Benché i dettagli noti non siano molti, è già acceso il dibattito riguardo all’istituzione della «filiera formativa tecnologico-professionale» nel sistema dell’istruzione italiana. Per ora si tratta solo di un disegno di legge: ciò significa che (come è giusto) la futura normativa sarà il prodotto di un normale iter parlamentare.
Lasciando ai competenti una discussione di dettaglio sui contenuti del disegno di legge (che per il comune mortale, pure molto attento alle vicende della scuola, sono di difficile decifrazione), ci sono alcune questioni che riguardano direttamente chi è interessato, più specificamente, alla collocazione dell’informatica nel quadro dell’istruzione pubblica.
Rendere la formazione professionale di “serie A”
Ma che cosa c’entra l’informatica con il recentissimo progetto di legge? In realtà, c’entra moltissimo. Basta leggere il comunicato stampa con cui Palazzo Chigi ha annunciato la novità: dopo aver notato che con questa riforma «l’istruzione tecnica e professionale diventa finalmente un canale di serie A», il ministro Valditara ha aggiunto: «Secondo i dati Unioncamere Excelsior, dalla meccatronica all’informatica serviranno da qui al 2027 almeno 508mila addetti, ma Confindustria calcola che il 48% di questi sarà di difficile reperimento».
Si tratta certo di un esempio, ma evidentemente agli occhi di Valditara il primo e il più importante: l’urgente e drammatico bisogno che rende necessario ripensare la formazione professionale e renderla «di serie A» è esattamente l’enorme mancanza di competenze adeguate nel settore tecnologico probabilmente più decisivo, quello dell’informatica (classifichiamo in essa anche la meccatronica, che in una sua parte essenziale dipende appunto dall’informatica). Questo ci pare un elemento che è entrato pochissimo nelle attuali discussioni: ma si tratta (se non erriamo) proprio di quello che costringe a pensare alcune questioni cruciali.
La comprensione della formazione professionale
La prima questione riguarda la comprensione stessa della formazione professionale. Quando ero un ragazzo, vigeva abbastanza chiara nell’opinione comune una sorta di gerarchia della formazione secondaria: in testa il Liceo classico, impercettibilmente più in basso il Liceo scientifico, chiaramente inferiore e un po’ laterale l’Istituto magistrale, poi la sequenza degli Istituti tecnici, e infine gli Istituti professionali e accanto la Scuola magistrale. Benché i miei anni scolastici si siano svolti quando la liberalizzazione dell’accesso all’Università era già avvenuto, poco dubbio c’era sul fatto che più si scendeva nella scala, più raro era un successivo studio accademico (che comunque richiedeva in genere un diploma quinquennale). Insomma: più una formazione era lontana dal mondo del lavoro più era considerata «alta».
Dal punto di vista della storia delle istituzioni educative questa gerarchia può essere classificata in molti modi diversi (per esempio «gentiliana»), ma non si sbaglia molto se si osserva che essa deriva in ultima analisi dalla rivoluzione del neolitico (8000 a.C. circa): non certo nel senso che in quell’epoca remota nascano le strutture educative, ma nel senso che è più o meno allora che inizia la sedentarietà, e dunque le città, e dunque le differenziazioni e stratificazioni sociali. Il tipo di sapere di chi governa la città ora non è lo stesso di chi coltiva la terra, o di chi fabbrica vestiti, o di chi edifica abitazioni.
Quest’osservazione, ancorché rozza, spalanca un campo di problemi enormi. La forma democratica di governo e l’istruzione pubblica obbligatoria e gratuita sono stati probabilmente nella storia moderna i più importanti motori che hanno inteso controbilanciare le conseguenze potenzialmente classiste della rivoluzione neolitica.
Per quanto riguarda l’istruzione, essa è un contrappeso soprattutto in quanto rende competenti a partecipare in maniera cosciente e responsabile alla vita comune, ivi inclusa la componente specificamente politica: per esempio insegnando l’uso efficace della lingua parlata e della lingua scritta. Ci sono quindi ottimi motivi per sostenere che il primo scopo della scuola non è formare al lavoro, anche se contribuire al bene comune con il proprio lavoro è parte normale di questa partecipazione alla vita comune.
Non “liceizziamo” gli istituti tecnici
C’è stato chi (da sinistra) ha avanzato queste giuste considerazioni per contestare l’annuncio di Valditara. Ma le cose non sono così semplici. Questi ottimi motivi rischiano infatti di generare una continua contraddittoria oscillazione: più si crede a questa fondamentale finalità, più si rischia di spostare l’istruzione professionale su un modello di formazione culturale generale (la famigerata «licealizzazione degli istituti tecnici»), più si rischia di perpetuare l’inferiorità della formazione professionale, perché coloro che la intraprendono, piuttosto che essere apprezzati e valorizzati nelle loro capacità, saranno continuamente confrontati ad un modello formativo da esse distante. Un geniale futuro professionista rischia di essere mortificato in quanto mediocre commentatore di poesie di Guido Gozzano.
Perché l’informatica cambia le regole del gioco
Perché l’informatica cambia le regole del gioco? Perché si tratta di un campo che riunisce alcune caratteristiche che mai nella storia umana sono state assieme. Si tratta in primo luogo di un campo che definisce immediatamente una specifica competenza lavorativa: e questo la accomuna alle materie oggetto delle tradizionali «formazioni professionali»; anzi, secondo le statistiche citate da Valditara, competenze che sono ansiosamente richieste dall’evoluzione della società.
Però si tratta contemporaneamente di un campo intellettualmente raffinatissimo: chi scrive un programma informatico (per fare un unico esempio) forse non saprà una parola di latino, ma deve mettere in opera una capacità di analisi e di comprensione di un codice simbolico analogo e anzi di gran lunga più rigoroso rispetto a quello necessario per capire una pagina di Tacito (il che peraltro significa anche, ovviamente, che capire Tacito può essere una delle buone premesse per studiare informatica).
Infine, si tratta di un campo che ha un’influenza straordinaria nella società e permea sempre più ogni singolo aspetto della vita umana: affettività, politica, comunicazione, cultura, economia. Si tratta di un’influenza che, benché con modalità differenti, ha un’ampiezza paragonabile a quella che in altre epoche (o ancor oggi in altre regioni del mondo) è stata svolta dalla religione istituzionalizzata.
Insomma: quando Valditara ha parlato di un canale di «serie A» si riferiva evidentemente a problemi specifici del sistema italiano; ma, senza volerlo, probabilmente stava dicendo qualcosa di ancora più importante, dalle conseguenze che a stento intravediamo.
Se la nuova filiera è motivata in buona parte (come lui stesso ha detto) dalla prevedibile mancanza di persone qualificate nell’informatica nei prossimi anni (non decenni!), essa si collocherà in un punto in cui, che ciò piaccia o meno, gli equilibri e gli squilibri tra formazione «culturale generale» e «professionale» cambiano considerevolmente.
Il diplomato di una scuola tecnica informatica forse farà parte di una nuova élite, il cui posto è conquistato solo grazie alla forza dirompente di tecnologie il cui ruolo sociale tutti in buona parte consapevolmente accettiamo. Certo: qualsiasi cosa avvenga nella nuova «filiera formativa tecnologico-professionale» continueranno ad esistere i corsi di laurea in Informatica e Ingegneria informatica (dove ovviamente ogni tema viene trattato ad un livello diverso di raffinatezza teorica), né va dimenticato quel mondo magmatico della «cultura hacker» dove tutti sono fondamentalmente autodidatti e possono scalare le più importanti carriere professionali indipendentemente da ogni titolo di studio. Però non è difficile capire come, appunto, questi confini siano sfumati e come quindi la relativa formazione professionale sarà di «serie A» in un significato prima sconosciuto.
Il ruolo sociale dell’informatica e la metamorfosi del potere
Il ruolo sociale svolto dall’informatica pone però anche una serie di problemi nuovi, un tempo inesistenti nella formazione professionale. La tradizionale concezione della gerarchia dell’istruzione supponeva (lo abbiamo già accennato) che la futura classe dirigente uscisse dalle forme «alte» di studio (per esempio, un Liceo classico seguito da una Laurea in Giurisprudenza): erano quindi soprattutto questi indirizzi che una nazione doveva pensare con attenzione per trasmettere i valori fondanti della vita comune, e contemporaneamente dare alle generazioni future gli strumenti per criticarli e modificarli. Sembra passato un millennio, ma ancor io ho studiato seguendo programmi che prescrivevano: «la conoscenza diretta del Carducci dovrà essere la più ampia possibile per il carattere educativo della sua patriottica ed umana poesia» (negli anni 80 nessun nessun professore di Lettere si sognava di rispettare questa indicazione, ma tant’è). Ora, di questo quadro a suo modo chiaro ben poco è rimasto.
Anzitutto una statistica sull’attuale composizione del Parlamento mostrerebbe che la cultura classica (e anche storica, filosofica) non esercita più, neppure idealmente, un dominio sulla politica. In secondo luogo, sono avvenuti cambiamenti ancor più profondi che hanno provocato una metamorfosi degli equilibri del potere: sempre più si ha l’impressione che il tradizionale potere politico sia secondario o irrilevante al confronto di altri poteri.
Il problema è diverso rispetto a quello del tradizionale gioco di interessi che per esempio l’economia ha spesso esercitato sul potere pubblico. Qui ci interessa un campo in particolare, quello delle grandi aziende tecnologiche: per esempio Google, Apple, Meta, non solo hanno ognuna un bilancio ben superiore a quello di molte nazioni, ma l’influenza che esse di fatto esercitano sulla vita comune, sulla formazione delle idee, delle abitudini, dei rapporti umani, è in molti casi preponderante. I contrasti con il potere politico o il sistema educativo sono inevitabili: basta seguire le cronache per leggere continuamente di lotte in cui questi tentano affannosamente di recuperare un terreno che è stato perduto in parte per lentezza, in parte per semplice incompetenza, in parte per sottostima delle poste in gioco. (L’ultimo esempio: il processo contro il monopolio Google da parte del governo USA).
Conclusioni
Che il ripensamento della «filiera formativa tecnologico-professionale» non possa far a meno del rapporto del contributo delle aziende è fuor di dubbio. Come andrebbe altrimenti valutata (restiamo nel campo che ci interessa) una formazione professionale informatica che ignori proprio le forze oggi decisive sulla scena mondiale, incluso il loro straordinario contributo di ricerca e avanzamento tecnologico? E però, basta dire questo per comprendere immediatamente il problema. Anche cent’anni fa l’insegnamento professionale faceva appello alle competenze sviluppate sul campo dalle associazioni lavorative, e semplicemente le assumeva. Ma inglobare la conoscenza professionale del letame poneva indubbiamente problemi molto minori rispetto all’integrazione (puta caso) della prospettiva sociale, umana, strategica, di Google o di Meta.
Insomma: se una nazione oggi si interessa alla formazione professionale, deve contemporaneamente insegnare a pensare criticamente questa medesima formazione. Cosa indubbiamente difficile, perché implica il camminare su uno stretto crinale di intelligenza e creatività senza scivolare verso gli opposti versanti della denuncia apocalittica e della rassegnazione all’aria del tempo.