Riprendo la mia analisi partendo da qui: “Siamo di fronte ad una ipercomplessità che si è estesa a tal punto da rendere estremamente difficile e complicato qualsiasi tentativo di fornire/formulare schemi di riduzione della stessa. Si tratta di una (iper)complessità ulteriormente accresciuta dalla rilevanza, sempre più strategica, che la comunicazione e l’innovazione tecnologica hanno assunto, non soltanto nei processi educativi e di socializzazione, ma anche e soprattutto nella rappresentazione e percezione di dinamiche e processi evolutivi sistemici che riguardano da vicino anche la produzione di saperi, di “strumenti”, di conoscenza scientifica; una produzione funzionale proprio all’analisi e gestione di questa ipercomplessità, funzionale a creare quelle condizioni sociali e culturali in grado di contrastare l’imprevedibilità che connota i sistemi organizzativi e sociali” (2003).
Alla luce delle precedenti considerazioni, mai in passato come nell’attuale “società iperconnessa” (2003), occorre educare alla complessità, al “metodo scientifico” e ad una visione sistemica dei problemi e dei fenomeni: ad un primo livello di azione, saper quanto meno riconoscere questa ipercomplessità può significare essere in grado di creare le condizioni per poterla gestire (?) e trasformare in opportunità. Questioni di fondamentale importanza, questioni decisive, strategiche sia per le organizzazioni che per le democrazie, peraltro segnate da una profonda crisi. Eppure nella “società ipercomplessa” (2003), anche tutto ciò rischia di non essere più sufficiente: sempre più di fondamentale importanza è saper anche comunicare questa (iper)complessità, riportando in primo piano (se ancora ce ne fosse bisogno) la questione delle conoscenze e delle competenze, oltre che l’urgenza di superare, una volta per tutte, le “false dicotomie” (Dominici 1998 e sgg.). Nella cd. società della conoscenza non basta più “sapere” e non basta più “saper fare”: dobbiamo necessariamente educare e formare a “sapere”, “saper fare”, ma anche, e soprattutto, a “saper comunicare il sapere” e a “saper comunicare il saper fare”. Si tratta di conoscenze e competenze ormai richieste in tutte le professioni ad elevato contenuto conoscitivo, che caratterizzeranno sempre più la “società della conoscenza” e l’economia della condivisione. Ecco perché non è possibile non tornare, ogni volta, sulla centralità strategica di Scuola e Università, sui percorsi didattico-formativi che propongono e sui relativi obiettivi. Non temo di apparire ripetitivo, perché si tratta della “questione” delle questioni. Se non interverremo in maniera profonda e sistematica su tali dimensioni – educazione e formazione – ci ritroveremo in una condizione problematica di perenne ritardo culturale rispetto, appunto, alla complessità, multidimensionalità e ambivalenza che caratterizzano, da sempre, i processi di innovazione e mutamento. Processi che, peraltro, con la loro attuale estrema velocità e imprevedibilità, con il loro essere in continua evoluzione/metamorfosi, oltre a creare i consueti problemi di controllo e gestione – tipici di tutte le fasi storiche di mutamento e innovazione tecnologica – determinano, e continueranno in futuro a determinare sempre più, la rapida obsolescenza delle conoscenze, delle competenze, dei profili curriculari (Dominici 2003 e sgg.), nel frattempo definiti, formati e riconosciuti dalle istituzioni educative e formative. In altre parole, il problema è: come ripensare Scuola e Università, come ripensare i percorsi didattico-formativi, come ridefinire i profili curriculari e professionali in una fase così segnata da traiettorie irregolari e discontinuità ? E come provare a farlo tenendo in considerazione una società ed un mercato del lavoro sempre più in continua evoluzione? Come provare a cambiare le tradizionali/consolidate logiche e culture organizzative che contraddistinguono le nostre istituzioni educative e formative? Operazione tutt’altro che semplice, oltre che di “lungo periodo”. La stessa ricerca scientifica si basa, attualmente, su logiche che scoraggiano, ostacolano apertamente il dialogo tra i saperi e l’interdisciplinarità, pre-requisiti essenziali per poter affrontare i dilemmi e le sfide della ipercomplessità. E, non possiamo nascondercelo, tale evoluzione sta mettendo in mostra tutta le nostre inadeguatezze, essendo talmente rapida e inarrestabile da accorciare drammaticamente il “ciclo di vita” delle conoscenze e delle competenze necessarie; talmente rapida e imprevedibile (p.e., intelligenza artificiale e robotica lasciano intravedere, con molte difficoltà, scenari del tutto inimmaginabili) da favorire l’obsolescenza anche di tutte le decisioni assunte, oggi, in materia di profili e curricula professionali del prossimo futuro.
In tal senso, come sostenuto anche in tempi non sospetti, si rivela estremamente rischioso, oltre che fuorviante, anche soltanto pensare di poter definire i percorsi didattico-formativi e curriculari, ma anche gli stessi profili professionali, solo, ed esclusivamente, sulla base delle cd. “esigenze del mercato” e/o delle richieste sempre più specifiche delle imprese. So bene che sono in molte/i a pensarla in maniera diametralmente opposta (la maggioranza degli addetti ai lavori e dei cd. esperti), ma ritengo questa impostazione estremamente sbagliata, e on soltanto rispetto alla natura ed agli obiettivi che le istituzioni educative e formative dovrebbero avere.
Siamo ancora dentro logiche di “breve periodo”, che sono quelle della risposta/soluzione immediata, del controllo, dell’equilibrio a tutti i costi, dell’emergenza. Detto in termini più espliciti: ha ancora senso continuare a rincorrere un mercato imprevedibile e in costante evoluzione? Il rischio, estremamente concreto, è sempre quello di continuare a “rincorrere l’innovazione tecnologica e digitale”, subendola, senza neanche saper se ci sarà il tempo necessario per adattarvisi e provare a gestirla. In questa prospettiva, al di là dei tanti paradossi del mutamento in atto, il “grande equivoco”, nella/della civiltà ipertecnologica e ipercomplessa, è proprio quello di continuare a pensare l’educazione e i processi educativi (vale anche per la formazione) come “questioni esclusivamente di natura tecnica”, un problema soltanto di “competenze”, legato al “saper fare” (punto e basta); una questione complessa da affrontarsi puntando tutto su velocità e simulazione.
Se non si ripensa l’educazione e, ancor di più, il pensiero sull’educazione, modificando in tale direzione le scelte e le strategie riguardanti sia la didattica che la formazione (continua e sistematica, con una parte flessibile e modulare) di tutte le figure coinvolte ai vari livelli anche decisionali, non andremo molto lontano e continueremo a tentare di cavalcare il mutamento, la sua ambiguità e indeterminatezza, ricorrendo alle solite vecchie logiche di breve periodo. Navigando a vista.
Mai come oggi, si avverte l’urgenza di un’educazione (non soltanto digitale) che dev’essere immaginata e ripensata, comunque e sempre, nella direzione della costruzione sociale e culturale della Persona (prima) e del Cittadino (poi). Educare alla complessità, al metodo scientifico, al pensiero critico, nutrendo e alimentando un pensiero che non può che essere multidimensionale
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