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Scuola digitale, perché la primaria può guidare l’evoluzione del sistema educativo

La scuola primaria, quella che si è trovata più in difficoltà nella fase di lockdown, potrebbe essere il terreno fertile capace di dare gli stimoli e le idee giuste per una vera evoluzione digitale di tutta la scuola, da quella dell’infanzia all’università. Le opportunità di cambiamento

Pubblicato il 12 Ott 2020

Patrizia Galiani

Tutor dell'apprendimento presso Associazione Italiana Dislessia,Monza e Brianza

Giuliano Pozza

Chief Information Officer at Università Cattolica del Sacro Cuore

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Tutto il settore educativo sta vivendo una vera e propria rivoluzione digitale. Come ogni rivoluzione, ci sono grandi entusiasmi, promesse messianiche, ma anche tante vittime di questa trasformazione brutale e repentina.

Dopo una fase iniziale che oscillava tra l’attendismo e la sperimentazione, è apparso chiaro che non era pensabile che il sistema educativo si trasformasse in poche settimane da un modello tradizionale a uno digitale o blended. I primi mesi di scuola digitale, in particolare nelle scuole primarie e secondarie di primo grado, sono stati in alcuni casi una vera sofferenza. Molti bambini e ragazzi, nei primi giorni naturalmente attratti dai mezzi digitali, hanno vissuto successivamente una fase di repulsione. Lo stesso disagio esprimono molti insegnanti travolti da un modello didattico che spesso hanno definito innaturale e sbagliato, di emergenza.

La situazione attuale allora potrebbe paradossalmente essere non la grande opportunità sperata per rinnovare la didattica con nuovi strumenti, ma la tomba della scuola digitale. Una sorta di grande diseducazione digitale, a partire dalla situazione disastrosa di molte scuole nella fascia elementari e medie. O forse c’è un altro modo di guardare le cose? Non potrebbe essere proprio la scuola primaria, quella più in difficoltà in questo momento, il terreno fertile capace di dare gli stimoli e le idee giuste per una vera evoluzione digitale di tutta la scuola, da quella dell’infanzia all’università?

Condividiamo questa riflessione perché, anche ora che finalmente i nostri ragazzi sono tornati tra i banchi, non dobbiamo perdere l’occasione di ripensare la scuola. Una scuola in presenza ogni volta che è possibile, ma una scuola che sappia anche cogliere tutte le opportunità del digitale. Non solo per paura, ma per spirito di esplorazione e di innovazione, perché a prescindere dal Covid è chiaro che i metodi tradizionali di insegnamento sono spesso inadeguati rispetto ai ragazzi che siedono dietro i banchi o dietro gli schermi.

Perché la scuola primaria

L’Agile, una delle metodologie più usate e talvolta abusate nella costruzione delle piattaforme digitali, ha un principio tanto contro-intuitivo quanto valido. Nella versione originale recita: “If it hurts, do it more often”. Tradotto: “Se fa male, fallo più spesso”. Il principio originariamente si riferiva ai cicli di test e di integrazione continua del software (continuous integration o C.I.), ma può essere generalizzato. Chi ha lavorato nel mondo delle tecnologie digitali per più di qualche decennio sa bene che gli utenti complessi, quelli che “fanno più male” nel senso che hanno i requisiti più difficili, vanno affrontati e capiti il prima possibile. Poi nelle fasi di rilascio può aver senso partire invece dalle situazioni più semplici, ma se non hai capito la complessità in fase di progettazione rischi di realizzare un’architettura e una soluzione non adeguate al contesto. E uno sbaglio di architettura è molto, molto difficile da correggere in corsa.

Ecco, la scuola primaria è il contesto didattico con gli utenti più difficili. Infatti all’università o alle scuole superiori è più facile cedere alla tentazione di travasare in digitale la vecchia lezione analogica: non funziona benissimo dal punto di vista didattico, ma gli studenti universitari sono spesso abbastanza attrezzati culturalmente da poter estrarre valore anche da una brutta video lezione, con il docente che parla davanti ad una webcam di bassa qualità per un’ora. Alle superiori già si fa più fatica, ma almeno negli ultimi anni questo approccio ancora in qualche modo funziona. Primi anni delle superiori e scuole medie: le lezioni online, se non ben fatte, sono il vuoto cognitivo: i ragazzi passano il tempo sugli smartphone.

La scuola primaria è il vero banco di prova: un bambino di 6, 7 o anche 10 anni non può essere tenuto davanti ad un video per ore ad ascoltare un insegnante che legge un testo o interroga i compagni attraverso una piattaforma di video-conferenza. L’attenzione si disintegra immediatamente. Infatti, molti insegnanti preferiscono mandare via mail i compiti delegando alla famiglia la responsabilità di seguire i figli. Il che ha senso e funziona in alcune famiglie, meno in altre. Inoltre, a mano a mano che fabbriche e uffici riapriranno, non sarà più possibile appoggiarsi sui genitori per questa nuova didattica ibrida.

Allora che fare? Rinunciare o cogliere la sfida? La prima opzione sarebbe disastrosa, anche visto il possibile riproporsi della didattica a distanza. Per la seconda opzione, bisogna stare lontani da alcune cattive pratiche e ci vogliono delle idee che siano come gli amici: poche ma buone!

Oltre alla scuola primaria in generale, alcuni contesti particolari da cui prendere spunto sono le Scuole in Ospedale, spesso vere e proprie fucine di innovazione e di best practice per una didattica digitale. In generale poi, dal punto di vista della progettazione, l’approccio che va sotto il nome di Universal Design può dare stimoli e spunti validi per tutti.

Buone idee e cattive pratiche

Nella sezione “cattive pratiche” dobbiamo purtroppo inserire le lezioni frontali che nei mesi di lockdown venivano proposte da alcuni insegnanti, quelli più ancorati alla didattica tradizionale. In alcuni casi, soltanto attraverso il collegamento con il cellulare, si chiedeva ai bambini di leggere il testo a turno (come si faceva in classe) e si cercava di spiegare oralmente quanto veniva letto. In questo modo, i bambini della primaria avevano la possibilità di abbandonare la sessione di lavoro senza che nessuno se ne accorgesse. Ma anche se restavano connessi la loro mente si spegneva in un baleno. Anche utilizzare la videoconferenza collettiva per interrogare i bambini crediamo sia stata una cattiva pratica, perché oltre ad essere poco seguita dagli alunni che non erano interrogati, creava potenziali conflitti tra insegnanti e genitori. Infatti questi ultimi si ritrovavano a volte a dare suggerimenti, mentre i primi erano costretti a riprenderli in diretta davanti alla classe.

Certamente molto dipende dal fatto che nei mesi scorsi gli insegnanti sono rimasti da soli ad affrontare questa emergenza che, come ogni tsunami, necessita di un’attivazione multidisciplinare di risorse e mezzi. Mai come in questa occasione abbiamo tutti capito che il mondo è una casa comune e interdipendente.

La sezione delle “Buone idee” crediamo debba seguire i principi dell’Universal Design for Learning, che possiamo sintetizzare in tre punti:

  • Fornire molteplici mezzi di rappresentazione (il “cosa” dell’apprendimento). Gli studenti differiscono nel modo in cui percepiscono e comprendono le informazioni che vengono loro presentate. Per esempio, quelli con disabilità sensoriali (cecità o sordità), disabilità nell’apprendimento (dislessia), differenze linguistiche o culturali e così via potrebbero richiedere tutti diversi modi di approcciarsi ai contenuti, che comprendono rappresentazioni visive non verbali e uditive al posto del testo scritto.
  • Fornire molteplici mezzi di azione ed espressione (il “come” dell’apprendimento). Alcuni studenti potrebbero sapersi esprimere bene nello scritto e non nell’orale e viceversa.
  • Fornire molteplici mezzi di coinvolgimento (il “perché” dell’apprendimento). Alcuni studenti preferiscono lavorare da soli, mentre altri preferiscono lavorare con i compagni, in piccoli gruppi. Queste necessità sono strettamente collegate alle emozioni e motivazioni degli studenti, aspetti fondamentali che vanno considerati all’interno di una relazione educativa finalizzata all’apprendimento.

All’interno di questa cornice di riferimento possiamo poi inserire tutte quelle pratiche che la nostra creatività ci suggerisce e che la tecnologia supporta anche a distanza come per esempio:

  • Introdurre la videoscrittura sin dalla 2° classe della scuola primaria, come si fa quando si presenta il corsivo, utilizzando quei software che rendono ludico e accattivante la conoscenza della tastiera (es. tux typing e keyzard)
  • Attività di gamification (es. Mindcraft for education oppure esperienze di coding con scratch);
  • Attività di ricerca collaborativa sfruttando le risorse di Youtube Kids e Rai scuola, compiti interattivi e stimolanti utilizzando piattaforme digitali come Wordwall e Learningapps
  • Esperienze di Reciprocal Teaching anche attraverso la formazione di piccole stanze virtuali anche quando la didattica tornerà in presenza, perché al pomeriggio i bambini potrebbero svolgere alcuni compiti in gruppo, collegandosi da casa.
  • Fondamentale è creare compiti di realtà con l’obiettivo di rendere gli studenti competenti, capaci di pianificare un lavoro di squadra, di trovare diverse soluzioni a un problema, di dare a tutti la possibilità di contribuire al compito, fosse anche solo per scegliere delle immagini o dei suoni da inserire nel progetto, (come richiesto dalla didattica inclusiva).
  • Affiancare al corpo docente un’équipe di tecnici informatici e di tutor digitali, che collaborino sia con i docenti (nella scelta e nell’uso delle varie piattaforme digitali), sia con gli alunni che lavorando in piccoli gruppi potrebbero richiedere la mediazione di tutor esperti nelle varie fasi di input, elaborazione ed output delle informazioni.

Una riflessione più generale può essere fatta rispetto al passaggio dall’analogico al digitale. La discussione nei mesi del lock-down prevedeva tanti modelli possibili, tra cui un poco pratico e velleitario obiettivo di dotare tutte le scuole della capacità di produrre e diffondere lezioni digitali in live streaming per gli studenti a casa. Se ci pensiamo un attimo, questo è un altro esempio dell’errore più comune, voler travasare l’analogico nel digitale così com’è. Nel mondo digitale, il contenuto può essere prodotto una volta e distribuito infinite volte. Non serve far sì che tutte le scuole producano lezioni digitali, sarebbe meglio focalizzare poche scuole di eccellenza nella produzione di contenuti di qualità da rendere disponibili a tutti. Le altre scuole dovrebbero usare i mezzi digitali per l’interazione con gli studenti, per il lavoro in piccoli gruppi, per la gamification e per cogliere gli spunti presentati in questo paragrafo.

A call to action

Cosa fare allora, tra buone idee e cattive pratiche? Forse è proprio giunto il momento di mettersi all’opera per andare al di là dell’emergenza, partendo dalle persone e dalla ibridazione delle competenze. Questi mesi di ripresa, senza più la necessità di gestire una situazione estrema, sono l’occasione per superare gli errori passati (ed eventualmente per prepararci ad emergenze future). La tecnologia deve essere al servizio di una visione, di un progetto buono (educativo, di business, sociale…), altrimenti genera mostri. Inoltre la tecnologia per essere efficace deve essere supportata da competenze multi-disciplinari. Altrimenti si corre nell’errore già visto (quante volte!) di distribuire tablet o LIM che poi diventano parte dell’arredamento. Crediamo che il Covid-19, nella sua drammaticità, sia anche un’opportunità unica di cambiamento di paradigma nell’uso del digitale: non più goffo tentativo di riversare pratiche analogiche in un contesto digitale, ma vera evoluzione nell’uso intelligente dei nuovi (e meno nuovi) strumenti per creare valore per le persone. Questo vale per la formazione a distanza, per il lavoro agile, per la sanità digitale, per ogni campo di azione dell’uomo!

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