il quadro normativo

Scuola, l’importanza dell’orientamento: le norme per non perdere la rotta

L’orientamento è parte integrante del processo educativo e formativo. Negli ultimi anni si è indebolito e la sua mancanza lascia la porta aperta a chi entra nelle scuole esclusivamente per vendere ai giovani diplomandi corsi universitari e servizi collegati. Le norme

Pubblicato il 23 Apr 2021

Alessandro Obino

Esperto di cibernetica, saggista, R&D Manager Optimis

scuola

“Cosa farò da grande?” è la domanda che si pone ogni studente alle soglie dell’esame di maturità. La scelta di una professione o di un percorso di studi universitario è il momento che segna il passaggio all’età adulta. Nonostante la richiesta di orientamento da parte degli studenti sia molto forte, in mancanza di iniziative ministeriali le scuole superiori si affidano solitamente a iniziative estemporanee condotte da professori volenterosi. Quando, invece, intervengono organizzazioni esterne, queste sono quasi sempre collegate ad atenei privati o a società il cui business consiste nella preparazione a vari tipi di concorso.

Anche per gli studenti che cercano da soli le proprie informazioni il percorso è molto arduo. Esistono fonti ufficiali, come quelle del Ministero per l’Università e dell’ISTAT per le professioni, ma sono di difficile consultazione. Uno studente che si affaccia al diploma, invece, avrebbe bisogno di sapere in cosa consiste ciascuna professione, quali sono i percorsi di studio ideali e quali sono le competenze trasversali più importanti per svolgerla. Ancora meglio, avrebbe bisogno di individuare le professioni e i relativi percorsi di conoscenza e competenza più adeguati ai suoi interessi ed alle sue attitudini.

L’orientamento nella Scuola: il quadro normativo

Sin dalla fine degli anni ’90 il Ministero dell’Istruzione, in ottemperanza alle direttive europee, ha incentrato la riforma della Scuola italiana sullo sviluppo di nuove competenze non disciplinari. Il superamento della formazione frontale, basata esclusivamente sull’acquisizione di conoscenza, è stato collegato alla necessità di sviluppare e sostenere l’individuo come cittadino, conferendo così allo studente la capacità di orientarsi e agire nella vita sociale che avrebbe trovato al termine del suo percorso di studi.

Detto in altri termini, da ormai un quarto di secolo nella scuola italiana si cerca di superare il nozionismo che il nostro modello si porta dietro dall’impostazione ricevuta nel primo Novecento e si cerca di farlo richiamandosi ad obiettivi assolutamente condivisibili. Il primo fra questi è evitare che dal ciclo secondario escano dei giovani adulti che superano l’esame di maturità magari con il massimo dei voti, ma si affacciano alla vita senza avere la minima idea di come funzioni la nostra società nei suoi elementi fondanti.

Nel corso degli anni si sono quindi succeduti la Direttiva Ministeriale n.487 del 1997, che prevedeva per prima in maniera esplicita che le attività di orientamento costituissero “parte integrante […] del processo educativo e formativo sin dalla scuola dell’infanzia”, la Circolare Ministeriale n.43/2009,  con la quale sono state emanate le prime Linee guida nazionali per l’orientamento permanente, e, infine, la nota prot.n.4232 del 19 febbraio 2014, denominata “Linee guida nazionali per l’orientamento permanente”.

Nel documento si afferma che la Scuola deve costruire e potenziare “specifiche competenze orientative” che si sviluppano attraverso “l’orientamento formativo o didattica orientativa/orientante” e “attività di accompagnamento e di consulenza orientativa”. Nonostante il pessimo uso della lingua italiana, in queste due categorie la circolare del Ministero individua due aspetti fondamentali di quello che viene definito “orientamento permanente” nel sistema scolastico: lo sviluppo di competenze trasversali (citate anche come “competenze chiave di cittadinanza” in ottemperanza alla terminologia della strategia di Lisbona della UE, successivamente ripresa nelle “Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione”) e le attività di formazione e consulenza sulle opportunità offerta dalla formazione terziaria e dal mercato del lavoro.

Al centro delle Linee guida è il concetto di orientamento contenuto nella Risoluzione del Consiglio d’Europa del 21 novembre 2008, dove questo viene definito come “un insieme di attività che mette in grado i cittadini di ogni età di identificare le proprie capacità, competenze, interessi, per prendere decisioni in materia di istruzione, formazione, occupazione, al fine di gestire i propri percorsi personali di vita”.

Dal punto di vista operativo, le Linee guida nazionali prevedono di realizzare nelle scuole un “sistema integrato di orientamento” basato su reti che coinvolgano istituzioni, università, centri di formazione professionale, operatori economici, terzo settore e famiglie. Viene inoltre istituita (ma non si chiarisce se a livello di istituto o di rete di scuole) la figura del “tutor per l’orientamento”, in grado di garantire il “coordinamento e l’organizzazione delle attività degli istituti e le relazioni con gli altri soggetti coinvolti”.

L’operazione “La buona scuola” e la crisi di rigetto

Se guardiamo allo spirito delle Linee guida nazionali vi possiamo scorgere pienamente lo spirito del tempo in cui sono state scritte. Un momento storico in cui l’Italia, dopo la paura per la crisi dello spread fra il 2011 e il 2012, provava a ridisegnare le direttrici del suo sviluppo e, di conseguenza, provava anche a riformare il sistema educativo in maniera che esso fosse più vicino alla società e al mondo del lavoro.

Questi propositi vengono confermati anche nell’impianto della Legge n.107/2015 (nota come la “Buona Scuola”) in cui viene definito un sistema di orientamento per ciascun istituto (art.1, comma 7, lettera S). Nella legge, soprattutto, viene creato istituto dell’alternanza scuola lavoro, a tutti gli effetti il progetto più ambizioso di sviluppo di quelle “attività di accompagnamento e di consulenza formativa per il sostegno alla progettualità individuale” che le Linee guida nazionali avevano previsto un anno e mezzo prima.

Il diverso indirizzo politico fra il governo Renzi e il precedente governo Letta, sotto il quale erano state pubblicate le Linee guida, appare evidente nel ruolo assunto dall’autonomia scolastica, in ossequio alla quale anche le attività di orientamento vengono di fatto poste in capo al singolo istituto e non sono più inquadrate all’interno di una prospettiva “di rete” e di sussidiarietà che, per quanto poco efficiente, prevede comunque un raccordo con gli altri attori sociali del territorio di riferimento e sotto l’egida degli uffici scolastici provinciali.

Nonostante diverse storture, l’impianto de La buona scuola ha smosso le acque negli istituti superiori, spingendoli a impegnarsi in diverse iniziative di apertura e collaborazione con le imprese locali (per esempio il digital magazine Scuolalocale, che ha visto nascere 59 redazioni giornalistiche in altrettanti istituti per un totale di quasi diecimila ore di alternanza scuola-lavoro).

Con la nuova legislatura, però, il vento è cambiato e già nell’agosto 2018 l’appena insediato ministro Bussetti annunciava che avrebbe ridotto alla metà le ore di alternanza. Sotto l’azione dei governi Conte I e II, complice anche l’arrivo della pandemia e la rivoluzione/involuzione operata dalla DAD, non solo è stato di fatto superato l’istituto dell’alternanza scuola-lavoro, ma, più in generale, è stato ridimensionato l’impegno delle scuole nello sviluppo dell’orientamento permanente. così come era inteso nelle Linee Guida del 2014.

La maggior parte delle attività di orientamento attualmente promosse dalle scuole superiori consiste, infatti, nell’apertura agli istituti di formazione terziaria (Università e non solo), che continuano a presentare la propria offerta formativa anche attraverso la partecipazione a videolezioni. Peccato che questo non sia assolutamente lo spirito delle Linee guida che pongono al primo posto l’orientamento inteso come empowerment, ovvero come sviluppo delle competenze orientative di base.

La riduzione delle attività di orientamento alla presentazione dell’offerta degli atenei del territorio appare oggi più pericolosa del passato in quanto, a seguito delle riforme del primo decennio del 2000, completate dal Decreto Brunetta (convertito poi nella Legge n. 133 del 6 agosto 2008), i nostri atenei sono cambiati profondamente. Le università private, che prima costituivano una piccola élite, con il fenomeno delle università telematiche oggi raccolgono una quota vicina al 10% del totale (Fonte MIUR). È evidente come, trattandosi di vere e proprie aziende, abbiano tutto l’interesse ad accogliere più studenti possibile (nel caso delle università telematica senza avere alcun limite di capienza).

Questa “caccia all’iscritto” vale però, allo stesso modo, anche per le università statali, che hanno un forte bisogno di sostenere le immatricolazioni e si trovano di fronte ad una crisi di lungo periodo che ha visto ridursi il numero dei nuovi iscritti di circa il 20% rispetto a dieci anni prima.

Lasciare che l’orientamento nelle scuole superiori venga svolto soprattutto per iniziativa di enti esterni che hanno un diretto tornaconto economico nell’indirizzare i giovani alla frequenza del proprio ateneo, a prescindere dall’onestà intellettuale e dalla preparazione di chi va a svolgere le attività orientamento presso gli istituti superiori, è un rischio che la Scuola non dovrebbe correre. Per evidenti ragioni.

Per non buttare il bambino con l’acqua sporca

Scardinato l’istituto dell’alternanza scuola-lavoro, sembra che oggi l’orientamento nelle scuole superiori non interessi più a nessuno. La prova di questa affermazione è nello stato comatoso in cui versa, ad esempio, “Io scelgo, io studio”, il portale dell’orientamento al secondo grado e al post diploma creato sempre nel 2014 dal MIUR e praticamente mai aggiornato da allora.

Quale dovrebbe essere, quindi, il modo di riportare l’orientamento permanente al centro del progetto educativo della scuola italiana? Molto semplice. Ripartendo dalle sue basi attraverso un’operazione di recupero delle fonti che oggi, anche solo a distanza di pochi anni, appare come una piccola impresa di archeologia culturale.

Innanzitutto, è fondamentale recuperare le fonti e fare chiarezza su di esse. In Italia esiste una Classificazione delle Professioni (NUP – Nomenclatura delle Unità Professionali) sviluppata da ISFOL e ISTAT nel 2011 (CP 2011, aggiornamento della precedente CP 2001). Nonostante si tratti di un’opera redatta dieci anni fa, è una fonte impareggiabile per dettaglio dell’analisi. Di ognuna delle circa 800 Unità Professionali, vengono descritte conoscenze, competenze, abilità ed attività lavorative svolte.

La classificazione delle professioni era stata realizzata da ISFOL (Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori) con l’obiettivo specifico di fornire su di esse l’analisi del fabbisogno professionale e la previsione di occupazione nei vari territori. Il tutto doveva avvenire, anche in questo caso, all’interno di una logica di rete secondo la quale l’ISFOL avrebbe collaborato con ISTAT, Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Unioncamere, Inail e Regioni.

L’iniziativa di un repertorio nazionale era particolarmente importante per armonizzare i repertori creati dalle regioni, titolari della formazione e della formazione professionale. Per questo era stato avviato un lavoro di costruzione del Repertorio Nazionale dei titoli di istruzione e formazione e delle Qualificazioni professionali, (art.8 del Decreto Legislativo n. 13 del 16 gennaio 2013) e questo aveva portato le Regioni a sviluppare la loro offerta formativo con riferimento alla classificazione nazionale delle professioni.

Il maggior problema metodologico del CP 2011 era l’aver ereditato la classificazione delle professioni in 9 grandi gruppi dalla International Standard Classification of Occupations operata dall’ILO nel 2008 (ISCO 2008). Questo la rendeva incompatibile con le classificazioni per settori adottata dalle Camere di Commercio (codici ATECO). Anche per questo, a seguito del Decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 30 giugno 2015, era stata avviata la realizzazione dell’Atlante del Lavoro e delle Qualificazioni, l’opera che avrebbe dovuto integrare il CP 2011 e che avrebbe dovuto costituire la fonte primaria di tutte le attività di orientamento professionale e, di conseguenza, anche della progettazione didattica nella formazione terziaria.

Peccato che nel 2016 l’ISFOL sia stato trasformato in INAPP, Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche, cambiamento di denominazione che sottolineava come obiettivo dell’istituto fosse non più quello di aumentare l’occupabilità dei lavoratori, ma di controllare l’efficacia delle azioni svolte in tal senso dagli attori preposti, ovvero le Regioni. Così il portale telematico Professioni, occupazione, fabbisogni è stato aggiornato fino al 2017 e poi abbandonato.

La subordinazione dell’INAPP all’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro (ANPAL) e il suo cambio di governance con l’arrivo del Reddito di Cittadinanza hanno finito per svuotare l’azione dell’INAPP, tanto che adesso anche l’Atlante Lavoro non è più accessibile attraverso il sito che gli era stato dedicato.

Nonostante la classificazione delle professioni del 2011 sia ormai per certi aspetti datato e presenti molti aspetti migliorabili, essa non è stata superata e, a seguito dell’attività di armonizzazione condotta a partire dal 2013, la sua nomenclatura è citata per definire gli sbocchi professionali di tutti i corsi universitari oggi proposti dai vari atenei. Per questo rimane la fonte a cui rifarsi per qualsiasi attività di orientamento si voglia oggi condurre.

L’altro aspetto fondamentale per riprendere a fare seriamente orientamento nella Scuola italiana è dare la possibilità al personale interno di aumentare la propria capacità autonoma di fornire questo tipo di supporto agli studenti. Detto in altre parole, bisogna fare in modo che i responsabili dell’orientamento dei vari istituti superiori non siano costretti, per mancanza di programmi e supporti didattici, a limitare il loro ruolo a quello di organizzatori di showreel delle Università o di altri istituti di formazione terziaria.

L’orientamento non è e non deve essere proselitismo di future matricole, ma sviluppo delle competenze che consentono al giovane di autodeterminare coscientemente il proprio percorso umano prima ancora di quello professionale. Conoscere il mondo delle professioni e le competenze (professionali e trasversali) che in esso vengono richieste è la conditio si ne qua non per poter parlare di orientamento permanente.

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