L’ultima edizione del “World Innovation Summit for Education” (WISE), una delle più grandi conferenze sullo stato dei sistemi educativi e sul futuro della scuola nel mondo (a Doha, in Qatar), aveva come titolo “UnLearn, ReLearn: What it means to be Human”. Un titolo molto eloquente perché sottolinea la necessità di continuare a imparare e ri-imparare in un mondo sempre più complesso e dominato da tecnologie che devono aiutarci a valorizzare la componente soggettiva, qualitativa, umana dell’apprendimento, evitando di adottare modelli improntati soltanto all’efficienza quantitativa o la misurazione fine a sé stessa.
L’occasione di questo grande incontro internazionale mi sembra molto adatta per provare a fare sinteticamente il punto della situazione sullo stato del nostro ecosistema educativo e per ragionare su come si stia sviluppando l’innovazione a scuola.
Un’enorme domanda di istruzione
Il Qatar come molti paesi in via di sviluppo è particolarmente sensibile al tema e da 10 anni organizza un evento che richiama ogni due anni più di 3000 esperti, ricercatori, insegnanti e presidi, imprenditori, investitori e policy maker da oltre 110 paesi per discutere di scuola e provare a rispondere all’enorme domanda di istruzione che sta emergendo a livello globale.
Come è ben indicato nell’Agenda per lo Sviluppo Sostenibile della Nazioni Unite che inserisce come Goal numero 4 lo sviluppo di un’educazione inclusiva di qualità e pari opportunità educative, non c’è mai stato così tanto bisogno di istruzione come in questi anni perché nel 2019 quasi 300 milioni di bambini non hanno ancora accesso all’istruzione e altri 300 milioni vivono in contesti di forte povertà educativa.
Se ci fermiamo un secondo a ragionare sui numeri capiamo che per formare 600 milioni di bambini occorrono decine di milioni di insegnanti pronti ad entrare in classe dal prossimo settembre. Una sfida non banale che probabilmente in Italia non percepiamo con chiarezza, impegnati a ragionare di calo demografico e invecchiamento della popolazione, ma che è tra le più rilevanti oggi.
Come soddisfare il bisogno di istruzione
Come è possibile soddisfare questo bisogno e quali modelli possono supportare una crescita così sostenuta, garantendo qualità di insegnamento e pari opportunità per tutti? Credo sia un interrogativo centrale che non riguarda solo l’istruzione formale delle prossime generazioni ma anche la salute, il lavoro, l’accesso al cibo, la parità di genere e la lotta alle diseguaglianze sociali perché l’istruzione è la più grande leva che abbiamo per promuovere uno sviluppo sostenibile a livello globale.
Sembra un’ovvietà per un cittadino europeo ma la scala e l’intensità che il fenomeno sta assumendo, producono significati nuovi e richiedono innovazioni in tutti i settori.
Come si sta sviluppando l’innovazione a scuola
Invitato, nell’ambito del WISE, ad una tavola rotonda su Challenges & Opportunities in Building Edtech Testbeds ho avuto l’opportunità di confrontarmi, tra gli altri, con la CEO della Jack Ma Foundation e la responsabile del settore education di Nesta UK che conosco bene perché il programma Riconnessioni di Compagnia di San Paolo che coordino è stato studiato come modello di formazione docenti nel loro recente rapporto “Making the most of technology in Education. Lesson from school system around the world” pubblicato in inglese e in italiano tra luglio e settembre 2019.
Esistono almeno tre ordini di motivi per cui è utile fermarsi a ragionare sugli effetti che l’introduzione del digitale ha prodotto e sta producendo sul nostro sistema scolastico.
Innanzi tutto per fare un bilancio delle numerose azioni, programmi, politiche e movimenti che sono nati dopo l’introduzione della Legge 107, il Piano Nazionale Formazione Docenti e il Piano Nazionale Scuola Digitale.
In secondo luogo perché l’insieme di reti, tecnologie, dati e programmi digitali presentano grandi opportunità e sfide che da un lato non possiamo permetterci di non cogliere ma dall’altro richiedono capacità di analisi e di governo del processo che non sembrano così diffuse.
Infine, e certamente più importante, perché credo – io come molti altri – che sia necessario andare oltre il digitale, smettere di concentrarci sugli aspetti tecnici e tecnologici per tornare a parlare di scuola e di modelli di insegnamento, di nuove professionalità, di leadership, di management delle istituzioni scolastiche e di relazione educativa.
Scuola, ritardi infrastrutturali e culturali
Possiamo partire da due recenti rapporti istituzionali, tra le molte ricerche e riflessioni che sono state prodotte sul tema in questi anni: Educare Digitale pubblicato dall’Agcom nel febbraio di quest’anno e l’ultimo rapporto sui dati INVALSI discusso a cavallo dell’estate.
Il primo ci dice abbastanza chiaramente che le scuole italiane hanno ancora un grave problema con il digitale che ovviamente non riguarda solo l’adozione di strumenti ma l’attuazione di nuovi modelli didattici. In sintesi poco più di una scuola su dieci possiede una connettività decente, ovvero superiore ai 30Mbps e la situazione peggiora nel primo ciclo dove la disponibilità di banda è pressoché assente, soprattutto nelle aree disagiate.
Tutto ciò impedisce di garantire uguaglianza dei diritti e delle possibilità a tutti gli studenti, così i più lenti e disconnessi restano indietro non tanto perché non possono accedere ad Internet nelle loro vite, la Rete è anche troppo presente nei device dei genitori, ma perché non avranno una guida che gli insegni come usarla bene e sfruttarne le potenzialità educative.
Al ritardo infrastrutturale si aggiunge, ovviamente, una difficoltà culturale nel rinnovare i modelli di insegnamento che è poi il cuore del problema perché le tecnologie non hanno nessun impatto se non vengono usate correttamente, siano esse tablet, computer, lavagne luminose o libri. Ovviamente non tutti i territori sono uguali e ci sono grandi e interessanti differenze tra regioni e città ma la situazione è certamente complessa e richiede di continuare ad investire ma soprattutto di migliorare l’efficienza e l’efficacia degli interventi, concentrandosi sulla costruzione di ecosistemi di apprendimento che sappiano tenere insieme l’innovazione tecnologica e didattica, con tempi medi dai 5 ai 10 anni e investimenti stabili nel tempo, indipendenti dal frequente cambio di direzione politica, di programmi di sviluppo e di moda.
La situazione del sistema educativo
La situazione del sistema educativo è ancora più complessa, o meglio allarmante, se consideriamo i dati INVALSI che rivelano come in alcune regioni del Sud Italia un giovane su tre in età compresa tra i 18 e 24 anni non possiede le competenze di base in Italiano, Matematica e Inglese, ovvero non è in grado di comprendere un testo di qualche pagina, di sviluppare un pensiero quantitativo e di comunicare anche solo in modo basilare in un’altra lingua. Esistono dei divari profondi che dipendono in larga parte dalle caratteristiche socio-economiche dei contesti territoriali ma, cosa molto interessante, sono indipendenti dalla quantità di risorse impiegate. Infatti sono noti casi di scuole ugualmente complesse e ugualmente finanziate che però ottengono performance opposte. Esistono istituti ai margini che sanno sfruttare le opportunità, raggiungendo risultati alle volte straordinari e altre che arrancano, pur avendo ottenuti finanziamenti e supporto. Un elemento essenziale sembrano essere, senza troppa sorpresa, la qualità dei docenti e la loro permanenza nel tempo, probabilmente è necessario ripartire proprio da lì.
L’azione certamente meritoria della 107 ha immesso molte energie nel sistema ma è necessario far evolvere le politiche, affinando gli strumenti di intervento, e concentrarsi in modo più attento sui due temi che ho provato a riassumere qui sopra: sviluppo delle infrastrutture educative o meglio degli ecosistemi di apprendimento e promozione di modelli didattici innovativi che facilitano inclusione, ovvero diminuiscono le diseguaglianze. Innovazione e inclusione devono essere sinonimi altrimenti rischiamo di favorire solo i più bravi o semplicemente di accelerare i vizi e le virtù del sistema attuale senza migliorarlo. Le politiche ci sono ma è necessario accelerare i tempi di esecuzione, monitorare le attuazioni e la qualità degli interventi e valutarne l’impatto per premiare i casi di successo e liberare risorse laddove non creano valore. In una parola non possiamo più permetterci di investire piccole somme per tante scuole ma dobbiamo costruire iniziative mirate, personalizzate sui contesti e le comunità che vogliamo supportare.
L’intelligenza artificiale a scuola
In questo mare agitato da venti favorevoli e sfavorevoli, assistiamo alla diffusione di nuove tecnologie, sistemi, applicazioni che permettono di rivoluzionare il modo in cui abbiamo fino ad ora immaginato la scuola. L’intelligenza artificiale è un ottimo esempio di come sia possibile agire su tutte le dimensioni del sistema, esistono infatti soluzioni per aiutare i discenti ad apprendere meglio, personalizzando i percorsi e le difficoltà, strumenti per aiutare gli insegnanti a valutare in modo più efficiente e più ricco le conoscenze e le competenze degli alunni e nuovi modelli di analisi e gestione degli istituti e dei sistemi territoriali che consentono, ad esempio, di prevenire gli abbandoni scolastici monitorando l’andamento degli alunni. Per un’utile introduzione a questi temi consiglio di vedere il report “Educ-AI-tino Rebooted? Exploring the future of artificial intelligence in schools and colleges” (Baker at al., Nesta, 2019). Ancor più interessanti sono le possibilità che l’applicazione dei progressi nelle neuroscienze offrono nel gestire la fisiologia dell’imparare, analizzando il funzionamento del nostro cervello, monitorando le emozioni legate alle dinamiche di classe, il linguaggio del corpo. Un nuovo universo di conoscenze che ci rivelano come mai prima quali siano i meccanismi che presiedono la costruzione di conoscenza, la loro relazione con l’ambiente e la psicologia dei ragazzi e che permetterebbero ad esempio di personalizzare tempi e spazi, per adattarsi agli stili, inclinazioni e necessità di ciascuno.
Queste opportunità tecnologiche portano con sé inevitabilmente delle tensioni, dei trade/off che dobbiamo valutare e gestire attentamente. Perché è necessario promuovere la personalizzazione dei percorsi di apprendimento senza perdere lo spirito collettivo e comunitario della classe, senza dimenticarci della relazione educativa. Perché dobbiamo trovare e impiegare nuove risorse per innovare infrastrutture, tecnologie, professionalità ma allo stesso tempo fare in modo esse siano accessibili a tutti, non solo a chi ha gli strumenti culturali e economici per permettersele o ha la fortuna di nascere in zone centrali del paese. È necessario governare queste tensioni con attenzione perché da loro dipende la direzione o meglio la curvatura che il sistema tenderà a prendere in futuro; in una visione forse cinica ma credo realistica, le tecnologie (e l’innovazione che ne deriva) se esistono si sviluppano, senza chiederci il permesso, sta a noi capire come sfruttarle al meglio.
Quale senso dare alle tecnologie a scuola
E veniamo all’ultimo punto di questa breve riflessione: la necessità di superare il digitale per concentrarsi sulla didattica innovativa. Il necessario e probabilmente complesso percorso di rinnovamento della scuola che stiamo vivendo impone infatti delle scelte valoriali che riguardano il senso che vogliamo dare alle tecnologie. Scelte complesse che nessuno può affrontare da solo, sia esso un Ministro, un dirigente o un insegnante ma che devono essere condivise in un costante processo di co-design tra insegnanti, presidi, associazioni, istituzioni, privato sociale e comunità educante.
Con Riconnessioni abbiamo fatto la nostra scelta, prima in modo inconsapevole e poi con sempre maggiore convinzione, promuovere i valori comunitari di Internet che, ricordiamocelo, nasce come strumento per conoscere, condividere, collaborare. Abbiamo quindi scelto di riaffermare, ravvivare e proiettare nel futuro una nuova e più resiliente pedagogia cooperativa. Questa intuizione ci porta a insegnare le tecnologie digitali come strumento potente, lo vediamo quotidianamente nel lavoro con gli insegnanti e le classi, di inclusione delle molteplici differenze dei bambini e dei ragazzi (sociali, culturali, caratteriali) con il fine ultimo di produrre una rivoluzione didattica, innescata dalla rivoluzione digitale, nulla di più e nulla di meno, non per ambizione ma per necessità. E gli insegnanti apprezzano, molto.
Mi piace chiudere questa breve riflessione citando una grande maestro della pedagogia italiana Mario Lodi tra i fondatori del Movimento di Cooperazione Educativa che ha cambiato la scuola italiana – basti ricordare l’introduzione del tempo pieno e la promozione della scuola “popolare”- e che ha fissato chiaramente dei principi ancora oggi molto più che attuali: “Ecco i principi alternativi a quelli della scuola autoritaria di classe: le attività motivate dall’interesse invece che dal voto, la collaborazione al posto della competizione, il ricupero invece della selezione, l’atteggiamento critico invece della ricezione passiva, la norma che nasce dal basso come esigenza comunitaria invece dell’imposizione della disciplina fondata sul timore”. Penso che, in questi anni di travolgenti entusiasmi e profonde fobie digitali, l’ecosistema educativo nazionale abbia bisogno di riscoprire principi come questi, di tradurli con più forza che in passato in una visione moderna di scuola, una scuola digitale che deve essere una scuola popolare per accompagnare tutti i nostri ragazzi nel XXI secolo.