La pubblicazione di The Game di Alessandro Baricco ha offerto nuovi spunti al dibattito sulla necessità di ripensare la scuola nell’era dell’informatica. La scuola, secondo lo scrittore, è in letargo rispetto all’era del digitale e tutte le sue strutture fondanti – dagli insegnanti alle materie insegnate – andranno al macero appena sarà rinnovata.
Simili previsioni non sono propriamente una novità e a dirla tutta suscitano più di una perplessità. I cambiamenti, certo, sono necessari, ma l’importanza della scuola, forse, risiede proprio nell’essere diversa dal resto del mondo.
The Game e i risvolti umani dell’informatica
Nel suo The Game, Baricco, però, non affronta certo soltanto il tema della scuola. Partiamo, quindi, dal principio.
L’opera, uscita orma da qualche mese, sicuramente rappresenta una novità nella discussione dei risvolti umani dell’informatica in Italia. Per la prima volta uno scrittore celebre (e in più con una fama popolare che non guasta certo) affronta i temi della rivoluzione informatica con una scrittura sì narrativa, ma in quello che a tutti gli effetti può essere definito un saggio.
Baricco attraversa con un certo dettaglio i più importanti eventi nella storia dell’informatica contemporanea, soprattutto esaminando quelli che hanno avuto più ricadute nella mentalità e vita comune. Di fronte ai tentativi di minimizzazione, Baricco sostiene che quella in cui siamo entrati è letteralmente una nuova epoca dello spirito umano, che coinvolge e a volte stravolge percezioni, sensibilità, consuetudini: l’epoca del Game, della realtà pensata e vissuta sempre più ad immagine di un videogioco (una qualifica che sulla sua penna ha una connotazione un po’ inquietante ma nient’affatto spregiativa).
Coloro che continuano a ragionare come se nulla (o poco) fosse avvenuto non capiscono affatto il tempo presente e sono destinati a non avere alcuna influenza sul futuro. Bisogna rammaricarsene e rimpiangere nostalgicamente il passato? No, sostiene Baricco. Bisogna avere la fantasia e l’intelligenza di ripensare i valori dell’umanità in una forma adeguata al nuovo contesto culturale. Bisogna pensare insomma alle Contemporary Humanities: e questo è un compito tutto aperto.
Qualche imprecisione e il merito di entrare nel dettaglio
Se si volessero fare le pulci al testo di Baricco, i segni rossi (e blu) non sarebbero pochi. Per esempio, la descrizione dell’algoritmo di ricerca di Google è nel caso migliore fuorviante: più probabilmente, sbagliata.
Non poco spazio è dedicato a commentare la prima pagina Web di Tim Berners-Lee, da cui si dovrebbe indurre che cosa sia appunto il World Wide Web: la netta impressione è che non sia stato letto il memorandum in cui Berners-Lee spiega esplicitamente le sue intenzioni (e perché insistere a chiamarlo «prof. Berners-Lee», giacché non era e non è un professore?). Come innumerevoli altri testi di carattere umanistico sull’informatica, anche The Game si mostra affascinato dal sistema binario, facendo immaginare al lettore casuale qualcosa di magico invece che una banale applicazione della teoria dell’informazione: ma Claude Shannon non viene neppure nominato. E così via. Sarebbe però ingiusto soffermarsi su questi particolari, non tanto perché la scelta del genere narrativo sia la scusa per ogni imprecisione, quanto perché tanti segni rossi (e blu) testimoniano il fatto che, contrariamente alla maggioranza dei tentativi consimili (in genere apocalittici), il saggio di Baricco intende appunto entrare nei dettagli: e questo già è un enorme merito.
Tra i meriti da accreditare (si può essere già capito dalle prime osservazioni) c’è anche il fatto che Baricco non si avventura in previsioni: il futuro dipende da come noi lo vorremo e plasmeremo, i valori «umani» non sono affatto messi in pericolo dall’informatica, ma piuttosto dalla nostra incapacità di comprenderla e gestirla. Giustissimo, sono perfettamente d’accordo.
Una scuola in letargo
Sembra esserci una sola eccezione, un solo caso in cui Baricco si sente sicuro di poter fare previsioni: il caso della scuola. È un’eccezione giustificata? Baricco racconta di come capì, guardando il figlioletto di tre anni armeggiare in modalità smartphone su un giornale, che «a scuola si sarebbe rotto i coglioni a palla». La scuola, viene argomentato qualche pagina dopo, «non prepara al Game, non allena le capacità utili a vivere nel Game, non aiuta i meno adatti ad abitare il Game». E infine, le carte vengono scoperte: la scuola è stata lasciata intatta dalla rivoluzione digitale, ma proprio per questo è in letargo. Appena essa sarà rinnovata, «le prime cose che andranno al macero, dritte dritte, saranno la classe, la materia, l’insegnante di una materia, l’anno scolastico, l’esame. Strutture monolitiche che vanno contro ogni inclinazione del Game».
Previsioni simili suscitano un’impressione di déjà vu e qualche sbadiglio: sono decenni che vengono ripetute in diverse varianti, e da molto prima che si ponesse a tema la rivoluzione informatica.
Il concetto bancario dell’educazione
Questo per esempio più o meno diceva Paulo Freire, il padre della pedagogia brasiliana contemporanea, quando criticava anzitutto il concetto «bancario» dell’educazione, secondo cui l’alunno è un conto vuoto da riempire: l’insegnante ovviamente è il mediatore di questo trasferimento di conoscenze organizzate in materie. Ma criticare questo modello significa anche minare la dicotomia tra docente e studente e promuovere una reciprocità dei loro ruoli: il docente impara e lo studente insegna.
Il concetto bancario dell’educazione non sarebbe solo un errore pedagogico, ma piuttosto un vero strumento di oppressione: rifiutarlo è quindi una scelta liberatrice prim’ancora che teorica. Ecco qui: un elenco di cose da mandare al macero quasi identico a quello di Baricco. Il fatto che abbiamo citato Freire tra i tanti nomi possibili non è casuale. Il 9 novembre 1995 egli tenne un interessante dialogo, immortalato dalla televisione brasiliana, con Seymour Papert, il grande teorico dell’uso dell’informatica a scuola come strumento di creatività. Papert non solo dichiarava il suo grande debito nei confronti del celebre interlocutore, ma sosteneva anche che la tecnologia è uno strumento formidabile per lottare contro una concezione di educazione basata sulla passiva ricezione di conoscenze: un bambino di tre anni (la stessa età citata da Baricco!) è perfettamente in grado di caricare una videocassetta e imparare da un documentario ciò che preferisce. La rivoluzione informatica, che moltiplica queste possibilità, necessariamente porterà al collasso della scuola attuale, che oltretutto segrega i bambini del mondo degli adulti e le diverse età l’una dall’altra. La scuola come finora la abbiamo intesa a suo parere non esisterà più e finalmente intelligenza e creatività non dovranno più lottare per sopravvivere a professori, materie ed esami.
Non si può fare in due righe una valutazione complessiva dell’opera di due pedagogisti, che vanno ammirati e studiati per molti motivi. E tuttavia è lecito avanzare perplessità nei confronti di queste idee, in cui peraltro la vituperata scuola tradizionale è solo una caricatura. Se si intendono come previsioni, non si sono realizzate; se si intendono come progetti, c’è da tirare un sospiro di sollievo per il fatto che non si sia compiuto un tale salto nel buio. Pure se ci si vuole concentrare sull’aspetto culturale, mettendo tra parentesi quello sociale, sicuramente la funzione della scuola muta nell’età dell’informatica, ma non diminuisce affatto: forse addirittura aumenta, perché un universo più complicato, mobile e veloce esige più capacità critica, in un certo senso più lentezza.
Nell’epoca di Internet il libro, con il suo discorso lineare, diventa più importante, non meno. La distinzione delle materie è l’ovvio presupposto non solo della specializzazione, ma anche di uno studio disinteressato e rigoroso. I tentativi di superare questa divisione (almeno quelli che si son visti finora) assomigliano ad una sostituzione dello studio scientifico con un insieme di prove pratiche di apprendistato. Il fatto che l’informatica diventi una «materia» non è la resa del nuovo alla scuola vecchia, ma l’unico modo in cui la novità può essere capita, trasformata, abitata creativamente, piuttosto che riservata ad un’élite. Tutto deve essere reso agile e divertente come un videogame? E perché mai? Perché un bambino che desidera imparare a suonare uno strumento musicale si sottopone volentieri ad estenuanti e apparentemente noiosi esercizi? La scuola serve proprio perché è diversa dal resto del mondo.
Innovare sì, ma con cautela
Questo non significa che nulla possa cambiare, tutt’altro. Grandi cambiamenti, o anche rivoluzioni, non debbono certo essere esclusi, ma almeno con due avvertenze: la prima è che il risultato di ogni innovazione dovrebbe essere valutato per i suoi risultati, e non tautologicamente per la sua conformità ai dettami dell’ideologia di turno; il secondo è che le innovazioni non devono trasformarsi in esperimenti irreversibili sulla pelle delle future generazioni: un aspetto questo più facile ad enunciare che a realizzare (ogni novità pedagogica comporta una dose di rischio), ma che dovrebbe consigliare una cautela analoga a quella con cui si sperimentano e si approvano nuovi farmaci.
La Casa dei Bambini di Maria Montessori è stata per esempio a modo suo una rivoluzione: ma una rivoluzione costantemente verificata nei suoi risultati e che non ha lasciato nella sua storia nessuna mesta scia di infortunati. Il discorso del ripensamento della scuola nell’età dell’informatica rimane aperto, dunque. Basta non pensare che le «inclinazioni del Game» siano sufficienti a tracciare un nuovo progetto, o a indurre a smantellare quanto ha allevato (non dimentichiamolo) l’intelligenza e la creatività proprio dei protagonisti della rivoluzione informatica. Quello che potrebbe venir fuori è altrimenti non una scuola che prepara al Game, ma solo un modernissimo, scintillante Paese dei Balocchi.