la riflessione

L’Università dopo la Dad: perché non è proprio tutto da buttare

Il ritorno degli studenti nelle aule universitarie (e non solo) è un auspicio che tutti facciamo dopo la pandemia, ma non tutto ciò che è accaduto in questi due anni è da archiviare come un brutto incubo. La tecnologia ha aiutato a trovare soluzioni che per molti sono state vantaggiose. Vediamo perché

Pubblicato il 19 Lug 2022

Giovanni Salmeri

Università degli Studi di Roma Tor Vergata

proctoring - educazione civica digitale - Borsa di studio Inps

Archiviati (almeno si spera!) i due terribili anni di restrizioni sanitarie, anche la «didattica a distanza», la famigerata DAD, sembra essere pronta ad andare in soffitta.

Certo, nel frattempo tante cose sono state apprese e probabilmente mai più si tornerà indietro: per riunire qualche commissione o il comitato scientifico di qualche società, forse da ora in poi si preferirà sobriamente ed ecologicamente accendere il computer anziché spendere soldi e risorse in Freccerosse e benzina.

Ma il caso dell’insegnamento è diverso: l’isolamento a casa ha significato mancanza di rapporto umano, ridotta efficacia dell’insegnamento stesso, non di rado anche sindromi depressive. Sicuramente questo vale per la scuola. Ma vale anche per l’Università? La questione è qui più complessa: in un certo senso è più grave ancora, in un altro meno certa e bisognosa di approfondimento.

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La Dad e l’Università

Iniziamo subito dal dire perché è più grave ancora. Recentemente ha posto il dito nella piaga un articolo-manifesto di Simone Borra, Annalisa Castelli e Gustavo Piga (disclosure: due su tre sono miei colleghi a Roma Tor Vergata, con i quali per un certo periodo ho condiviso pure il medesimo Dipartimento). L’Università è nata come un’avventura umana, una comunità di docenti e studenti, lo è stata per secoli, e ciò è durato praticamente identico, dicono giustamente gli autori, fino a poco più di un decennio fa (io retrocederei qualche anno in più, ma sono dettagli). È da allora che l’unico criterio di valutazione (e quindi anche di carriera, e di distribuzione delle risorse) è soltanto la ricerca, anzi per essere più esatti la pubblicazione dei risultati della ricerca. Che si faccia bene o male lezione, o addirittura che si faccia o no lezione, non ha la benché minima rilevanza. Purtroppo, gli autori hanno perfettamente ragione.

Un aneddoto di qualche anno fa: uno studente (non dico di quale Università) mi racconta che alla prima lezione di un corso il professore si presenta in aula con una pennetta USB e dice loro: «Qui ci sono in MP3 le mie lezioni dell’anno scorso. Dovete capirmi, per me stare in aula a far lezione è una perdita di tempo, perché alla fine di me vengono valutate solo le pubblicazioni. Quindi ascoltate gli MP3, se poi avete qualche domanda ovviamente sono a vostra disposizione. Sennò arrivederci al giorno dell’esame, grazie!» La veridicità dell’aneddoto è sicura, tra l’altro perché lo studente me lo riferiva per esternarmi la sua stima nei confronti della sincerità del professore.

Ma che c’entra la DAD con tutto questo? Il fatto è che, preterintenzionalmente, l’insegnamento a distanza di questi due anni ha consentito di fare un piccolo passo in più nei confronti della distruzione dell’Università come comunità di professori e studenti: gli studenti semplicemente non ci sono più stati neppure fisicamente. La scenetta che ho or ora riferita è diventata la norma, mutate le circostanze tecniche: all’inizio del corso ora si è dato non un file MP3 ma il codice di un’aula virtuale. Certo: ora le lezioni venivano fatte di bel nuovo, forse si è aggiunta la possibilità di sfiorare l’icona con la manina e una volta su mille fare una domanda (connessione permettendo): dal punto di vista di uno studente poca differenza, però, pochissima. Tutto risolto ora, finita l’emergenza? Borra, Castelli e Piga dicono: neppure per idea, perché, senza far troppo rumore, senza sottolinearlo, le Università stanno confermando anche per il prossimo anno questa didattica «ibrida» (in presenza, ma pure a distanza), che incoraggerà sempre più gli studenti a rimanere a casa, spenti, e accelererà la mutazione genetica di un’Università che non è neppure più degna di chiamarsi tale, visto che «universitas» significa «corporazione»: di studenti, anzitutto. Certo, riconoscono, la didattica a distanza ha favorito involontariamente in questo paio di anni studenti disabili, e magari studenti fuori sede che non possono permettersi un soggiorno fuori casa, o lavoratori, o carcerati. Ma tutti questi sono seri problemi, affermano, che possono e devono essere affrontati in altri modi, migliori di quello di un insegnamento ibrido che non è veramente adatto né a chi è presente né a chi è assente.

I vantaggi della frequenza “fisica”

Trovandomi a lavorare in una Facoltà dove la figura del «non frequentante» è sempre stata normale, e per di più in un corso di laurea come quello di Filosofia che è scelto tipicamente da piccoli drappelli di studenti motivatissimi, faccio fatica a riconoscermi in alcune delle osservazioni che vengono lì fatte: per esempio, dubito che la didattica ibrida possa davvero incoraggiare a restare a casa una percentuale significativa dei miei studenti. Finora almeno non mi pare che sia avvenuto questo. Fatte salve queste perplessità, non posso che sottoscrivere completamente il punto fondamentale del discorso: non c’è nessun dubbio che frequentare fisicamente è molto meglio che stare davanti ad uno schermo, se non altro per tutti quegli aspetti umani che in maniera imprevedibile si sommano all’esperienza (anch’essa importante) della frequenza dei corsi. Tra le cose che ricordo di più dei miei anni di Università (anche dal punto di vista intellettuale!) vi sono le chiacchierate coi miei colleghi alla mensa, gli incontri negli studi dei professori: tutte cose che, malgrado i possibili ausili tecnici, semplicemente non possono avvenire senza la presenza fisica. Se poi vogliamo parlare della mutazione genetica dell’Università, sono d’accordo nel deplorarla e credo che l’irrilevanza oggi attribuita all’insegnamento sia una vergogna. Ogni investimento personale in esso è di fatto disincentivato. Certo non è facile «valutare» l’insegnamento (a prescindere dal fatto che un sistema di valutazione, premi e punizioni non è affatto il modo migliore di incoraggiare a fare meglio): ma che per esempio si obblighino gli studenti a compilare precise valutazioni di ogni corso per poi gettarle tutte al secchio senza farne assolutamente nulla (neppure l’inizio di una riflessione!) mi pare alquanto bizzarro.

Insegnamento ibrido: le cose importanti su cui riflettere

Ciò detto, e dunque dichiarato il mio globale accordo con il manifesto «Per una Università in presenza», non credo però che ciò che è accaduto in questi due anni sia semplicemente da archiviare come un brutto incubo. L’impressione che avevo più di due anni fa non è cambiata. Credo che i due anni di insegnamento a distanza, o «ibrido», abbiano fatto scoprire cose importanti sulle quali vale la pena di riflettere meglio.

Per una fortuita coincidenza, proprio in questi giorni ho letto, dopo averlo visto per caso su una bancarella (altro piccolo esempio delle felici coincidenze che la presenza fisica permette!), un libro straordinariamente interessante, pubblicato in francese nel 1967 e tradotto in italiano tre anni dopo: si tratta di Macchine per insegnare, di Bernard Planque. L’idea delle «macchine per insegnare» in quell’epoca andava di moda, come ogni conoscitore della storia della pedagogia sa: nel giro di pochi anni ben altri tre libri vennero pubblicati in Italia con un titolo molto simile. In questo caso però l’espressione indica per estensione anche un altro uso della tecnologia dell’epoca: non solo macchine che appunto possano «insegnare» tramite un’attenta programmazione di dati, domande, risposte; ma anche macchine che aiutino a diffondere l’insegnamento oltre i limiti della classe tradizionale: e all’epoca si trattava ovviamente della radio e della televisione, nonché eventualmente «magnetofoni» (registratori) e «magnetoscopi» (videoregistratori).

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Macchine per insegnare e progresso

Le due tipologie di macchine rispondono ad esigenze diverse, e in un certo senso contrastanti: nel primo caso di tratta di insegnare in un modo che sia adattato per ritmo e percorso al singolo studente; nel secondo si tratta di diffondere i medesimi contenuti didattici (siano essi principali ovvero di supporto ad un insegnamento tradizionale) ad un numero quanto maggiore possibile di studenti. Tali due esigenze, però, hanno un presupposto comune: l’istruzione deve uscire dal suo periodo artigianale. Sistemi didattici rimasti sostanzialmente identici dall’antichità non sono in grado né di tener dietro ad una civiltà umana che avanza con tanta velocità, né di far giungere tutti i popoli della terra ad un adeguato livello di istruzione. Una pedagogia arcaica, che non si riesce a liberare dal modello del precettore delle famiglie nobili, impedisce insomma contemporaneamente il benessere, la democrazia, la libertà. L’avversione alle «macchine per insegnare» (intese nell’uno o nell’altro dei due sensi detti prima) è insomma similissima all’avversione alla stampa da parte dei professori della Sorbona nel Rinascimento: quella cosa orribile che interrompeva il rapporto personale tra maestro e allievo e permetteva a chicchessia di godere di tanto alto sapere, e che però è stata cruciale nel progresso dell’umanità, e che poi, peraltro abbastanza rapidamente, è stata reintegrata all’interno di un rapporto umano di insegnamento.

Insomma, un interessante libro sulla DAD scritto più di cinquant’anni fa! Anzi, alcune esperienze pilota di cui parla sono ancora precedenti: il termine che viene usato per indicare la scuola per televisione è «Telescuola», che però altro non era che il nome usato dal 1958 per il programma sperimentale della RAI preparato con il sostegno del Ministero della Pubblica Istruzione. Questo programma fu all’origine del più celebre «Non è mai troppo tardi», trasmesso dal 1960 al 1968, che fu lo stimolo per l’alfabetizzazione di un milione e mezzo di italiani. L’Italia era in questo all’avanguardia del mondo, tant’è vero che queste trasmissioni furono imitate in più di una settantina di altre nazioni.

Non tutta la Dad vien per nuocere

Potrebbe far sorridere confrontare il mitico maestro Alberto Manzi con la didattica ibrida delle Università. Ma, mutatis mutandis, i problemi dell’istruzione si assomigliano. Se in quegli anni c’era il problema dell’analfabetismo, oggi c’è il problema di una formazione universitaria in Italia che è di gran lunga inferiore a quella necessaria: analfabetismo accademico, potremmo dire. Di fronte alla retorica, idiotamente echeggiata anche nei grandi mass media, secondo cui in Italia vi sarebbero troppe Università, troppi professori e troppi studenti, bisogna ripetere che è vero esattamente il contrario: troppo poche Università, troppo pochi professori, troppo pochi studenti. La semplice trasmissione delle lezioni può rimediare a tutto questo? Certamente no. Lo stesso maestro Manzi, a chi lo lodava per i suoi risultati, replicava che tutto era potuto avvenire solo grazie al contemporaneo straordinario impegno del Ministero: ben duemila televisori e duemila maestri mandati in tutta Italia. Ma dall’altra parte è indubbio che il programma televisivo fu un forte stimolo, che lasciò che la televisione fosse occupata da un contenuto formativo e contemporaneamente lasciò che l’istruzione uscisse dalle aule e invadesse la sensibilità comune. Tornando all’Università: questi due anni di didattica ibrida, oltre che rimediare in qualche modo ai limiti imposti dalle normative sanitarie, hanno pure permesso di vedere per la prima volta un pubblico studentesco che altrimenti non sarebbe mai comparso, esattamente quello che Borra, Castelli e Piga nominano: disabili, malati, lontani, lavoratori. Non riesco a contare le volte in cui, dopo aver esordito: «Certo, quest’anno è stato molto difficile per l’Università…» mi sono sentito timidamente rispondere: «Veramente per me è stata una fortuna, mai in altro modo avrei potuto studiare all’Università» o «mai in altro modo avrei potuto seguire le lezioni».

Certo, è possibile rispondere da una parte che l’Università dovrebbe far di tutto per rendere possibile pure a costoro di frequentare, dall’altra che questa è esattamente la missione delle Università telematiche. La prima parte di questa replica è giusta: ma condurre una battaglia a lunga scadenza non può impedire di cercare i rimedi per ora possibili. La tecnologia serve proprio ad aiutare a trovare soluzioni possibili. La seconda parte, che vorrebbe delegare il problema alle Università telematiche, non mi convince invece più. Non mi convince soprattutto perché quello che all’inizio a noi professori appariva come una maldestra toppa (accompagnata per di più dal timore che fosse, come si usa dire, peggiore del buco) alla fine si è mostrato, se non sempre almeno spesso, come una combinazione felice.

Certo: di gran lunga meglio essere presenti fisicamente, ma la lezioni trasmesse sono state, per chi non frequentava fisicamente, uno sguardo dentro un’aula reale, con persone reali, in cui il nostro parlare guardava occhi, riceveva domande reali, ad esse rispondeva. Sicuramente un senso di partecipazione di gran lunga superiore a quello possibile con uno studio solitario. Sinceramente non riesco ad immaginare un second best diverso da questo (se non, certamente, quello che si può ottenere migliorando ancora la qualità delle lezioni e la qualità tecnica delle trasmissioni, per esempio). Dall’altra parte: il fatto che le lezioni fossero trasmesse ha forse significato per me sopprimere qualche battuta spiritosa (peccato!), ma anche pensare meglio al filo logico che dovevo seguire, sforzarmi di essere più chiaro per compensare la difficoltà degli assenti a porre domande, semplicemente mostrare che quello che ascoltavano non era di serie B, ma il meglio di cui ero capace. E il fatto che le lezioni (per mia scelta) fossero anche registrate ha significato per tutti gli studenti (frequentanti e non) la possibilità di riascoltare i passaggi che meritavano, o che per esempio erano stati da me percorsi un po’ troppo velocemente. Sono considerazioni che faccio per esperienza, ma che in parte sono similissime a quelle che già si facevano nel 1967.

Conclusioni

C’è infine un’ultima considerazione che credo valga la pena di essere fatta. Appartengo alla generazione che tante volte ha sentito: «Le lezioni universitarie sono pubbliche!». Questa era la risposta che davano tutti i miei professori quando qualche ospite timidamente chiedeva se poteva restare in aula ad ascoltare. Qualche tempo fa volli appurare se questo principio è ufficialmente stabilito in qualche legge dello Stato: pare di no, è solo il riflesso di un’antica consuetudine. Credo che si tratti però di un’ottima consuetudine: sia perché simboleggia bene il carattere aperto del sapere, sia perché rispecchia lo spirito pubblico dell’Università stessa, quello stesso spirito che mi induce, nei rari casi in cui mi trovo ad essere presidente di una commissione di laurea, a proclamare testardamente il risultato finale «in nome del popolo italiano». Che cosa accadrebbe allora se sempre più i professori universitari aprissero virtualmente le loro aule e facessero ascoltare a chiunque desidera, quando desidera, che cosa hanno da dire sulla loro materia? Certo, quest’ascolto non è la stessa cosa che essere presenti in aula. Ma neppure la lettura di un libro lo è, però questo non ci impedisce di pensare che scrivere e stampare (magari in Open Access) sia una cosa buona, e dobbiamo solo ringraziare l’evoluzione della tecnologia se, invece del «magnetoscopio del costo di una piccola automobile» dell’epoca di Bernard Planque, ora per vedere e ascoltare una lezione basta un telefono che qualsiasi ragazzo o ragazza, qualsiasi uomo, qualsiasi donna, qualsiasi cittadino o cittadina ha in tasca. Credo che si possa desiderare questo esattamente con lo stesso spirito con cui desidera che le aule tornino ad essere piene.

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