Stiamo assistendo in questi giorni ad una polemica particolarmente accesa sviluppatasi a seguito dell’annuncio della Ministra Valeria Fedeli di una revisione della normativa vigente in direzione dell’apertura all’uso dello smartphone nelle aule scolastiche.
Di cosa si sta discutendo in realtà non è chiaro ai più, perché la notizia, decontestualizzata e trattata con una forte semplificazione, ha offerto il fianco ai più disparati commenti che hanno visto il consueto formarsi dei due schieramenti contrapposti degli apocalittici e degli integrati a dirla con il compianto Umberto Eco.
Cerchiamo di fare chiarezza e di riportare il dibattito alla qualità che merita, riferendoci almeno ai due documenti irrinunciabili da richiamare: la Direttiva Fioroni n. 104 del 2007 e il Piano Nazionale Scuola Digitale.
L’annuncio della Fedeli infatti fa riferimento alla necessità di innovare una normativa vecchia di 10 anni, epoca in cui gli stessi dispositivi personali avevano caratteristiche molto diverse dalle attuali. La Direttiva Fioroni, il cui contenuto è da inquadrare nel più ampio discorso sulla diffusione impropria dei dati personali nella fattispecie di immagini, non lasciava grande margine alle scuole, invitando ad “inibire, in tutto o in parte, o sottoporre opportunamente a determinate cautele, l’utilizzo di videotelefoni e di MMS all’interno delle scuole stesse e nelle aule di lezione” definendo nei regolamenti di istituto apposite sanzioni disciplinari per i trasgressori.
In dieci anni molta acqua è passata sotto i ponti, i telefoni cellulari si sono evoluti diventando dispositivi sofisticati e versatili e sono stati fatti sforzi elevatissimi per il recupero del gap del Paese nello sviluppo e nell’uso delle tecnologie digitali, con una strategia che ha visto coinvolta anche la scuola e che ha avuto il suo apice nella pubblicazione del Piano Nazionale Scuola Digitale di cui ampiamente si è dibattuto in questo spazio.
Dunque è necessario ricordare che fra le linee di azione del PNSD vi è quella dedicata agli ambienti per la didattica digitale integrata che delinea una vision di aule laboratorio a tecnologia leggera in cui i dispositivi personali degli studenti hanno una parte rilevante proprio nell’azione 6, Politiche attive per il BYOD.
Per BYOD, acronimo anglosassone per bring your own device, si intende una pratica piuttosto diffusa in molti paesi nella quale il laboratorio leggero di classe è costituito proprio dai dispositivi personali di ciascuno studente, che possono essere diversi tra loro ed utilizzati per finalità didattiche. Naturalmente tra questi dispositivi trovano largo spazio gli smartphone, sia perché il mercato delle app si è ampiamente sviluppato con specifiche applicazioni ottime per finalità didattiche, sia perché si tratta di strumenti posseduti dalla stragrande maggioranza degli studenti e che verosimilmente non richiedono un investimento aggiuntivo da parte delle famiglie.
Tutto questo è chiaramente annunciato nell’azione 6 del PNSD, che specifica anche l’imminente insediamento di una commissione che sarà incaricata di definire linee guida aggiornate per “standard e pratiche chiare, identificando i possibili usi misti dei dispositivi privati nella pluralità di attività scolastiche”.
Rientrando nel merito del dibattito è necessario dire che è difficile comprendere la sostanza di quanto annunciato se non si ha presente che la diffusione del digitale a scuola, lungi dall’essere una questione di moda, va di pari passo con un profondo rinnovamento della didattica resosi necessario per il cambiamento di paradigma portato dal riferimento alle competenze della Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del 2006, recepita negli ordinamenti scolastici dei paesi europei.
Il digitale e i suoi strumenti vi rientrano in quanto risorse, accanto ad altre più tradizionali, per agire sull’ambiente da persone competenti, in grado cioè di trasformare la realtà attraverso le conoscenze e le abilità possedute. In altre parole sono strumenti del “fare”, servono a fare ricerche, condividere documenti, rispondere a quiz istantanei, si comportano come sensori e molto altro ancora. La didattica per l’apprendimento di competenze infatti non si riduce alla trasmissione di saperi, ma ne promuove l’applicazione in contesti di realtà o che simulano la realtà.
Se nella realtà dobbiamo portare i nostri giovani non è dunque possibile ignorare quanto vi è di uso quotidiano.
Agli apocalittici va spiegato anche che se in questi dieci anni abbiamo navigato a vista nelle dinamiche di rete senza essere consapevoli della direzione che avrebbero assunto, oggi abbiamo strumenti a sufficienza per comprenderle e di conseguenza per educare i giovani ad essere critici e consapevoli, oltre che corretti. E’ compito preciso della scuola perseguire questo fine.
L’educazione al corretto uso delle fonti di informazione, alla corretta comunicazione, alla prevenzione dei rischi, all’uso critico e intelligente della tecnologia non può certo avvenire attraverso il divieto, ma soltanto nella conoscenza e nella pratica esperta degli strumenti e degli ambienti che disegnano la necessità di definire regole per una nuova cittadinanza, quella digitale.