Alla fine degli anni 50 del secolo scorso Charles Percy Snow descrisse in una celebre conferenza, poi espansa in un libro, la contrapposizione a suo parere irrimediabile tra due culture: la cultura letteraria e umanistica da una parte e quella scientifica e tecnica dall’altra.
Cultura umanistica vs cultura scientifica: ha ancora senso questa distinzione?
Ma in realtà la storia scolastica italiana può vantare un punto di riferimento precedente e (ovviamente per l’Italia) più ricco di conseguenze: l’istituzione del «Liceo scientifico» nella riforma Gentile del 1923, con la conseguente ridenominazione del tradizionale liceo come «Liceo classico»: la prima volta cioè che, seppure in forma ibrida e molto limitata, la cultura scientifica venne riconosciuta di pari dignità rispetto a quella letteraria, e contemporaneamente dichiarata essere una cosa diversa. Quanto questa distinzione appare ovvia, tanto sembra però problematica e in certa misura dannosa. Che ne è di questa distinzione oggi? E in quale modo l’informatica può aiutare a riformulare il problema oggi?
È anzitutto ovvio, sottolineiamolo subito, che la distinzione della cultura in due campi appare oggi alquanto rozza. Di culture ne esistono semmai molte di più: anzitutto perché esistono le «scienze umane», che fin nella loro dizione reclamano un carattere di frontiera impossibile da costringere nell’uno o nell’altro campo. Ma anche i due campi, apparentemente facili da distinguere, si mostrano al loro interno poco più di un’aggregazione tutt’altro che pacifica di settori di ricerca e mentalità differentissime: la filosofia, per dirne una, si è spesso alimentata (e in parte è addirittura nata) dalla polemica nei confronti del sapere letterario; e dall’altra parte è difficile trovare per esempio molto che accomuni le ardite speculazioni della fisica teorica (quelle che riescono perfino a scalare le classifiche di vendita dei libri) al sobrio ed efficiente procedere empirico della tecnologia.
L’Immaginario comune e le immagini di Degas
Tuttavia, c’è almeno un livello in cui la dicotomia tra le due culture ha ancora validità incontestabile: è il livello dell’immaginario comune. Prima che si entri in una valutazione di merito precisa, la cultura umanistica viene immaginata in maniera diversa da quella scientifica.
Vi ho riflettuto qualche giorno fa, quando, dovendo preparare la bozza di una pagina internet che presentasse il programma di una Winter School in questioni legate all’intelligenza artificiale, come provvisoria immagine decorativa ho pensato di mettere un particolare di uno dei celebri quadri di Edgar Degas che raffigurano delle ballerine. È passato pochissimo tempo prima che mi si facesse notare che non era proprio l’immagine più adatta per far pensare ad un programma di approfondimento serio e rigoroso sull’intelligenza artificiale: ovviamente era vero, e ora campeggia un molto più adeguato (e bellissimo) Vasilij Kandinskij.
L’Informatica come questione umana
E però, credo che se Degas appare meno adatto di Kandinskij, sullo sfondo c’è un problema – anzi ce ne sono due. Da una parte, c’è una scarsa abitudine a vedere nell’informatica una questione umana. Il diluvio di immagini di robot che costellano iniziative legate all’informatica ne è un indizio evidente: nell’informatica vengono sì immaginate cose che imitano l’umano, magari in maniera estraniante (la celebre uncanny valley teorizzata da Masahiro Mori già nel 1970), forse cose che sostituiscono gli esseri umani. Ma non cose grazie alle quali gli esseri umani sono più umani. Nel 2020 Beth Singler (docente di Digital Religion(s)!) dedicò un intero saggio alle innumerevoli variazioni robotiche dell’affresco della creazione di Michelangelo, utilizzate in molti contesti per suggerire temi di studio e di ricerca contemporanea: un’immagine classica e per di più religiosa va benissimo, purché, appunto, l’essere umano sia sostituito da una macchina. (Rimasi perplesso anni fa quando vidi esattamente una di queste variazioni usata nella pubblicità di un’università di ben nota ispirazione cattolica: potenza delle leggi del marketing!).
La formalità nella cultura umanistica
Dall’altra parte, c’è una repulsione a vedere nella cultura umanistica qualsiasi cosa che sia formale, precisa, matematica, esatta. Quante volte «non capisco niente di matematica» viene usato come orgogliosa premessa a dichiarazioni d’entusiasmo per la poesia, la letteratura, le arti figurative, la musica? Le pareti di zero e uno che spesso si usano come illustrazione di discorsi informatici certo fanno allusione al sistema binario che molto presto ha dominato nell’architettura dei calcolatori, ma contemporaneamente suggeriscono anche una cultura in cui tutto è un numero, in confronto ad una cultura in cui i numeri non entrano affatto. Il che, ovviamente, viene giudicato una fortuna o una disgrazia a seconda delle personali preferenze.
Il fatto è che entrambe queste cose sono profondamente sbagliate. È sbagliato pensare che l’informatica (anche sotto la dizione oggi sempre più usata di intelligenza artificiale) non sia una questione umana. Nella sua celebre conferenza dedicata nel 1953 a La questione della tecnica Martin Heidegger si rese responsabile di alcuni dei più persistenti fraintendimenti sulla natura della tecnologia moderna, ma almeno un suo suggerimento è giustissimo e prezioso: gli antichi avevano un’unica parola per ciò che noi distinguiamo come arte e tecnica (tutta téchne in greco, tutta ars in latino).
Si tratta sempre di gesti e prassi in cui gli esseri umani trasferiscono a qualcosa di esterno una forma e una finalità che originariamente non è posseduto, e così facendo in un certo senso lo umanizzano, lo rendono parte del proprio mondo di intenzioni, di scopi, di significati. Un pezzo di selce che diventa un coltello, un blocco di marmo trasformato in una statua, una congerie di materiali assemblato in una macchina complessa, un insieme di pigmenti che dà vita ad un quadro sono da questo punto di vista espressioni di un’unica capacità umana.
E anche se si volesse tentare una distinzione sulla base della gratuità o del possesso di un’utilità («una macchina serve a qualcosa, un quadro no!»), molto presto ci si arenerebbe in casi intermedi e difficili da classificare, o più fondamentalmente nella costatazione che, una volta assicurato il minimo della sopravvivenza biologica, tutto ciò che gli esseri umani continuano a fare è un di più, è una sovrabbondanza di azione, di sentimento, di fantasia.
La musica, massimo esempio dell’unione tra effetto emotivo e matematica
Ma è sbagliato anche immaginare che la cultura umanistica sia nemica dell’esattezza e della formalizzazione. In realtà, questa idea è relativamente moderna, e in parte alimentata da una discutibile pedagogia della spontaneità in cui «scrivere una poesia» significa andare ogni tanto accapo e «fare un disegno» significa disporre senza regole forme e colori. Ma appena si supera questa illusione bambinesca, subito si impara che ogni espressione umana si inserisce in un sistema di regole: per la lingua vi sono le regole della grammatica, per la poesia le regole della metrica (pure quando il verso è libero), per il disegno vi sono le regole della prospettiva (pure quando si vìolano) e dell’accostamento delle forme e dei colori (pure quando si è daltonici). Il caso della musica è uno dei più interessanti, perché unisce il massimo dell’effetto emotivo (chi non si emoziona almeno un po’ ascoltando, fosse pure per la millesima volta, il Canone in re maggiore di Pachelbel?) con il massimo della struttura matematica.
Gottfried Leibniz giunse appropriatamente a definire la musica «una pratica nascosta dell’aritmetica, da parte dell’animo che inconsapevolmente numera»: in effetti, la melodia è una successione di note caratterizzate ognuna da una certa frequenza, l’armonia è fatta di rapporti matematici tra le diverse frequenze, il ritmo è la composizione di durate definite matematicamente, la dinamica è la successione di diversi livelli di pressione sonora: tutta e solo matematica! E se l’interpretazione è la sottile violazione di questa definizione matematica, può esistere solo appunto perché c’è qualche cosa da violare.
La danza delle ballerine di Degas
Le ballerine di Degas danzano su una musica che è tutta matematica, e ad essa aggiungono movimenti sincronizzati, anch’essi definiti matematicamente (geometricamente, per essere più esatti). E quando esse vengono riprodotte su un quadro, un altro strato di formalizzazione si aggiunge: quella che proietta nel quadro bidimensionale una scena tridimensionale, che suggerisce e rappresenta con le sfumature la dinamica dei loro movimenti, che con il gioco di colori contemporaneamente riproduce la scena originale e sfiora quella sinestesia che sottilmente allude alla musica che il quadro non può contenere.
E tuttavia, tutta questa formalità e questa matematica alla fine sono qualcosa che comunica, colpisce, che permette di percepire e immaginare umanità, e che permette anche di essere almeno un briciolo più umani.
L’unità delle culture e il ruolo della Scuola
Credo che augurarsi questa stessa cosa per l’informatica e l’intelligenza artificiale non solo non sia superficiale e illusorio, ma obbligatorio. Quando Ted Nelson nel 1974 pubblicò il geniale libro fondante della cultura hacker e della rivoluzione dell’informatica personale, ne intitolò una metà Dream Machines, «macchine da sogno», pensando esattamente a questo. La pervasività attuale dell’informatica, anzi, costringe a ripensare ad una cultura che in sé è essenzialmente unitaria e radicalmente umana. Questo ha una grande conseguenza anche per la scuola: se questa è il primo luogo in cui la cultura viene pensata e trasmessa, per di più in forme che perlomeno nel sistema educativo italiano mantengono fino alla fine uno sguardo sufficientemente ampio (tutti studiano letteratura e matematica!), essa dovrebbe essere in grado di alimentare un nuovo immaginario, e far capire perché anche le ballerine di Degas hanno a che fare con l’informatica.