In un mondo in cui ci si ascolta e ci si legge poco ma nel quale si parla e scrive molto non mi illudo che la Ministra Pisano abbia voluto accogliere e dare voce ai nostri inviti e suggerimenti – lanciati negli anni, a più riprese, su Agendadigitale.eu e non solo -, ma sono molto, molto felice di leggere il contenuto della lettera scritta dalla Ministra a Repubblica in cui viene descritta a grandi linee la sua proposta per “assicurare, in raccordo con le amministrazioni interessate, lo sviluppo e la diffusione necessari per un adeguato uso delle tecnologie digitali nei mondi della scuola e dell’università”.
Trattasi di proposta che viene da persona che ha sicuramente un adeguato background culturale per lanciarla e credere nello sviluppo di un percorso educativo di cui il nostro paese ha estremo bisogno, di una persona che, siamo sicuri, non lo infarcirà di termini alla moda ma saprà far riferimento alle sue esperienze di ricercatrice e manager negli ambiti dell’innovazione e del trasferimento tecnologico. Siamo altresì sicuri che, anche per il suo impegno nell’etica del digitale, sarà in grado di non ridurre tale iniziativa all’acquisizione di mere abilità tecniche ma che, invece, saprà inquadrarlo in un percorso di più alto profilo volto all’acquisizione integrata delle competenze di cui i giovani, oggi in formazione, hanno bisogno per poter affrontare adeguatamente il loro futuro percorso di vita, non solo lavorativo ma anche di cittadini consapevoli, attivi e impegnati nello sviluppo di un mondo sostenibile.
Come sviluppare la proposta Pisano sul digitale a Scuola
Vediamo, dunque, quali sembrerebbero essere i pilastri a partire dai quali si dovrebbe sviluppare la proposta:
• operare nel segno della discontinuità e del cambiamento per far tesoro degli insegnamenti che sono derivati dal periodo, non ancora esauritosi, del COVID-19, allo scopo di generare opportunità e rimedi per le nostre debolezze e per i ritardi accumulati nei confronti del contesto europeo (vedere indicatori Desi);
• le opportunità offerte dal Recovery fund per stimolare svolte strutturali e culturali che possano alleggerire il peso futuro del debito pubblico;
• messa a frutto dei talenti, con conseguente liberazione dei “canali ostruiti”.
Conseguenza ne è la proposta di introdurre nelle scuole una nuova materia che senza pretese definitorie viene indicata come Scienza dell’innovazione tecnologica, in cui verrebbero a confluire storia dell’innovazione, diritto nei canali digitali, sicurezza cibernetica, capacità di riconoscere canali informativi accreditati, big data, machine learning e intelligenza artificiale, robotica, internet delle cose, 5G, sostenibilità dello sviluppo, etc.
E per l’università quella di dedicare una piccola porzione di ciascun corso all’integrazione delle tematiche curriculari con il digitale.
Scopo principale:
l’acquisizione di competenze digitali per il lavoro e per la vita a cominciare da una sorta di educazione civica digitale;
la trasformazione delle scuole in ecosistemi da cui far germogliare innovazione a vantaggio della società e delle aziende.
Le prime conseguenze, sul breve termine, potrebbero essere, secondo la Ministra, l’assunzione di nuovi docenti e l’aggiornamento professionale del corpo docente.
Mentre nel futuro degli studenti si prospetterebbero lavori di maggiore soddisfazione retributiva e personale.
Tanti gli aspetti toccati da questo che, per certi versi, potremmo definire l’abbozzo di un tentativo di cambio di paradigma culturale. Una proposta di cambiamento che nasconde, tuttavia, non poche insidie e richiede conoscenze accurate degli ambiti a cui ci si rivolge, nonché capacità progettuali ed esecutive di primissimo livello.
Cerchiamo di definire meglio il “territorio di riferimento”, alcune delle insidie che vi si nascondono e delle barriere culturali che potrebbero osteggiare un tal cambiamento. Lo farò con la libertà che mi deriva dall’età e dal non avere la necessità di ingraziarmi alcuno per un futuro, in realtà già vissuto.
Competenze digitali trasversali
Sempre che non si voglia creare dei “funzionari” del digitale (il riferimento è a Flusser) non si ha bisogno, o quantomeno non solo bisogno, di diffondere conoscenze e abilità ma bensì di sostenere lo sviluppo di competenze; non solo saperi o saper fare ma saper essere.
Sempre che non si voglia creare un mondo di tecnofili, con il rischio di trovarsi schierati contro i tecnofobi e di ricadere nell’atavico conflitto generato dalla comparsa della macchina, dobbiamo cercare di non pensare alle competenza digitali come un sistema a sé stante – prendendo a riferimento il DigiComp 2.1 o altro framework – ma come un sistema complesso in cui le competenze digitali soft si innestino nelle competenze trasversali (Life Skills) e le innervino; un sistema in grado di integrarsi con le competenze “hard” proprie di ciascun settore, anche eventualmente quelle tipiche dell’ICT (vale la pena notare che su questo aspetto il DigiComp 2.1 non è in grado di distinguere in maniera adeguata il limite tra l’essere cittadino “digitale” e l’essere professionista del digitale); un sistema, infine, che non resta separato dalla concretezza del progetto e del processo (con uno sguardo alla scuola e agli altri ambiti della formazione diremmo da un apprendimento basato sul “problema, il progetto e il processo”, ovvero P3BL) che sono alla base dell’innovazione e, della necessità che quest’ultima sia “continua”.
L’innovazione continua, come sanno i più, non è monotematica, salvo pochissime eccezioni; sgorga dai territori di confine e necessita di ciò che oggi viene percepita, almeno in ambito universitario come una sorta di “parolaccia”: interdisciplinarietà. Per un po’ è stata in auge ai tempi della riforma Berlinguer ma successivamente, a partire dalla Moratti e da Mussi, colpo dopo colpo, è stata demolita per riaffermare il primato della disciplina.
Come si potrebbe tradurre tutto ciò in un contesto scolastico?
Il problema è complesso ma siamo pienamente d’accordo con la Ministra sul fatto che si debba trattare di un percorso dotato di continuità, da avviare nella scuola primaria e che sia, attraverso una sorta di curricolo verticale, in grado di coinvolgere i due livelli della secondaria per trovare la sua conclusione nel PCTO (ex-alternanza scuola lavoro). Ormai sono disponibili tante esperienze e buone pratiche che hanno mostrato come si possa utilizzare il PCTO per lavorare sull’innovazione e far diventare le scuole degli incubatori di progettualità in grado di concorrere, prima ancora che allo sviluppo del contesto produttivo, all’innovazione sociale; ecosistemi e processi in cui i docenti possano sentirsi parte attiva, al pari e insieme agli studenti. I problemi riscontrati con l’ex-ASL, infatti, non sono stati intrinseci allo strumento ma causati dalla fretta con cui si è voluta mettere in atto una riforma che avrebbe richiesto un’adeguata preparazione e transizione – ad esempio gli ormai famosi patti territoriali di cui si è tanto parlato durante il periodo del COVID-19 – al fine di evitare le distorsioni note ai più e che hanno condotto, con Bussetti, al suo inutile se non dannoso ridimensionamento. Altro errore il non aver sposato da subito un framework basato sullo sviluppo di competenze, termine inserito poi nella definizione di PCTO (Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento), ma che ben poco è stato sostanziato nella pratica.
Il PCTO, come scritto poc’anzi, dovrebbe essere il punto di arrivo del percorso preconizzato dalla Ministra.
Sulla base di esperienze fatte sul campo (ex Scuola Ponte in Nona Vecchio ora Emma Castelnuovo di Roma), sappiamo che è possibile operare e coinvolgere nei processi di innovazione, seppur in forma semplificata, anche gli studenti della secondaria di primo grado, con piena soddisfazione dei ragazzi, dei docenti e delle famiglie. Non a caso abbiamo proposto, in tempi non sospetti e dopo aver sperimentato per alcuni anni sul campo (scuola Ferrari di Roma e non solo), l’introduzione nella scuola secondaria dell’ora di innovazione (che ovviamente e necessariamente coinvolge le TIC). Proposta accompagnata da quella di ristrutturare i curricula in funzione dello sviluppo e della certificazione di competenze, arrivando a ipotizzare anche l’eliminazione dell’esame di maturità e un’ammissione ai corsi universitari, basata totalmente o parzialmente sulle competenze acquisite e certificate.
Più delicato è il discorso relativo alla scuola primaria ma, in un’ottica di curriculum verticale, come suggerito dalla Ministra, si potrebbe far crescere i ragazzi nella convinzione che non vi debba essere una separazione tra educazione civica e comportamento in rete; consapevoli del fatto che oggi i territori digitali sono una realtà e che si deve imparare a muovervisi né più e né meno come in una città, schivandone tutti i pericoli.
Aggiungerei che sin dalla scuola primaria sarebbe necessario lavorare non tanto sul pensiero computazionale in quanto “coding” ma sulla logica che sottende la “programmazione” sia essa procedurale o ad oggetti, e dunque sull’utilizzo di linguaggi diagrammatici. Una delle difficoltà maggiori che incontrano i ragazzi anche a livello universitario è quella di riuscire a impostare un racconto (breve storytelling) di un problema e di una possibile soluzione, di trasformarlo in diagrammi che siano logici e coerenti per poi arrivare al coding vero e proprio.
Di assoluta rilevanza anche la crescita delle competenze digitali dei docenti, richiesta a gran voce anche da questi ultimi come mostrano le indagini condotte sulle conseguenze del lockdown sui processi educativi. Di certo si deve evitare lo spreco di risorse a cui si è assistito con le iniziative previste dal PNSD e sicuramente ci si deve spingere oltre, prevedendo da una parte l’introduzione per i docenti in formazione di un precorso teorico-pratico obbligatorio incentrato sulla pedagogia digitale e dall’altra la messa a disposizione, soprattutto delle scuole primarie e secondarie di primo grado di tecnici con competenze informatiche, competenze che non si può pretendere abbiano gli animatori digitali delle scuole di tali livelli.
Come si potrebbe tradurre tutto ciò in un contesto universitario?
Sicuramente l’integrazione dell’ambito “digitale” con i corsi curriculari è importante, ma è ancora più importante favorire lo sviluppo di competenze di metadesign ed “envisioning” grazie alla creazione di contesti quanto più stimolanti possibile e, dunque, interdisciplinari.
Una volta, mi riferisco al periodo della riforma Berlinguer, si poteva progettare e realizzare lauree, anche in ambito TIC, di alto contenuto interdisciplinare, lauree che negli anni – come nel caso della laurea di Scienza e Tecnologia dei Media – hanno prodotto competenze di grande livello, apprezzate in tutto il mondo. Oggi, per molte ragioni incluso il ritorno alla rilevanza della disciplina, non è più possibile.
La soluzione, allora, potrebbe essere quella dell’istituzione di percorsi aggiuntivi e paralleli, oserei dire quasi di eccellenza, della durata di due anni per ogni ciclo (triennale e magistrale), che consentano agli studenti di più corsi di laurea e aree disciplinare di lavorare insieme su problemi e progetti di innovazione. Alcuni esempi di percorsi del genere esistono anche se non sempre focalizzati sull’innovazione. Quello da me proposto all’ateneo di Roma Tor Vergata qualche anno fa, tra tempi di condivisione e passaggi burocratici di ogni genere si è perso in qualche meandro. Forse lo stimolo della Ministra potrà servire a istituzionalizzare percorsi, come quello da me proposto, in grado di far sviluppare agli studenti universitari competenze altre rispetto alle hard skill disciplinari e prepararli a sviluppare quella capacità di immaginare il futuro di cui oggi ha tanto bisogno il nostro paese, e che ingloba ovviamente un significativo supporto delle TIC.
Il tipo di percorsi sopra descritti possono essere svolti parzialmente, quando non totalmente on-line, e anche questa possibilità è stata dimostrata sul campo. E’ necessario ricorrere alla presenza solo per la prototipazione fisica di artefatti.
Il vantaggio enorme dell’on-line è rappresentato dall’incremento delle possibilità di confronto, come sanno i tanti che in questi ultimi mesi hanno partecipato a webinar e dibattiti virtuali. E’possibile, infatti, avere a disposizione esperti di vari ambiti professionali, provenienti anche da importanti realtà produttive e di ricerca, competenze a cui mai si sarebbe potuto accedere in presenza.
Per inciso l’interazione on-line tra i membri dei gruppi di lavoro – che potrebbero appartenere anche a scuole o atenei differenti – aiuta i ragazzi a entrare nell’ambito del cosiddetto CSCW (Computer Supported Collaborative Work) oggi adottato da molte realtà produttive e che rappresenta il primo passo verso processi distribuiti e delocalizzati in cui interagiscono a distanza individui e macchine (Industria 4.0 nel pieno delle sue potenzialità). Aiuta, inoltre, gli studenti a sviluppare molte competenze trasversali e una ragguardevole dimestichezza con le applicazioni in cloud.
Invitabilmente tutto questo ci riporta alla problematica della connettività che, come emerge delle indagini compiute su scuole e università durante il COVID-19, riguarda prevalentemente l’accesso individuale degli studenti (la larga banda per le scuole, quantunque importante, interviene quando è la scuola a dover generare in uscita o in entrata grandi moli di dati, non quando si lavora in rete da luoghi fisici diversi).
Un accesso che deve essere sancito come diritto e sul quale è necessario operare anche in vista di percorsi dedicati all’innovazione che potrebbero non fermarsi sui banchi di una scuola o essere confinati all’interno di un’orario scolastico, come d’altra parte non si arrestano le interazioni tra i giovani nei social quando ci si sente coinvolti (stato di flow), come ad esempio quando si è impegnati in videogiochi.
Ultimo aspetto non trascurabile è quello delle certificazioni delle competenze che per essere veramente utili e spendibili dovranno far ricorso da una parte a tecnologie digitali (quali gli open badge o la blockchain) e dall’altra a un processo di riconoscimento (“endorsement”) da parte di realtà produttive, di ricerca e culturali.
Sarà sufficiente tutto questo per generare un numero sufficienti di risorse umane?
Lo “skill gap” tra le competenze prodotte dagli odierni contesti educativi e le aspettative del mercato del lavoro, in particolar modo in ambito TIC, è un problema di portata europea e mondiale e riguarda tutti i settori dello STEM.
Gli indici DESI non ci forniscono solo una fotografia statica ma anche una vista dinamica, per quanto trattasi di descrizione solo parziale della stato delle cose. E’ vero che il nostro paese è in ritardo ma è anche vero che sembra seguire l’evoluzione dinamica dell’Europa. Non riesce a recuperare ma, nel complesso, non sembra neppure perdere terreno, tra alti e bassi. Ad esempio sulla connettività (nonostante i problemi sopra descritti, che non sono esclusivamente infrastrutturali) l’Italia ha recuperato e tiene il passo dell’Europa, sui servizi pubblici digitali sta recuperando, sull’uso dei servizi internet segue il trend a distanza, mentre sull’integrazione delle tecnologie digitali e, soprattutto sulle risorse umane si nota, in effetti, una tendenza all’allontanamento dall’evoluzione europeo.
Vale la pena notare come gli indici DESI non includano ancora gli effetti indotti dal COVID-19 sull’utilizzo di internet e dei servizi digitali, né ci raccontano dell’aumento generalizzato delle competenze digitali di base. Ad esempio le indagini da noi svolte su università e scuola hanno mostrato come percentuali altissime, intorno al 90%, di docenti e studenti non abbiano incontrato difficoltà a transitare dalla didattica in presenza a quella a distanza e a utilizzare, seppure limitandosi in gran parte all’impiego delle funzioni indispensabili, le tecnologie messe a disposizione dalla rete.
Di certo tali indici non ci raccontano, inoltre, il perché i giovani non frequentino i corsi di laurea di ambito STEM.
Come mai ci sono, invece, tanti giovani che vogliono iscriversi a Medicina?
Sicuramente si deve tener conto di atavici fattori culturali. “Avere un medico in famiglia” per molti è ancora un motivo di vanto e di miglioramento della reputazione sociale, ma non basta. La leva economica, su cui si basa molta parte della considerazione sociale, è fondamentale.
Negli anni venti del secolo passato si potevano permettere l’iscrizione al corso di laurea di fisica solo i figli di famiglie bene (si pensi ai ragazzi di via Panisperna), non si poteva contare su un impiego remunerativo. Alla fine degli anni ’70 tale possibilità era alla portata di tutti, le possibilità di lavoro erano cresciute enormemente, ma ci si iscriveva ancora per passione; erano percorsi duri, in quattro anni si laureava solo l’1% degli iscritti; era ancora un’epoca in cui la propensione per l’impegno sociale era forte, ognuno a suo modo pensava di poter contribuire al miglioramento della società e la necessità di guadagni significativi non era così sentita; nonostante ciò c’era la quasi certezza di poter sviluppare una qualche prospettiva di vita futura. Oggi domina la disillusione, l’incertezza e il vivere alla giornata e gli stipendi di chi opera negli ambiti STEM, a meno che non fugga all’estero o non riesca a diventare dirigente (quindi cambiando mestiere), sono davvero bassi, molto più bassi di quelli percepiti da figure equivalenti in molti altri paesi europei.
Con tutta franchezza, signora Ministra, se la sentirebbe di spingere sua/o figlia/o a iscriversi a uno dei corsi di laurea che fanno riferimento allo STEM (TIC incluse) con le attuali prospettive di guadagno e di vita, neppure compensate da un’adeguata considerazione sociale?
Mi capita spesso e volentieri di provare a trasmettere ai ragazzi il mio entusiasmo per l’innovazione, per la capacità di sviluppare uno “sguardo discosto” verso il futuro, l’attenzione per la sostenibilità e le opportunità offerte dal digitale, ma non riesco più a fare orientamento per indirizzare gli studenti verso le professioni STEM (neppure per scoraggiarli, in verità). Mi sembrerebbe di prenderli in giro, di indirizzarli verso una vita di sacrifici personali che solo nel caso si sia pervasi dal fuoco sacro della “vocazione” si può sopportare … e sintanto che il fuoco non si esaurisca.
Bisogna valorizzare i talenti in Stem
E’ davvero importante, dunque, che si trovi il modo di valorizzare i talenti. Oggi ci sono per i giovani tante possibilità in più offerte dall’Europa ma in Italia sono quarant’anni che assisto a riforme che nell’intenzione vorrebbero premiare il merito e che poi nella pratica vengono sempre aggirate, come si dice: fatta la legge, trovato l’inganno.
E’ anche importante che i finanziamenti – si è fatto accenno al Recovery fund – smettano di essere distribuiti sulla base di logiche assistenzialistiche: dalle poche migliaia di euro che illudono tanti startupper che per fare impresa sia sufficiente avere un’idea senza doversi preoccupare di mettere in moto un irrinunciabile processo di innovazione continua; alle centinaia di migliaia o milioni di euro che vengono utilizzati per assistere aziende e/o ambiti di ricerca senza che poi si debba rendere conto dell’impatto generato.
Il tempo in cui si foraggiavano aziende e laboratori per realizzare “finte” innovazioni attraverso i progetti finalizzati degli anni ottanta (e tutti gli altri che sono venuti dopo) non sono replicabili, pena il caricare sui nostri figli e nipoti ulteriori debiti. Almeno nella ricerca finalizzata e precompetitiva, come pure nell’imprenditoria basata sull’innovazione è necessario farsi indirizzare dal “faro” l’impatto e dalla cultura della valutazione ex-post.
Non è un caso che, come ha reso ancor più palese la didattica svolta durante la pandemia, oggi si sia completamente dipendenti da applicazioni realizzate quasi totalmente negli States.
In bocca al lupo Ministra… nel nostro piccolo la sosterremo convintamente in questo complesso e impervio, ma necessario percorso, che ha inteso intraprendere.