Quando smetteremo di parlare di “didattica mista” nei termini in cui lo si sta facendo in relazione alla ripresa di scuola e università faremo un servizio alla comunità di alunni, genitori e docenti. E anche al resto del Paese, che osserva dai quotidiani gli annunci di ripresa che entrano poco nel merito e lasciano molto all’immaginazione.
Per sgombrare subito il campo dalle ambiguità vale la pena precisare che la didattica “blended” non è pensata come mezza classe in aula e mezza in remoto. Questa è retorica da new normal, un racconto di normalizzazione di una realtà che invece è frutto di uno stato di eccezione dovuto ai rischi del contagio del Covid-19 e alle conseguenti norme sul distanziamento.
Non che da questa esperienza non possa uscire un modo diverso di fare didattica nelle scuole e nelle università. In tal senso quello che vivremo è anche un’opportunità di ripensare le dinamiche dell’apprendimento e quelle della valutazione, sfruttando le potenzialità del digitale e delle diverse piattaforme per fare della didattica un’esperienza diversa. Ma sarà un’esperienza complessa e sfaccettata che dovrà passare dalla prova empirica di come spazi e apprendimento verranno messi in relazione. E questo non avere la possibilità di avere tutte le studentesse e gli studenti in presenza non ha a che fare con la didattica mista.
Non chiamiamola didattica mista
Il termine “didattica mista”, cioè blended, in letteratura è riferito a una modalità di erogazione delle lezioni che prevede l’affiancamento di una piattaforma digitale alla didattica tradizionale in presenza dello stesso gruppo/classe. È utile per avere un repository di materiali da condividere, per svolgere compiti e altre attività didattiche (anche con sistemi di valutazione), per alimentare dibattiti nei forum, per sviluppare forme di collaborazione, per avere un rapporto diretto col docente.
Quello che ci troveremo ad affrontare da settembre è invece una condizione in cui logistica e approccio pedagogico collidono.
Nelle Università – in molti corsi – avremo un sistema di prenotazione per la presenza in aula e la lezione che verrà fatta contemporaneamente per i presenti in classe e con una diretta online (Meet, Blackboard, Zoom, Teams, ecc.) per studentesse e studenti in remoto.
La sfida sarà non tanto di tipo tecnico – anche se richiederà spesso un aggiornamento infrastrutturale delle aule tradizionali e di acquistare dispositivi digitali e connettività per i meno abbienti – ma di tipo comunicativo: avrà a che fare con come gestire la relazione con le due aule e come metterle in relazione fra loro. A partire dalla disomogeneità dei gruppi, dalla casualità della loro composizione e dal fatto che, ipoteticamente, uno studente frequenterà talvolta online e talvolta in aula. La sfida sarà quella di confrontarsi con un concetto di “presenza” e di “interazione” che coinvolge corpi online e offline con un approccio didattico unico che deve tenerli assieme in luoghi differenti ma nello stesso tempo.
Per la scuola la condizione rischia di essere la medesima. E anche le soluzioni vagheggiate che consigliano di essere flessibili e ispirarsi alle flipped classroom (classe rovesciata) risultano fuorvianti se non ben contestualizzate. La classe rovesciata è una modalità costituita da un primo momento in cui lo studente, in autonomia, si avvale a casa di strumenti di diverso tipo (e in questo il digitale e internet aiutano) per l’apprendimento e da un secondo momento, in classe, utilizzato per approfondimenti e dibattiti, attività collaborative e laboratori, ecc. In tal senso il momento d’aula diventa la dimensione in cui si fa esperienza della relazione con l’altro (docente e studente) e si impara a cooperare e confrontarsi dialetticamente. Anche qui abbiamo a che fare con tempi e luoghi diversi, che non coincidono: l’esperienza dell’autonomia o della cooperazione prevedono due spazi separati – a casa e in aula – vissuti allo stesso modo dalla classe: tutti a casa o tutti in aula. O al limite lavorando per piccoli gruppi, ma il senso non cambia.
Virtuale è reale: le sfide per la didattica
Il rischio pandemico nei mesi di lockdown ci ha invece insegnato che la presenza ha diverse condizioni di possibilità nel mettere in relazione spazio e tempo; e che la presenza in aula e quella digitale mettono in gioco in modo diverso l’apparato bio-cognitivo, richiedendo di sviluppare e supportare la relazione in modo diverso.
Trovarsi di fronte ad un’aula frazionata, spezzata tra due forme diverse della presenza, chiede non solo di ripensare l’approccio didattico ma impone di immaginare modi di interconnessione tra le due aule, reale e virtuale, perché sono una sola aula per il docente e per le ragazze e i ragazzi: perché virtuale è reale. Dovremmo averlo imparato quando per molte e molti le uniche relazioni possibili per educazione, lavoro, acquisto o intrattenimento dipendevano dai nostri schermi nei mesi che abbiamo passato chiusi nelle nostre case. Ma abbiamo imparato anche che la qualità di analogico e digitale sono diverse. E non si tratta del fatto che in aula sia meglio e online peggio o viceversa. Parlo di qualità su entrambi i lati, qualità che sono differenti, che presiedono a esperienze diverse, che aprono a possibilità differenziate delle relazioni della corporeità cognitiva nello spazio-tempo. Sfruttare in tal senso il continuum tra online e offline è la vera sfida da portare avanti, e mettere in relazione diretta (e contemporanea) le esperienze di coloro che sono connessi e di quelli seduti distanziati in aula rappresenterà il banco di prova della ripresa della didattica.
È all’interno di questo campo relazionale che misureremo l’efficacia e la portata innovativa di quanto riusciremo a fare nell’apprendimento da settembre. Tenendo conto che stiamo cercando una soluzione che ispiri il futuro della didattica in un momento storicamente vincolato dall’anomalia della pandemia, in cui quindi la sperimentazione risentirà dei vincoli del distanziamento e delle preoccupazioni delle famiglie (quanti studenti universitari si recheranno fisicamente nelle sedi sapendo che è possibile partecipare da casa?), quando non dal rischio contingente di focolai.
La risposta in emergenza data da marzo scorso resta tale, un esempio di coraggio e spregiudicatezza che ha portato a rispondere online all’impossibilità di fare lezione nelle aule. Ma che ci ha anche fatto scoprire nuovi divari, sia sul lato degli insegnanti che degli studenti, che ha mostrato punte di eccellenza in scuole e università e situazione di resa (quasi) incondizionata. Lo stato di eccezione continua e con esso lo slancio che porta a dedicarci con tutte le forze ad affrontare la situazione. Ma la sfida è innalzata dal livello di complessità di dover affrontare come società un concetto di presenza che ha mutato dopo marzo il suo senso per molte persone, e che dovremo imparare a gestire uscendo da vecchi schemi binari (online da una parte e offline dall’altra) per affrontare come esperienza unitaria la necessità di essere qui e altrove in classe.
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