L’evoluzione dell’ecosistema digitale è stata caratterizzata negli ultimi anni da due tendenze in parte contrastanti. Da un lato lo sviluppo di alcuni settori ad alta complessità e la crescita dell’integrazione fra servizi: basti pensare a campi di ricerca come la big data analysis, le ontologie per la metadatazione semantica, l’intelligenza artificiale e le sue applicazioni all’interazione fra utenti e sistemi informatici o alla gestione e all’analisi di basi informative di grandi dimensioni. Dall’altro, la prevalenza di granularità e frammentazione nell’uso quotidiano della rete da parte della maggioranza dei suoi utenti, e nei contenuti da loro prodotti o fruiti.
Questo duplice movimento, da un lato verso la complessità e dall’altro verso la frammentazione, si traduce in una dialettica (spesso conflittuale) fra strumenti, pratiche, metodologie, contenuti diversi, prevalentemente orientati in un senso o nell’altro. Una dialettica che si riflette anche sul rapporto fra mondo digitale e mondo della scuola e della formazione. Si parla spesso di educazione alla cittadinanza digitale, di promozione dell’information literacy, di nuove competenze. Ma quali competenze digitali dovrebbe fornire oggi la scuola? E relativamente a quali tipologie di strumenti e di contenuti?
Proviamo ad approfondire. Indubbiamente, nel mondo della testualità digitale dominano brevità e frammentazione: le mail, i post di un blog, i messaggi di stato sui social network, i tweet, gli SMS, WhatsApp… tutte situazioni in cui le conversazioni sono sincopate e spesso non concluse, l’affermazione prevale sul ragionamento, la liquidità sulla struttura. In rete, le forme di testualità più complessa – a partire dalla forma-libro – hanno finora avuto assai meno spazio: gli stessi libri elettronici (inclusi i libri di testo elettronici) sono nella maggior parte dei casi trasposizioni dirette del modello rappresentato dal libro cartaceo, senza la capacità di sfruttare efficacemente la multicodicalità e l’interattività che dovrebbero essere proprie del digitale. Le conseguenze di questa situazione su sfere come quella della politica, che richiederebbero invece riconoscimento della complessità, riflessione e mediazione, capacità di analisi e progettazione, sono sotto gli occhi di tutti.
Complessità e frammentazione
È colpa del digitale? Brevità e frammentazione ne sono caratteristiche essenziali e necessarie? A smentire questa ipotesi è l’esistenza, già ricordata, di una tendenza che si muove nella direzione opposta, quella della complessità. Certo, si potrebbe affermare che la frammentazione è anche una possibile conseguenza della crescita della complessità, che a un certo punto sfugge al controllo, alla comprensione, alla capacità di gestione del singolo (e dei gruppi). Ma in questo caso siamo piuttosto davanti a due piani parzialmente indipendenti, logicamente e cronologicamente successivi: più che essere conseguenza della complessità, la frammentazione dei contenuti la precede. Così, ad esempio, è possibile analizzare in forma di big data i contenuti prodotti all’interno di un social network, individuando tendenze e stabilendo collegamenti. Il livello dei singoli contenuti e lo sguardo dell’utente che li produce restano immersi nella frammentazione, il livello dell’analisi e lo sguardo dell’analista la superano. Il digitale, in quanto tale, è in primo luogo una modalità di codifica dell’informazione, ed è neutrale rispetto alla dialettica fra frammentazione e complessità: possiamo codificare in digitale tanto un tweet quanto Guerra e Pace.
L’evoluzione della rete
Perché allora, a livello di contenuti e rispetto all’uso quotidiano degli strumenti digitali da parte della maggioranza degli utenti, prevale la frammentazione? Ho affrontato questo tema nel mio ultimo libro (L’età della frammentazione. Cultura del libro e scuola digitale. Laterza 2018), cercando di dimostrare che si tratta di una tendenza legata all’evoluzione attuale degli strumenti di rete, più che al digitale in sé. Proprio come le società umane, la rete è passata dall’età dei cacciatori-raccoglitori (prima del web, quando i contenuti disponibili erano pochi e le prime tribù che frequentavano la rete si collegavano per brevi sessioni di ‘caccia’, trasferendo nell’ambiente chiuso del proprio computer le prede informative che erano riuscite a reperire) all’età della prima urbanizzazione e coltivazione informativa (il cosiddetto web 1.0, basato sul concetto di sito e su informazione ‘stanziale’) e poi all’età dell’artigianato e del commercio (il web 2.0, con la crescita dei contenuti generati dagli utenti e il loro scambio attraverso i social network e loro meccanismi di condivisione e di embedding). L’età delle cattedrali, e dunque del lavoro – organizzato più che individuale – su strutture informative assai più complesse e sofisticate è il passo successivo. C’è già chi si muove in questa direzione, ma la maggior parte degli utenti è ancora legata allo scambio di contenuti informativi brevi e granulari.
L’idea che brevità e frammentazione siano caratteristiche solo contingenti della testualità digitale è purtroppo minoritaria: la maggior parte degli interpreti ritiene invece – con argomenti a mio avviso assai deboli – che i contenuti digitali debbano necessariamente organizzarsi in maniera granulare. Nel mondo dell’educazione è su questa idea che sono nati paradigmi come quello dei learning object, oggetti di apprendimento granulari e autosufficienti, e si è sviluppata la tendenza allo ‘spacchettamento’ dei contenuti di apprendimento.
Digitale debole vs. digitale forte
Già messa a dura prova dalla rapidità dei passaggi che ho cercato di delineare – e dai relativi cambiamenti di paradigma – la scuola si trova così a vivere in una realtà di contenuti (inclusi i contenuti di apprendimento) fortemente frammentati; e programmaticamente legati alla frammentazione dei contenuti sono in molti casi gli strumenti e le metodologie di cui si propone l’uso. La nostra scuola è insomma proiettata verso un digitale ‘debole’, proprio nel momento in cui deve invece fronteggiare un indebolimento nelle competenze legate alla gestione di informazione strutturata e complessa. Cioè esattamente di quelle competenze che il passaggio all’età delle cattedrali informative sembra richiedere.
Questo paradosso spiega, credo, la scarsa efficacia di molte ‘pratiche innovative’ legate all’uso di contenuti digitali: le pratiche saranno pure innovative, ma vanno nella direzione sbagliata e si basano sul tipo sbagliato di contenuti di apprendimento.
Perché l’incontro fra scuola e digitale sia produttivo, occorre andare nella direzione opposta, quella del digitale ‘forte’: occorre affiancare ai contenuti granulari anche contenuti complessi e strutturati, e preoccuparsi di costruire pratiche e strumenti non dispersivi, capaci di favorire l’acquisizione di competenze orientate alla complessità. Nel suo rapporto con l’ecosistema digitale il mondo della scuola è davanti a un bivio: è importante che sappia prendere la strada giusta.