturare una formula magica, ma che allo stesso tempo un processo di crescita personale inseguito con costanza e consapevolezza possa portarci esattamente nella direzione che tutti vogliamo, quella dell’eccellenza. La prestazione ottimale si concretizza infatti quando riusciamo a stare perfettamente concentrati sulle attività da svolgere qui e ora. Facile a dirsi, ma riuscire a metterlo in pratica richiederà un approccio multistrato, che coinvolgerà prima di tutto le nostre motivazioni.
Motivazioni e obiettivi
Cos’è che ci spinge ad agire? Questa è una domanda apparentemente semplice, che ha incredibili applicazioni in ogni istante delle nostre vite. Lavoriamo meglio se aumenta il nostro stipendio? Che ruolo riveste l’ambizione? E’ la competizione a spingerci o c’è qualche altro fattore più etereo? Ci motiva maggiormente un grande ego o una grande generosità? Come si intuisce da queste domande, sapere cosa ci motiva può aiutare le organizzazioni complesse a definire strategie più efficaci per il raggiungimento degli obiettivi desiderati. Ecco perché i meccanismi motivazionali sono stati pesantemente investigati dagli scienziati comportamentali.
Lo stato dell’arte ci suggerisce una suddivisione delle motivazioni tra intrinseche ed estrinseche.
Le prime sono quelle provenienti dalla nostra sfera intima e personale, quelle che non hanno necessità di conferme esterne: faccio qualcosa per il piacere di farla, per la passione che posso mettere all’opera, indipendentemente dal fatto che questa mi attività sia riconosciuta in qualche modo da altre persone.
Le motivazioni estrinseche sono invece quelle che hanno a che vedere con una ricompensa, un riconoscimento che proviene dall’esterno: faccio qualcosa per vincere un premio, per ottenere un buon voto, per ottenere un apprezzamento pubblico o una situazione di potere.
Se entrambe queste categoria rientrano nel campo motivazionale, i ricercatori si sono chiesti quali delle due sia più efficace per il raggiungimento dei risultati. Per un lavoratore è più efficace lavorare con passione oppure la prospettiva di un premio? Un aumento di stipendio o il piacere del lavoro in sé?
I risultati delle ricerche sul campo sono stati molto chiari. Le motivazioni intrinseche, intime, personali sono più efficaci nello spingerci ad agire e sono anche più sostenibili nel tempo: hanno un effetto più duraturo e non si estinguono in una semplice fiammata di entusiasmo.
Quando cerchiamo di motivare studenti e insegnanti dovremmo tenere ben ferme in mente queste evidenze. Lo studente migliore sarà quello che non solo ambisce a un riconoscimento pubblico, oppure a essere il migliore, ma soprattutto quello studente che prova piacere nell’apprendimento e che dunque, solo di conseguenza, ottiene anche buoni voti.
Ragionando lungo questa direttiva dobbiamo inevitabilmente ragionare anche di obiettivi. Il voto non può essere un obiettivo assoluto, ma deve essere visto come una mera conseguenza dell’attività di studio: lo studente non potrà dare il meglio di sé in modo sostenibile quando è distratto dalla necessità di raggiungere un risultato a tutti i costi.
La motivazione ci spinge ad agire, ma non ci può garantire di essere immuni da distrazioni, soprattutto nell’epoca digitale in cui viviamo, in cui gli strumenti elettronici ci forniscono senza soluzione di continuità delle esperienze coinvolgenti ed eccitanti a portata di pollice. Per riuscire a mantenerci concentrati dobbiamo allora crescere nella consapevolezza e nella conoscenza di noi stessi.
Consapevolezza e accettazione
Possiamo essere distratti anche rispetto ad attività che ci occupano piacevolmente. Per questo, anche dopo essere riusciti a motivare uno studente sulla base di ciò che lo interessa e lo coinvolge, dovremo assicurarci che i tantissimi stimoli che ci pervengono dalla realtà percettiva e da quella virtuale non sappiano deviare la nostra attenzione. Non sarà facile raggiungere questi momenti di “trance agonistica”, ma le strade che possiamo percorrere sono due.
La prima è quella del rifiuto. Vuol dire analizzare lo stimolo deviante e cercare consapevolmente di di portarlo fuori dalla nostra sfera di attenzione, togliendogli dignità e considerazione. Così facendo, le nostre energie mentali saranno in buona parte assorbite dal tentativo di chiudere la porta in faccia a un’ospite che da un lato è il benvenuto, ma allo stesso tempo è sgradito. L’ospite probabilmente spingerà sempre più forte e correremo il rischio, alla fine, di farlo entrare comunque, esausti. Impegnati in questa operazione di rifiuto e chiusura, come potremo rimanere concentrati sull’attività da svolgere, che è quanto ci viene richiesto per portare a fondo una “prestazione ottimale”?
La seconda possibilità è quella di guardare in faccia il problema e di accettarlo per quello che è. Accettare l’esistenza di una distrazione, riconoscerla, darle dignità è l’unico modo intelligente di toglierle il potere che può vantare sulla nostra attenzione. E’ l’unico modo di gestirla perché è tutt’altro che un atto di rassegnazione: è un atto di lucidità che ci permette di gestire davvero in modo efficiente e sostenibile il nostro tempo e le nostre energie. Posso concentrarmi davvero se considero tutte le distrazioni come parte del gioco, come una parte funzionale di me stesso, come uno strumento per migliorarmi. Questo potrà valere non solo per quelle esterne, ma anche per quelle che provengono da noi stessi: ansie, aspettative, ambizioni, frustrazioni eccetera.
Sono uno studente frustrato perché non riesco a sedere alla scrivania per più di un quarto d’ora? Riconoscere e accettare questo fatto sarà la premessa indispensabile per poter fare meglio.
Sono un insegnante arrabbiato perché non sono riuscito a gestire una classe? Incolpare esclusivamente gli studenti sarà un modo di rifiutare il problema generale, perdendo l’occasione di migliorare il mio metodo di insegnamento.