didattica oltre il covid

Meglio in presenza o a distanza? Ridefiniamo la scuola per risolvere il conflitto

Con il Covid19 e con questa organizzazione scolastica, la presenza ha molte caratteristiche della distanza e, viceversa, grazie al digitale, la distanza può favorire socializzazione e collaborazione, ritenute tipiche della presenza. Per conciliare le due modalità occorre un cambiamento radicale. Ecco in quale direzione

Pubblicato il 12 Gen 2021

Vittorio Midoro

già dirigente di ricerca CNR presso l'Istituto Tecnologie Didattiche

scuola 2

Il dibattito sul conflitto tra presenza e distanza, su cui si è focalizzata l’attenzione dell’opinione pubblica riguardo alla scuola, merita un approfondimento. In tempi di pandemia, quali sono le caratteristiche dell’essere in presenza a scuola e quelle a distanza, a casa? Come queste non solo possono conciliarsi, ma anche contribuire a un ripensamento del modo di essere della scuola del dopo pandemia? Come cambierà, se cambierà, l’organizzazione scolastica e la concezione del curriculum?

Queste alcune domande che si pongono ora e riguardano presente e futuro.

La scuola in presenza (ma a distanza)

Presenza. Con il Covid19 e con questa organizzazione scolastica, la presenza ha molte caratteristiche della distanza e, viceversa, grazie al digitale, la distanza può favorire socializzazione e collaborazione, ritenute tipiche della presenza.

Oggi, in presenza a scuola, gli studenti devono rispettare regole ferree di distanziamento nell’aula e fuori dall’aula. È bene che i banchi siano monoposto o disposti in modo che ci sia un distanziamento che non facilita le interazioni. Ragazzi e ragazze devono indossare correttamente mascherine per tutto il tempo di permanenza nell’edificio scolastico. Se ci si toglie la mascherina o la si indossa male si può essere rimproverati dai compagni, dai professori e dai bidelli. Abbracci, lazzi, scaramucce, spintoni e tutte le forme di contatto, ben note ai professori, vanno evitate. Ci si dovrebbe astenere dal toccare oggetti manipolati da altri (penne, libri, superfici ecc.) o, almeno, bisognerebbe disinfettarsi subito dopo.

Chiunque potrebbe essere portatore asintomatico del virus. Secondo alcuni studi, in un’aula con 24 alunni, di cui uno positivo, senza sistema di aerazione, passando due ore in classe senza misure di prevenzione, il contagio potrebbe raggiungere fino a 12 studenti. Un clima di sospetto, o almeno di prudenza, si instaura nell’aula e fuori. La nota tolleranza della nostra scuola non è ammessa con il virus, perché si paga con l’incremento del contagio. Un’argomentazione ricorrente a favore della presenza è che ci si guarda in faccia. Ma ora la faccia è coperta dalle mascherine e non si vedono le espressioni, né quelle del professore né quelle degli alunni.

Le relazioni sociali (e scolastiche) ai tempi della pandemia

È opinione diffusa che, al di là di queste forme di distanziamento, la scuola sia una comunità di apprendimento in cui si instaurano relazioni tra i suoi membri. La presenza è ritenuta indispensabile per la relazione studente-docente e le relazioni tra studenti. Ma che cosa crea queste relazioni? Il passare insieme un certo tempo in uno stesso luogo o, piuttosto, l’essere coinvolto in una impresa comune? Socrate aveva bisogno della presenza per dialogare con i suoi allievi, ma oggi potrebbe tranquillamente usare Skype, come faccio io per rimanere in contatto con i miei nipotini a 700 km di distanza.

Solide relazioni possono essere create e mantenute anche a distanza in tempi di pandemia. Riguardo al concetto di comunità di apprendimento è noto che questa si caratterizza per tre elementi:

  • un insieme di individui,
  • un’impresa comune,
  • un repertorio condiviso.

L’insieme di individui in questo caso è la classe e il repertorio condiviso è tutto ciò che ragazzi e insegnanti hanno in comune per apprendere. Quello che manca è l’impresa comune. In queste condizioni, apprendere è un’attività individuale e non il risultato di una cooperazione volta a realizzare un’impresa comune. In altri termini, qui l’apprendimento non è il risultato di un agire collaborativo all’interno di una comunità, che induce relazioni funzionali tra i suoi membri, anzi, a scuola tutto sembra inibirle, come la disposizione degli arredi (file di banchi, cattedra ecc.) che scoraggia ogni interazione.

Le lezioni non sono una prassi collaborativa all’interno di una comunità di apprendimento, ma per definizione sono “insegnamento dato dalla cattedra, così detto perché il professore suol ordinariamente leggere” e quindi non richiedono interazioni, che anzi sono un disturbo. Ovviamente ci sono eccezioni, ma la regola è lezione + studio-a-casa + valutazione.

Le ragioni per preferire la scuola in presenza

Si potrebbe argomentare che lo stare insieme in un luogo per un certo tempo genera di per sé una comunità. Può darsi, ma non una comunità di apprendimento. Per stare insieme non c’è bisogno di essere a scuola. Di solito gli amici con cui condividere qualcosa si scelgono, anche se la scuola può essere occasione per nuove amicizie e nuove inimicizie. Allora, se la presenza in tempo di pandemia è uno stare insieme in queste condizioni, perché a molti appare tanto importante da anteporlo al rischio di un aumento del contagio? Le ragioni sono molteplici e variano a seconda del livello scolare.

Alla scuola dell’infanzia, alla primaria e alle prime classi della secondaria di primo grado sono affidati due ruoli: uno di custodia e uno di sviluppo cognitivo, affettivo e psicomotorio. La custodia è indispensabile per aiutare i genitori lavoratori che hanno difficoltà nella gestione dei figli. E oggi questa sembra la motivazione prevalente per rivendicare la presenza rispetto a altre forme di impegno per l’apprendimento. Per le scuole superiori, la presenza scandisce le fasi di apprendimento delle discipline curricolari e regola i ritmi di vita degli studenti, impegnandoli, a scuola, nel seguire un certo numero (4-5) di lezioni giornaliere su differenti argomenti e nella valutazione di quanto appreso, e, a casa, nello svolgimento dei compiti assegnati, forma, questa, di apprendimento a distanza in tempi normali. Agli studenti è richiesto di essere presenti in uno stesso luogo e in uno stesso tempo perché si ritiene che così docenti e studenti possano completare il programma e, con ciò, maturare.

La scuola a distanza (eLearning, questo sconosciuto)

Distanza. Detto della presenza, consideriamo i modi di apprendere a distanza, che, in tempi normali, sono i compiti a casa e, ora, quelli supportati dalle tecnologie digitali. In Italia, le prime esperienze archeologiche di questo tipo risalgono alla metà degli anni settanta quando, presso l’Istituto Tecnologie Didattiche del CNR, con la tecnologia allora disponibile realizzammo un corso CAI (Computer Assisted Instruction) online per studenti delle superiori, riguardante il linguaggio di programmazione Fortran.

Nel 1993, curato da Guglielmo Trentin, pubblicammo un numero monografico della rivista TD (oggi IJET), dedicato all’uso del digitale per l’apprendimento a distanza, indicato come eLearning. Agli inizi del 2000 il MIUR incaricò una commissione di stilare linee guida per l’uso dell’eLearning a scuola. Sorprendentemente, però, l’eLearning non è mai menzionato nel più recente Piano Nazionale Scuola Digitale del MIUR, a dimostrazione di una scarsa consapevolezza delle ricerche in questo ambito, per cui il Ministero ha creato nuovi acronimi come DAD e DDI.

Eppure, senza nessun riconoscimento ufficiale, anche prima del COVID, ci sono state diverse esperienze scolastiche, sono state varate le discusse università telematiche ed è fiorita una vasta letteratura che descrive modelli, pregi e difetti dell’eLearning. Oggi, una delle applicazioni più avanzate di questo settore sono i MOOC (Massive Online Open Courses) resi disponibili dalle università più prestigiose del mondo. Non è questa la sede per discutere di queste cose, ma un punto merita di essere sottolineato. L’eLearning funziona mediocremente in modalità DAD, quando cioè cerca di scimmiottare ciò che si fa in presenza, ma risulta efficace quando favorisce l’apprendimento cooperativo, in cui gruppi di studenti lavorano insieme per produrre un qualcosa, o per fornire un servizio, o per affrontare un problema e avanzare possibili soluzioni. In queste condizioni si crea una comunità di apprendimento supportata dalla rete. A questa conclusione sono arrivati anche diversi insegnanti pionieri, che si sono confrontati con l’elearning in questa pandemia.

I docenti alle prese con la Dad

Nel recente inserto del Sole24ore sulla DAD, alcuni di questi docenti descrivono la loro esperienza, sottolineando come il dovere progettare attività in rete abbia cambiato il loro modo di fare scuola, spostando il fuoco dall’insegnamento all’apprendimento, dall’insegnante allo studente, dallo studio sui libri al lavoro collaborativo sul campo, da domande con risposte scontate a problemi da sviscerare, da un sapere decontestualizzato a una conoscenza situata, in una parola, da una visione del mondo semplicistica, convogliata dai rassicuranti e ponderosi programmi scolastici, a una complessa, che si misura con l’incertezza e la vertiginosa crescita delle conoscenze. Naturalmente l’elearning richiede alcune condizioni necessarie, prima fra tutte la disponibilità per ogni singolo studente e ogni singolo insegnante di dispositivi digitali personali, possibilmente notebook, con una buona connessione alla rete. E poi è indispensabile che studenti e insegnanti siano digital literate. Entrambi questi aspetti sono stati affrontati in modo distratto ed episodico prima del COVID19, che ha il merito di avere fatto emergere gli imperdonabili ritardi e di avere dato impulso alla crescita professionale dei nostri insegnanti sul digitale (da marzo a oggi due insegnanti su tre si sono formati sul digitale, scrive Eugenio Bruno sul citato inserto del Sole24ore).

Conclusioni

Già ora è possibile conciliare le modalità di apprendimento in presenza e a distanza. Ciò richiede però un cambiamento radicale di concepire la presenza e la distanza. Infatti, non è la presenza il fattore principale di rischio, ma come questa è realizzata dall’attuale organizzazione scolastica. Perché non ridurre drasticamente il tempo in presenza, per esempio a due, o al massimo tre ore al giorno, con la presenza di pochi studenti per volta? Per i livelli inferiori, la custodia potrebbe essere demandata a iniziative sul territorio, sulla base dell’idea delle città educanti e delle comunità educanti.

In Italia ci sono già diverse iniziative che vanno in questa direzione. Per i livelli superiori, per garantire la presenza e sfruttare appieno le potenzialità del digitale appare indispensabile cambiare l’organizzazione scolastica, per esempio organizzando la fruizione dei corsi in sequenza nell’arco dell’anno scolastico, con corsi da fruire in modo intensivo per qualche settimana, prima di passare a un altro corso. E infine appare necessario ripensare l’idea del curricolo e i modi di apprendere.

A ben vedere, ciò comporta ridefinire le finalità della scuola e i modi di perseguirle, anche dopo questa emergenza.

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