Una approfondita e competente presentazione del Piano Scuola 4.0, pubblicata qui su Agendadigitale.eu, paventava il rischio che «qualche lettore attento» dicesse «che siamo alle solite, che di queste parole ne abbiamo sentite e lette molte in molte altre occasioni».
Piano Scuola 4.0, sarà la volta buona per innovare la didattica? Punti di forza e problemi
Ebbene: malgrado l’autore con lodevole e documentato ottimismo abbia tentato di mostrare come le premesse questa volta fossero diverse, pare proprio che siamo alle solite.
I problemi della Scuola
Un ampio articolo del Fatto Quotidiano ha raccolto le voci pessimiste che dilagano in questi giorni. I più di due miliardi di euro disponibili rischiano di non poter essere utilizzati per la solita congerie di motivi che affligge la scuola italiana:
- manca il personale per gestirli;
- mancano i docenti in grado di usare la nuova tecnologia;
- mancano gli incentivi economici che dovrebbero spingere direttori amministrativi e dirigenti scolastici a lavoro addizionale; sarebbe grottesco allestire locali innovativi in edifici fatiscenti;
- i nuovi fondi provocheranno una moltiplicazione della già asfissiante mole di lavoro burocratico;
- mancano spesso collegamenti Internet decenti per rendere agibili le nuove tecnologie.
A chiosa di uno di questi punti, dopo aver notato che il problema della sua scuola sono anzitutto i bagni in cui non funziona lo sciacquone, un dirigente commenta: «Vorrà dire che farò diventare ambienti digitali anche i bagni per poterli sistemare!» Se è lecita una facile battuta, prima della «scuola quattro zero» bisognerebbe sistemare la «scuola zero zero».
Eppure, malgrado questi limiti strutturali possano essere decisivi, credo che la vera questione sia più fondamentale. Quale idea di scuola vi è dietro il Piano Scuola 4.0? E quale idea di tecnologia e in particolare di informatica?
Quale innovazione in Scuola 4.0
Per fare questo bisogna armarsi di santa pazienza e leggere la quarantina di pagine che presentano appunto il Piano Scuola 4.0. Il fatto che le pagine siano gradevolmente ben impaginate purtroppo addolcisce solo di poco l’amaro calice di un testo scritto nel tipico linguaggio burocratico-similpedagogico che da tempo affligge tutti i documenti ministeriali su scuola e Università. Né certo contribuisce ad un’esperienza di lettura tollerabile l’uso ossessivo e comico di terminologia inglese (i capitoli portano per esempio tutti e quattro un titolo inglese: Background, Framework 1: Next Generation Classrooms, Framework 2: Next Generation Labs, Roadmap: chissà perché allora Introduzione invece di Introduction). Tolto questo sassolino dalla scarpa, tentiamo però di raccogliere le idee che sono più rilevanti per lo scopo che ci proponiamo.
Il compito è in realtà facile perché i principi ispiratori si trovano tutti all’inizio. Il documento esordisce (con due fugaci citazioni di Montessori e Malaguzzi) sull’importanza dello spazio nel contesto dell’istruzione: esso non offre solo un luogo all’insegnamento, ma ne condiziona anche le modalità.
Lo spazio tradizionale è l’aula con da una parte la cattedra, dall’altra le file di banchi: ma questo modello, si afferma, è ormai inadeguato per le esigenze didattiche di un mondo in rapida trasformazione.
Servono dunque «ambienti di apprendimento innovativi», che metta al centro l’attività degli studenti e permetta più flessibilità e collaborazione. È a questo punto che viene nominata per la prima volta la tecnologia: uno dei principi dei nuovi spazi educativi è anche l’«apertura e l’utilizzo della tecnologia».
Ma spazi diversamente organizzati e uso della tecnologia non sono sufficienti per modificare le modalità dell’insegnamento: per fare ciò serve anche un coerente completo ripensamento di tempi, funzioni personali, risorse.
Il piano Scuola 4.0 intende appunto dare le risorse sia per trasformare le classi tradizionali (se non tutte, almeno moltissime) in questi nuovi ambienti, sia per creare da zero «laboratori per le professioni digitali del futuro», sia per promuovere la formazione di tutto il personale scolastico alla «transizione digitale».
I problemi di Scuola 4.0
I problemi dell’impostazione di Scuola 4.0 sono in realtà tutti qui. Iniziamo da quelli che riguardano l’idea di informatica: come avveniva anche nel precedente Piano Nazionale Scuola Digitale, un linguaggio intenzionalmente vago serve a tenere sotto lo stesso ombrello almeno tre cose profondamente diverse.
- La prima è l’informatizzazione delle strutture amministrative della scuola (per capirci, in questa voce entra pure l’adozione di PagoPA e della Carta d’identità elettronica): innovazione cioè che, se ben realizzate, certamente possono migliorare l’efficienza e anche l’uso delle risorse umane, ma che certo non hanno alcun rapporto diretto con l’insegnamento.
- La seconda è l’uso dell’informatica come tecnologia di sostegno all’insegnamento: in questo senso tutte le discipline possono essere più o meno coinvolte.
- La terza, infine, è l’insegnamento vero e proprio dell’informatica. Questo, che potrebbe essere un terreno più solido, è in realtà anch’esso segnato da una certa ambiguità: seppure l’espressione scivolosa di «pensiero computazionale» (che dominava nel Piano Nazionale Scuola Digitale) qui sia ridotta a poche e marginali occorrenze, ancora non si capisce se l’informatica venga intesa come una disciplina scientifica (eventualmente da inserire nel contesto dello studio della matematica e della logica, per esempio), oppure come una semplice cassetta degli attrezzi: le competenze informatiche sarebbero allora semplicemente la capacità di usare alcune macchine.
Siamo insomma anni luce distanti dalla chiarezza della proposta formulata nel 2017 dal Laboratorio Nazionale Informatica e Scuola del CINI.
Il consuntivo non è molto incoraggiante: l’unica cosa chiara è che nelle scuole, se questo piano sarà davvero realizzato, entreranno tante macchine nuove. Come e in che modo con esse entrerà anche l’informatica, non è per nulla chiaro. Una maggiore chiarezza vi è certamente nel capitolo Framework 2: Next Generation Labs: ma in esso si riconosce, come del resto è evidente dal contenuto specialistico che viene presagito, che tale linea di azione riguarda solo le scuole secondarie superiori.
Giustamente viene sottolineato il carattere trasversale di diversi ambiti tecnologici, in alcuni casi anzi poteva essere evidenziato ancor di più (sorprende per esempio che non vengano neppure nominate le Digital Humanities). Ma tutto questo non toglie l’impressione che nel caso migliore si potranno realizzare interessanti e stimolanti attività collaterali: non probabilmente un arricchimento organico del curriculum scolastico, né tanto meno quella profonda trasformazione della scuola che nell’introduzione viene immaginata.
Quest’ultimo problema ci porta a riflettere sull’idea di scuola che soggiace a queste pagine. Il collegamento tra inserimento massiccio della tecnologia nella scuola e «pedagogie innovative» è solo parzialmente giustificato: per esempio, che cosa c’entra con la tecnologia disporre i banchi in maniera diversa nell’aula, o proporre uno studio più partecipato e attivo, o far appello alla dimensione emotiva degli studenti?
Cosa serve fare
Ma, laddove si seguano i riferimenti che vengono indicati come ispirazione di queste pagine, si trovano, in posizione centrale, esattamente questi o simili suggerimenti. Ciò accade soprattutto in Teachers as Designers of Learning Environments. The Importance of Innovative Pedagogies, edito nel 2018 dall’OECD. Non solo: una lettura di questo ampio volume suscita alcune sorprese. Notiamone almeno due.
- La prima: tutte le forme di «pedagogia innovativa» sono presentate come sperimentali, da perseguire con grandissima attenzione e senza improvvisazione. È verissimo che ciò che è nuovo, più coinvolgente, può di per sé aumentare la motivazione (Mindstorms di Seymour Papert merita ancora di essere letto, per esempio). Ma ciò non assicura contemporaneamente che si impari di più e meglio e comporta anzi rischi. Insomma: mai esperimenti sulla pelle degli studenti! Curiosando tra gli studi specifici segnalati in bibliografia, la cautela viene ancor più incoraggiata: vi sono modalità pedagogiche che appaiono promettenti, ma per le quali mancano ancora dati sufficienti per affermarne l’efficacia.
- La seconda sorpresa: all’inizio del testo viene sottolineato che «il contenuto è cruciale per ogni insegnare e imparare; gli studenti e gli insegnanti non insegnano e imparano nel vuoto: insegnano e imparano qualcosa!». È questo l’unico punto esclamativo dell’intero libro, che intende fare piazza pulita dell’idea che «innovare» nell’istruzione significhi mettere da parte le «conoscenze». Anzi, sostengono gli autori, è esattamente il contrario: sono i contenuti, ed eventualmente dei nuovi contenuti, che possono veicolare una pedagogia innovativa.
Fatta salva la giusta differenza tra un breve documento ministeriale e un ampio studio scientifico, il lettore resta quindi alquanto perplesso. Proprio il testo che viene citato come riferimento per la «pedagogia innovativa» non sostiene nessuna delle idee sottese nel Piano Scuola 4.0.
Non sostiene lo stretto legame tra tecnologia e innovazione (delle sei aree che esso individua, solo quella del «blended learning» ha un nesso inevitabile con le tecnologia!), non sostiene soprattutto l’idea che le pedagogie innovative siano strade di sicuro miglioramento: sono piuttosto aree di sperimentazione, da attraversare con cautela e competenza.
E qui, giungiamo, ahimè, alla considerazione finale e più importante. Il Piano Scuola 4.0 nota i progressi realizzati grazie al Piano Nazionale Scuola Digitale.
Omette però di notare la discesa del livello di formazione degli studenti che è avvenuta negli stessi anni: un livello che ormai in percentuali ragguardevoli sfiora l’analfabetismo. I due anni di Covid non hanno aiutato, ma il crollo è iniziato prima.
Sarebbe ovviamente stupido addebitare ciò al Piano Nazionale Scuola Digitale. Ma non mi pare neppure lungimirante pubblicare un documento in cui l’unico problema della scuola pare la mancanza della banda larga e dei maxischermi, e in cui viene semplicemente proposto di andare trionfalmente avanti nella strada intrapresa, per di più accelerandola verso una trasformazione radicale mediata appunto dalle nuove tecnologie.
La causa dell’informatica, o in generale della tecnologia, non ha nulla da guadagnare dall’attribuire ad essa capacità taumaturgiche. È vero piuttosto che la causa dell’informatica e di tutte le «professioni del futuro» (che nessuno conosce ancora) necessita come poche della premessa di un’istruzione seria, che anzitutto assicuri le conoscenze essenziali, che insieme appassioni e abitui alla chiarezza intellettuale.
Se quest’idea può apparire retrograda e antitecnologica, ci consoliamo di essere in compagnia di Edsger Dijkstra, uno dei grandi padri dell’informatica: «Una volta mi venne chiesto quali fossero le doti più vitali di un programmatore competente, e risposi: un’inclinazione matematica e un eccezionale dominio della propria lingua materna». Una Scuola 1.0, insomma.