Poche persone fuori dal mondo della Human Computer Interaction (HCI) hanno sentito parlare di Lucy Suchman, nonostante sia un personaggio piuttosto celebre in quanto è l’antropologa che con le sue ricerche ha dato vita al settore di studi che prova a capire in che modo far interagire le persone con le macchine, la HCI appunto, e che oggi viene declinata in campi diversi, come UX/UI design.
Alle origini della human computer interaction
Al di là del suo – fondamentale – contributo scientifico, c’è un aneddoto che rivela come sia stato necessario ripensare il rapporto con la tecnologia. La storia è nota come il grosso bottone verde delle fotocopiatrici. Negli anni ’70, la Suchman è stata la prima antropologa ad essere assunta da un centro di ricerca informatico, lo Xerox PARC (Palo Alto Research Center). Il PARC era un luogo avveniristico, sia per le tecnologie sviluppate, che per l’approccio adottato. Per intenderci, è in questo centro di ricerca che sono state sviluppate tecnologie come il mouse e i sistemi operativi a finestre che avrebbero influenzato la visione del computer di Steve Jobs – prima – e di Bill Gates – poi. Uno dei primi problemi delle fotocopiatrici erano essenzialmente le difficoltà nel loro utilizzo.
Nonostante gli ingegneri facessero di tutto per semplificare l’interfaccia di queste macchine, gli utenti avevano grosse difficoltà nel loro utilizzo. La Suchman per studiare questo problema, decise di effettuare delle riprese video dei modi con cui gli utenti interagivano con le macchine. E scoprì una cosa tanto semplice quanto potente: le persone erano disorientate dal gran numero di tasti dell’interfaccia delle fotocopiatrici, non riuscivano a capire quale fosse il tasto da premere per avere delle copie. Suchman risolse la questione suggerendo alla Xerox il classico uovo di Colombo: il tasto copia delle macchine doveva essere messo in evidenza differenziandosi nelle dimensioni e nei colori. Il grosso bottone verde, appunto. Questa piccola innovazione non solo rese più facile l’uso delle fotocopiatrici, ma si diffuse anche in altre interfacce come il fax, gli scanner, le stampanti. Al di là dell’aneddoto la Suchman aveva scoperto una cosa importante: la cognizione situata, ovvero la necessità di collocare le tecnologie in un contesto reale per vedere come le persone si relazionano ad esse. Questo ha cambiato profondamente lo studio della tecnologia, perché da un approccio strumentale – la tecnologia è un artefatto che serve per svolgere una funzione – si è passati ad un approccio ecologico – la tecnologia è un ambiente in cui bisogna calarsi per essere usata al meglio.
Gli smartphone in classe
Questa dicotomia – tecnologia come strumento e tecnologia come ambiente – è recentemente tornata di moda in seguito alla controversia scoppiata in Italia sull’uso degli smartphone a scuola (in classe). La storia è questa. Il MIUR ha dato mandato ad una serie di esperti di diversi settori organizzati in un Gruppo di lavoro per la valutazione dell’uso dei device digitali personali in classe, di elaborare delle linee guida per un uso corretto degli smartphone nelle classi delle scuole. Lo scorso gennaio, durante l’evento “Futura”, progetto del Piano Nazionale Scuola Digitale che si è svolto a Bologna dal 18 al 20, il Gruppo di Lavoro ha rilasciato un decalogo per aiutare i docenti e le scuole ad introdurre questa innovazione nel processo di apprendimento.
Gli elementi del decalogo sono: 1. Ogni novità porta cambiamenti; 2. I cambiamenti non vanno rifiutati, ma compresi e utilizzati; 3. La scuola promuove le condizioni strutturali per l’uso delle tecnologie digitali; 4. La scuola accoglie e promuove lo sviluppo del digitale nella didattica; 5. I dispositivi devono essere un mezzo, non un fine; 6. L’uso dei dispositivi promuove l’autonomia degli studenti; 7. Il digitale nella didattica è una scelta; 8. Il digitale trasforma gli ambienti di apprendimento; 9. Rafforzare la comunità scolastica e l’alleanza educativa con le famiglie; 10. Educare alla cittadinanza digitale è un dovere per la scuola. Come era facile aspettarsi, questo decalogo ha sollevato interesse, ma soprattutto ha scatenato polemiche da parte dei settori più tradizionalisti del mondo della scuola. Interessante da questo punto di vista la critica del pedagogista Daniele Novara che dalle colonne di Avvenire sostanzialmente critica la legittimazione ministeriale degli smartphone in classe, basando la sua argomentazione su due punti. Il primo è che gli smartphone sono pericolosi, sia perché hanno degli effetti cognitivi (sul sonno, sull’attenzione) sia perché fanno accedere alla rete dove – a detta del pedagogista – il 50% dei contenuti sono violenti o comunque non adatti ai bambini (sarebbe interessante controllare la fonte di questi dati). La seconda è che gli smartphone sono strumenti che andrebbero regolamentati per bambini e adolescenti come il consumo di alcol o la possibilità di guidare le automobili, perché c’è un tempo per ogni cosa, anche per gli smartphone.
Smartphone come ambienti
Questa posizione – al netto delle contro-obiezioni sollevate sempre su Avvenire dalla ministra Fedeli – è molto interessante per quanto detto sopra, ovvero considera gli smartphone come strumenti – per accedere alla rete – e non come ambienti. La differenza è sostanziale. Uno strumento è qualcosa d’uso individuale che fornisce delle opportunità che da un punto di vista pedagogico sono controproducenti, o almeno così pare di capire. Mentre considerare gli smartphone come ambienti vuol dire che sono strumenti per l’accesso ad uno spazio culturale e sociale – la rete – dove bisogna impararne l’uso, rispettare delle regole: in pratica bisogna essere educati all’uso degli smartphone. Per questo è necessario che entrino a scuola, così come è necessario sviluppare delle linee guida per capire come sia possibile far cooperare gli smartphone nella formazione di un cittadino che possibilmente una volta cresciuto avrà strumenti per comprendere che alcune contenuti – bufale, messaggi d’odio, atteggiamenti discriminatori – non devono essere condivisi in rete.
Questo fa si che ci sia una specie di incommensurabilità di visione fra il decalogo ministeriale che considera gli smartphone come ambiente e le critiche di certi pedagogisti che considerano gli smartphone come strumenti. Fra chi li considera spazio sociale e chi invece alla stregua di alcool e tabacco. È chiaro che il decalogo proposto dal Gruppo di lavoro del Ministero dell’Istruzione non è il migliore dei decaloghi possibili, sul digitale è praticamente impossibile assumere un atteggiamento panglossiano. Ma è un passo importante per capire che fra scuola, famiglia e studenti si possa creare una collaborazione attiva nel rendere lo smartphone una fonte di opportunità e non solo di distrazione. È necessaria un’educazione critica verso le tecnologie digitali, ma non solo: è necessaria un’educazione critica verso gli strumenti della comunicazione, libro compreso, per evitare di considerare oro colato posizioni eticamente controverse che però sono stampate e rilegate su carta e quindi più legittimate di posizioni meno controverse ma presenti come testi mediale negli spazi digitali, o almeno così sembra secondo un certo atteggiamento neo-luddista.
Le tecnologie pur essendo artefatti, agiscono in un orizzonte sociale che le caratterizzano come ambienti. In questo caso l’unico grosso bottone verde per aiutare nell’utilizzo è l’educazione: non è più un problema di interfaccia, è un problema di cognizione culturale.