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L’ora di innovazione per cambiare la scuola dal basso: ecco perché è importante

I processi di innovazione consentono di sviluppare un ampio insieme di Life Skill ma, soprattutto, consentono ai ragazzi di convincersi che possono determinare il loro futuro e quello degli altri a partire esclusivamente da una loro idea, una loro vision. Per questo a scuola si dovrebbe introdurre l’ora di innovazione

Pubblicato il 03 Lug 2019

Carlo Giovannella

ASLERD e Università di Roma, Tor Vergata

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Di fronte a una scuola che troppo spesso non è nelle condizioni di formare le competenze necessarie per il mondo del lavoro e di trovare una vision condivisa sul digitale – che parta dalla dirigenza e arrivi a incentivare i docenti – sarebbe utile introdurre l’ora di innovazione, per provare a spingere il cambiamento dal basso.

Le tecnologie digitali, del resto, potrebbero avere un ruolo determinante per il raggiungimento dell’obiettivo 4 dell’agenda UNESCO per il 2030.
Ricordiamo qui i due pilastri che sono alla base dello sfaccettato obiettivo 4 sono:

  • il diritto di accesso per tutti a “un’educazione di qualità, equa e inclusiva”;
  • la possibilità di acquisire competenze utili a far crescere il livello di occupabilità individuale e, al contempo, la capacità di contribuire alla messa in atto e diffusione di stili di vita più sostenibili.

Il rapporto tra digitale e raggiungimento di questi obiettivi è stato tra l’altro anche il filo conduttore del primo Open debate organizzato dall’ASLERD, che si è svolto lo scorso 22 maggio nella sede Centrale del CNR di Roma – con il supporto dell’ITD-CNR di Genova, Softlab, CKBG e Agendadigitale.eu.

L’Open debate – formula molto gradita sia al pubblico che agli intervenuti – ha consentito di far emergere i punti di vista di varie componenti della società civile che usualmente non avrebbero avuto voce in un convegno internazionale quale è stato SLERD 2019.
Molti i temi toccati. Qui di seguito un breve sunto dei più rilevanti.

Il potere ridefinitorio del digitale

Il primo degli aspetti emerso è stato il potere ridefinitorio del digitale che, in qualche maniera, strizza l’occhio al concetto di brainframe introdotto più di mezzo secolo fa da McLuhan e, poi, esploso in tutte le sue potenzialità da De Kerckhove.

E’ sotto gli occhi di tutti come la ridefinizione delle modalità di interazione sociale, abbia indotto anche la modifica di quelle emotive e di quelle cognitive ridisegnando persino la fisicità dell’interazione. Inevitabile, quindi, fare riferimento alla probabile ridefinizione, attualmente in corso, delle “intelligenze” e – non di meno interesse in questo contesto – a quella della natura intrinseca delle competenze trasversali e delle modalità con cui tale ridefinizione può estrinsecarsi in tutti gli ambiti della vita lavorativa e sociale.

Le conseguenze del potere ridefinitorio del digitale inevitabilmente, quindi, si estendono alle caratteristiche del sapere e, conseguentemente, alla ridefinizione dei curricula, rinverdendo l’atavico dilemma tra espansione e approfondimento, reso ancor più problematico dalla compressione della dimensione temporale operata dal digitale.
Non pochi gli interrogativi che rizomaticamente sono emersi da queste considerazioni:

  • il pensiero computazionale è davvero una disciplina a sé stante o piuttosto un nuovo tentativo di diffondere le basi del pensiero logico?
  • Il diffondersi dell’intelligenza artificiale sarà in grado di potenziare anche l’intelligenza umana o ci condannerà a una crescente pigrizia cognitiva?
  • Come si possono educare i giovani a divenire generatori di oggetti del sapere e non consumatori acritici in balia dell’opacità dell’oceano digitale, ben sapendo che in una situazione di networking diffuso come l’attuale le modalità di generazione potrebbero indirizzarsi lungo percorsi anche molto diversi da quelli canonici e codificati?
  • Come fare in modo che i docenti-tutor possano ridefinire le loro competenze per poter accompagnare i giovani in tale sforzo?

La preparazione della classe docente

Oggi la gran parte della classe docente, e anche di quella dirigente, risulta drammaticamente impreparata e più o meno scientemente bloccata di fronte alle trasformazioni in atto che producono in molti da una parte gli anticorpi al pensiero debole ma, dall’altra, anche un rifiuto e la paura di adattare e ridefinire gli approcci operativi (si pensi all’incapacità di integrare nella didattica un uso intelligente degli smartphone, che in un continente come l’Africa sono ormai divenuti strumenti di emancipazione culturale).
Trattasi di barriere psicologiche che impediscono il diffondersi di esperienze come quella del Liceo di Ceccano che da tempo ha virato sul BYOD stabilendo un patto di fiducia con studenti e famiglie, che sta sperimentando sul ruolo di docente facilitatore di curricula (accettando persino l’inversione delle competenze), che continua a costruire una rete di sostegno operativa all’uso, diremmo noi, significativo del digitale, dimostrando come non sia necessario partire da lauree specialistiche ma bensì da una vision condivisa che deve albergare prima di tutto nella dirigenza per poi essere sostenuta operativamente da docenti motivati e incentivati i quali, alla fine, potrebbero persino arrivare a dimostrare l’utilità e la necessità della banda larga.

L’adeguatezza della dirigenza scolastica

Quello dell’adeguatezza della dirigenza (DS e DSGA) e della capacità di fare squadra – fungendo da supporto a chi crede nella necessità di affrontarne il potere ridefinitorio del digitale, senza subirlo, per trovare nuovi equilibri nell’educazione dei giovani – è oggi uno dei problemi principali delle scuole italiane. Infatti, non esiste tavolo in cui la discussione non venga ricondotta in prima istanza alla vision della dirigenza e in secondo luogo al supporto dell’apparato amministrativo, in altri termini alla capacità della dirigenza di creare un ambiente armonico, motivante e incentivante.
Forse varrebbe la pena non solo ripensare la valutazione in termini di co-partecipazione bottom-up (come sperimentata negli ultimi anni in un certo numero di scuole romane) ma di attivare un sistema per segnalare al MIUR casi di eccellenza, segnalazioni che possano essere effettuate da famiglie e portatori di interesse del territorio  e che, una volta verificate, possano condurre a premialità consistenti per la scuola e per le persone che ne sono state artefici.

Ridefinizione e allargamento del concetto di open access

Altro tema emerso, connesso alla rete di sostegno operativa a cui accennavamo sopra, è la ridefinizione e allargamento del concetto di open access su cui già qualche anno fa avevamo invitato a riflettere: “Nonostante le potenzialità che ha l’open access (a contenuti e strumenti) di generare una rivoluzione nelle modalità di insegnamento e apprendimento e nella trasformazione di competenze e qualifiche, vi è un reale pericolo che possa produrre anche un’allargamento del divario culturale tra regioni, stati e continenti. La piena attuazione di tutto il potenziale di un’educazione aperta richiede, inevitabilmente, non solo la disponibilità e la manutenzione di infrastrutture digitali efficienti ma anche la disponibilità e l’accesso a una rete di competenze a cui dovrebbero contribuire tutti i portatori di interesse dei processi educativi inclusi coloro che operano nella società, in ambiti non formali, e che sono coinvolti nel promuovere e realizzare cambiamenti sostenibili”.

L’accesso agli strumenti

Ancora oggi, dunque, l’accesso alle competenze disponibili sul territorio (non solo a quelle rintracciabili nella virtualità della rete) è tema di grande attualità. Un po’ meno rilevante sembra essere, invece, quello dell’accesso agli strumenti. Se da una parte resta elevata la richiesta di applicazioni in grado di potenziare in maniera “puntiforme” metodologie e attività didattiche, dall’altra si percepisce un minore interesse per gli ambienti di apprendimento on-line (da alcuni chiamati “piattaforme”).
Infatti,  al pari della politica in cui si discute di come presidiare il territorio, nel mondo della formazione ci si pone il problema di come incontrare gli studenti nei “luoghi in cui abitano”, ovvero nelle piazze virtuali della rete: Facebook, Whatsapp, Instagram. Una scelta per certi versi comprensibile perché in questi anni gli ambienti didattici non sono riusciti ad affrontare la vera sfida su cui si sarebbe giocata la loro esistenza futura: quella dell’interoperabilità (legata a doppio filo alla facilità di accesso e uso).

In molti si rendono ormai conto che dal 2005 gli ambienti didattici si sono svuotati a favore delle delle metropoli virtuali (rappresentate dai social) e sono ben disposti a passare sopra alle problematiche relative ai diritti d’autore e alla privacy pur di andare incontro ai giovani. Sono persino disponibili a rinunciare al potere degli “analytics”, ovvero all’insieme di strumenti in grado di aiutare i tutor ad analizzare la multidimensionalità del processo didattico e dell’interazione. A tale proposito vale la pena sottolineare come l’approccio scientifico (scienze dell’educazione) non sia mai stato in gran voga alle nostre latitudini ove si è sempre privilegiato un approccio più istintivo e “artistico” ai processi di apprendimento; l’asservimento ai social, che non consentono neppure di esportare i propri dati, farà il resto e relegherà gli analytics in ambiti molto specialistici e, forse, nelle “piattaforme” MOOC, perpetrando la convinzione che insegnare e valutare sia soprattutto un’arte che si costruisce sul campo e con l’intuito.

Il ridimensionamento dei miti

Anche altri miti si stanno attenuando. Di LIM non si sente più parlare come di una panacea, finalmente viene considerata per quello che è: ovvero una superficie di proiezione (con proiettore incorporato e computer collegabile) integrata a una lavagna sensibile a cui il software conferisce la possibilità di memorizzare il segno e di fungere da mega mouse/tavoletta grafica. Altresì si è attenuato il riferimento al mondo dei maker, per quanto rimanga molto forte l’accento sul fare, frutto anche dalle reminiscenze e dell’orgoglio italico per l’opera della Montessori. Le stampanti 3D stanno perdendo il fascino della soluzione di massa al making (si ripensi alla distribuzione a pioggia effettuata un paio di anni fa dalla Regione Lazio) e, anche a causa della poca attrattività riscontrata nelle scuole, si stanno posizionando nella casella che a loro spetta: quella di strumenti di prototipazione

rapida (nella fattispecie meccanica) che si devono integrare con altre tecniche di prototipazione rapida a servizio dei processi di innovazione (senza per questo dimenticare la rilevanza che possono assumere le stampanti 3D in produzioni di nicchia artigianali e/o in ricerche particolarmente avanzata).

Il problema dello skill mismatch

Tornando al tema delle competenze, troviamo un fronte aziendale sempre più preoccupato dallo skill mismatch e dalla drastica riduzione del numero di figure tecniche adeguatamente preparate in uscita dalla scuola secondaria di secondo grado. Di fronte a una battaglia che ormai viene considerata quasi persa sembra diffondersi, soprattutto tra le grandi aziende, un sentimento di rassegnazione e ci si orienta, anche all’interno delle esperienze di alternanza scuola-lavoro, verso percorsi in grado di esplorare le potenzialità degli studenti, soprattutto nell’ambito delle Life Skill, essendo tutti ben consapevoli che le necessarie verticalizzazioni sulle competenze digitali hard dovranno essere rimandate a futuri periodi di apprendistato e che, comunque, professioni e ruoli del futuro saranno caratterizzati da una sempre maggiore fluidità.

Perché l’ora di innovazione a scuola

Quale, dunque, la proposta che può emergere dal quadro che si è venuto a delineare da questo primo “open debate”?
Prendendo a prestito le parole di Annalisa Buffardi, diremmo quello di abilitare i giovani a “immaginare innanzitutto se stessi come attori del cambiamento, capaci di intercettare i bisogni emergenti sul versante dell’innovazione sociale, economica e produttiva, anche a partire dalle nuove opportunità tecnologiche, nella direzione della sostenibilità e del benessere”.
Come?
Introducendo in tutte le scuole l’ora di innovazione.
Oltre a essere un fattore non competitivo dell’economia che ha portato Paul Romer a vincere il premio Nobel, l’innovazione è ciò che consente alle aziende di resistere sul mercato nel lungo periodo e riteniamo dunque, che per certi versi, sia ancora più importante dell’imprenditorialità, che invece è stata inclusa tra le otto competenze chiave a livello europeo ed è considerata rilevante persino per la scuola primaria italiana.
I processi di innovazione consentono di sviluppare nei ragazzi un ampio insieme di Life Skill ma, soprattutto, consentono loro di convincersi che possono determinare il loro futuro e quello degli altri, a partire, come vorrebbe Leonardo, solo ed esclusivamente da una loro idea, una loro vision.
In Svezia qualche anno fa hanno istituito il Ministero del Futuro per provare a governare l’innovazione dall’alto perché noi non potremmo istituire l’ora dell’innovazione per provare a indurre un cambiamento culturale dal basso?

L’appuntamento è al prossimo open debate che si terrà a settembre a Foggia in occasione di EMEM 2019.

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