Dovrebbero allarmarci, anzitutto, i dati relativi all’efficacia della Dad (didattica a distanza), ora che siamo alle porte della ripresa.
Quasi un bambino su dieci non ha partecipato attivamente alle lezioni, mancando, perciò, di adempiere al diritto-dovere di istruzione. Ciò è dipeso da strumenti inadeguati, connessioni non disponibili, mancanza di competenze digitali, sia proprie sia degli adulti in famiglia, incapaci di offrire un adeguato scaffolding ai minori. Anche l’offerta didattica è stata poco “ingaggiante”: purtroppo gli insegnanti non erano pronti per costruire nuovi scenari di apprendimento online.
Per il futuro, pertanto, bisognerà intervenire su diversi piani, perché ci sia davvero l’innovazione agognata. Ecco gli obiettivi:
- Riduzione del digital divide
- Trovare connessioni tra tecnologie, interessi degli alunni, materie scolastiche e mondo del lavoro, perché la scuola non resti una bottega di sapere apparentemente inutile
- Formazione dei docenti perché possano comprendere le opportunità trasversali della Media Education.
Riduzione del digital divide
Come ho scritto nel saggio edito dall’Istituto di Network Cultures, Web 2.0 e Coronavirus: domande e risposte della filosofia, durante l’emergenza pandemica sono emersi le differenze sociali e i danni delle promesse non mantenute. È banale, ma i cittadini non sono tutti uguali. Non esiste alcuna uguaglianza sostanziale, nemmeno per quanto concerne l’accesso alla tecnologia. Perché si possa beneficiare delle opportunità offerte dal digitale, godendo della società dell’informazione, bisogna già essere dotati di reddito alto e di competenze di varia natura. Analogamente, chi è escluso dalla competizione tenderà ad allontanarsi sempre più dalle classi ricche, aumentando la forbice sociale che sta generando la tecnologia.
Quello che possiamo constatare, dopo quasi trent’anni dalla nascita del World Wide Web, è il tradimento della cosiddetta freelosophy. Tim Berners-Lee e gli altri ideatori del web volevano che internet fosse libero e gratuito, di modo che tutti potessero partecipare alla conoscenza. Oggi, tuttavia, è sempre più un luogo di aziende private e nuovi plutocrati, un ambiente di controllo e di monopoli.
Una delle maggiori possibilità che offre il web è proprio la “post-formazione secondaria alternativa”. Online è possibile seguire corsi di qualità, erogati dalle maggiori università al mondo. Si può decidere, insomma, di progettare un percorso di lifelong learning, costruito sull’identità personale e sulle esigenze del mondo del lavoro.
L’università, purtroppo, è piuttosto statica e poco adattabile alle necessità individuali. I costi sono proibitivi per la maggior parte delle persone. Inoltre, a scoraggiare, sono l’impegno temporale e le distanze fisiche che certi corsi universitari richiedono. I Massive Open Online Courses, MOOC, d’altro canto, sono molto vantaggiosi, in particolare per la liquidità che caratterizza le pratiche sociali odierne. Sono corsi completi, interamente organizzati su piattaforme di e-learning.
Possono essere una valida alternativa all’università, in particolare quando è preferibile, per ristrettezze economiche e limitate risorse temporali, un corso tematico che dia certificazione. Potrebbe essere uno strumento con cui acquisire competenze subito spendibili sul lavoro. Soprattutto dovrebbe essere interessante per i lavoratori e per i ragazzi con poche disponibilità economiche, i quali, spesso, si trovano costretti a rinunciare al desiderio di avanzare nella carriera. Tuttavia, i dati dimostrano che questo genere di corsi online non è un’opportunità che le classi svantaggiate tendono a cogliere, anzi. Sono un’altra volta le persone ricche e già istruite che aggiungono competenze al loro resume seguendo questo genere di formazione post-secondaria.
Preparare studenti e insegnanti all’infosfera
Per ridurre il gap tra le classi, facilitando l’accesso al digitale anche ai meno abbienti, bisogna che tutti siano “formati alla formazione”, al fine di conoscere cosa offra, in concreto, il digitale, sia in termini di lifelong learning sia in qualità di orientamento per conoscere le nuove occupazioni. Come intervenire concretamente? Come rendere preparati alunni, docenti e adulti all’infosfera?
Gli Inuit usano molte parole con cui categorizzare la neve, in modo da muoversi agevolmente all’interno dell’ambiente ghiacciato. Una lingua riflette sempre le esigenze pratiche dei parlanti. Quello che ci manca, allora, è una semantica digitale atta a mappare i contesti, le pratiche, gli snodi, impedendo alle persone di perdersi nell’ipertesto o di fermarsi alla superficie delle possibilità che il WWW offre. Insomma, perché il digitale non sia l’ennesima occasione di ingiustizia, ma possa diventare il modo perché si costruisca una società equa, bisogna operare verso una redistribuzione delle uguali opportunità di crescita, esperienza, informazione. Occorre che già nella primaria i bambini vengano avvicinati agli ambienti online, perché si accorgano anzitempo di avere talenti sopiti, in linea con ciò che la società chiede.
I danni del freno all’innovazione
Una delle cause che rallentano il processo di digitalizzazione è l’incomprensione, da parte della scuola, di come, nella pratica, possa avvenire l’uso significativo della tecnologia; come le lezioni possano essere davvero “aumentate” dai mezzi digitali.
È paradossale che la tecnologia appaia come un qualcosa di inapplicabile. Essa nacque proprio come applicazione pratica delle leggi scoperte in laboratorio, perché potessero avere una funzione nella società, atta a incentivare la crescita e il benessere degli individui.
In realtà, però, perché la tecnologia entri a far parte delle maglie sociali non è sufficiente che venga brevettata e prodotta. Perché allarghi il suo raggio di azione senza ridursi a nicchie professionali è necessario sia sempre accompagnata da discorsi che ne spieghino l’uso, che le attribuiscano a posteriori un senso, lasciando sempre aperta la possibilità che evolva verso altre direzioni.
Infatti di per se stesso uno strumento non ha significato. È l’uso, che può trasformarlo in un mezzo funzionale a qualcosa. Il significato di una tecnologia dipende da come essa può venire applicata, dalle esigenze a cui risponde e, appunto, dalle tecniche di persuasione che dimostrano l’effettivo bisogno che se ne ha. La stampa 3D, ad esempio, assume svariati sensi a seconda dei contesti di impiego. La si incontra negli ospedali, nell’industria, nell’arte e può avere tantissimo potenziale anche nella didattica.
Purtroppo però, per come la Media Education è stata fino ad ora presentata, appare, al massimo, come una metodologia didattica per i dopo-scuola o per centri estivi da nerd. Non se ne comprende l’importanza trasversale, in grado di arricchire ogni materia di indirizzo attraverso le sue pratiche.
I tre aspetti della Media Education
Il termine Media Education rende conto di tre tipi di formazione. Essa si riferisce sia all’educazione sui media, cioè quella online, sia all’educazione ai media, cioè al pensiero critico intorno agli usi e agli abusi delle piattaforme: è bene che i mezzi digitali non restino inutilizzabili, ma soprattutto è bene che essi non trasformino noi in accessori, in bot in balia di algoritmi.
Infine, come terza possibilità, la Media Education è educazione “aumentata” dai media, quando la formazione nell’aula, in presenza, viene arricchita dagli strumenti tecnologici. È qui che si gioca la vera sfida.
Infatti, fino ad ora, i mezzi hanno solo lasciato con un gigantesco “what’s the point?” in testa. La tecnologia, il coding, il tinkering, i tablet, la LIM, il connected learning, la robotica rimangono incollocabili nei curricula scolastici.
Pensiero computazionale, pensiero spendibile
Le scadenze impongono agli insegnanti di trattare e verificare, una dopo l’altra, le varie nozioni attraverso cui si articolano le materie, lasciando, perciò, poco spazio alla tecnologia. Inoltre resta incomprensibile come certi strumenti possano essere trasversali tra le varie discipline. La programmazione, al massimo, è intesa come un corollario delle materie scientifiche, ma per i docenti di lettere e filosofia sembra poco conciliabile. In realtà, il pensiero computazionale va inteso come modalità di ragionamento spendibile in diversi settori.
Un po’ come la filosofia dovrebbe educare al ragionamento critico, anche il coding permette di insegnare un’euristica non limitata alla matematica. La programmazione fa affrontare l’errore in modo differente. Esso non appare più come un giudizio definitivo sulla qualità della persona, ma diventa un’opportunità da cogliere, una partenza da cui riprovare a risolvere il problema. L’errore nel coding è un semplice dato sfruttabile per ridurre la distanza tra output ottenuto e output atteso. L’enigma può essere il codice di un programma, ma anche qualunque dubbio esistenziale. È per questo che non va sottovalutata la valenza dell’informatica, già nella primaria.
Digitale, a scuola un concetto astratto
L’idiosincrasia nei confronti del digitale fa apparire la scuola come un sistema distante sia dagli agenti a cui è destinata, sia dalla comunità in cui è inserita. Non prepara alla vita, al mondo del lavoro. Non fa orientamento e non sa rivolgersi ai nativi digitali.
La teoria della self-determination ricorda come la chiave del successo provenga solo da una forte motivazione interna ad agire. Sono solo gli interessi che guidano la volontà di apprendere e aggiornarsi tutta la vita. In questo la scuola commette un grave errore. Non sa valorizzare la cultura pop dei ragazzi trovando in essa un potenziale anche per il mondo del lavoro. Finché non viene colto come possano essere inseriti nella didattica videogiochi, anime e tecnologia, il ragazzo non potrà essere facilitato a trovare un’utilità immediata in ciò che le materie sono in grado di offrirgli, sentendosi inevitabilmente alienato dal mondo scolastico.
Formazione dei docenti
L’innovazione deve riguardare il modo di pensare alla tecnologia, perché possa diventare un valore aggiunto in ogni materia. Ciò permetterebbe ai ragazzi di cogliere l’attualità in ciò che imparano e di conoscere meglio se stessi, sperimentandosi in saperi che potrebbero rappresentare reali possibilità lavorative.
Da filosofa ci tengo a chiarire i termini, premettendo che tecnologia e innovazione sono tutto tranne che sinonimi. L’innovazione ha a che fare con l’uso degli strumenti in un contesto, con le pratiche di impiego, con la forma mentis che sottende l’implementazione delle tecnologie. Innovativo può essere l’utilizzo di uno strumento in un’area differente rispetto a quella per cui fu progettato.
A dare un significato a una tecnologia può essere qualunque creativo che in un dato momento ha l’intuizione di servirsi di una tecnologia in modo nuovo.
Oggi le tecnologie ci sono e sono molte, eppure l’innovazione, la rivoluzione a livello di processi, resta inappagata. La sfida si colloca a questo livello. È necessario che si dia una spinta significativa perché si trovi il significato alle tecnologie, rendendole veramente utilizzabili nel contesto didattico.
Rifacendomi alle Ricerche Filosofiche di Wittgenstein, il significato delle parole non dipende dal loro riferimento. Un termine non ha il senso della cosa che rappresenta. Quando si pronuncia un lemma, per comprendere il suo significato e agire in maniera consona a quello che ci viene detto, bisogna considerare il contesto, le implicature logiche, la pragmatica del linguaggio, la funzione che il termine assolve in un sistema condiviso di regole e pratiche.
Un martello non è semplicemente un martello. Se dicessi “martello!” a un bimbo che muove i primi passi incerti nel garage di casa, il mio senso di quella parola potrebbe essere quello di avvisarlo di non inciampare in un attrezzo che il papà ha scordato in terra. Di certo non vorrei che mio figlio di due anni mi allungasse quello strumento al posto delle pinze a pappagallo. Il contesto cambia il senso delle parole. È per questo che le tecnologie sono nuove o vecchie a seconda che vengano collocate in procedure già consolidate o in ambiti innovativi.
La scuola impari dai maker
L’innovazione che viene domandata alla scuola deriva dal modo di didattizzare i media, senza banalizzarli. La società evolve sempre più velocemente della cultura, ma ad un certo punto, quando gli schemi di pensiero sono completamente disconnessi dal sistema di riferimento e dall’audience, vengono stravolti gioco-forza. Adesso è il momento che la scuola implementi la tecnologia, ascoltando le indicazioni pratiche dei maker.
Una possibilità viene proprio dall’Italia. Scuola di Robotica è un’associazione avente base a Genova. È da anni che si impegna a organizzare incontri e lezioni per mostrare come applicare la tecnologia alla didattica, in modi sia creativi sia efficaci.
Dal 2017, per esempio, sta prendendo parte a un progetto Erasmus+ chiamato We are the makers. In luglio è stato celebrato online l’evento finale di questo percorso straordinario, che ha visto la collaborazione di ben sei partner europei, tra i quali Francia, Germania, Grecia, Danimarca, Romania.
Sono stati offerti spunti pratici su come applicare stampa 3D, internet delle cose e oggetti interattivi alla didattica. We are the Makers è nato proprio con l’obiettivo di insegnare come connettere la tecnologia sia alle discipline tradizionali sia ai dibattiti sociali più urgenti. Per esempio, il partner francese eNable ha insegnato come stampare mani robotiche a basso costo. Tali protesi sono state poi distribuite a bambini in difficoltà economiche. Durante il percorso sono stati scritti tre manuali, scaricabili gratuitamente sul sito. Sono un vademecum per inserire la robotica all’interno dell’aula.
La mission del progetto è indicare come la tecnologia venga arricchita dalle discipline scolastiche e viceversa, senza rimanere una mera esca per attirare l’alunno e poi abbandonarlo alla solita lezione frontale. Se chiunque può prendere parte a una giornata di webinar, è perché quel soggetto “noi” non è circoscritto a una nicchia, ma ingloba davvero tutti. Tutti siamo maker e tutti possiamo beneficiare degli strumenti della robotica e del coding nella formazione.
Trasversalità della tecnologia
Una volontà simile ha spinto vari makers da tutto il mondo a collaborare a un testo edito dall’Istituto di Network Cultures, The critical makers reader. A indirizzare gli sforzi verso la stesura di questo libro fu la volontà congiunta di dimostrare che i maker sono vivi e sono uniti verso un comune sforzo sociale, una filantropia illuminista. La vera forza delle tecnologie digitali proviene dai processi e non dai singoli prodotti. “Making is a process and a practice, not just an outcome”.
Pertanto, sia il progetto edito dall’Istituto di Network Cultures sia We are the makers insistono sulla trasversalità della tecnologia. Tutti siamo maker e non solo gli ingegneri. Il “noi” di We are the makers parla a chiunque, come il movimento The critical makers reader ha chiamato a collaborare teorici, educatori, creativi con i background più disparati. La tecnologia permette di raccogliere (e riparare) sotto il suo ombrello ogni individuo, permette di non escludere. Questa collegialità va anche a vantaggio del progresso stesso. Grazie alla cooperazione di prospettive diverse si possono ottenere output più completi e vantaggiosi. È per questo che grazie alla tecnologia, se opportunamente spiegata e distribuita, potrebbe crearsi una società senza esclusioni.
“Makers di tutto il mondo, unitevi!” potrebbe essere lo slogan con cui condensare l’invito universale a prendere parte e contribuire alla società dell’informazione.