l'analisi

Telelavoro e teledidattica? Non basta la tecnologia: riprogettiamo le città

La pandemia Covid-19 ha attivato procedure di lavoro e di didattica a distanza evidenziando ritardi e difficoltà; non si tratta solo di risolvere problemi tecnici e di banda, di disporre di piattaforme e competenze, serve un cambiamento culturale profondo determinato da un’innovazione sociale implementata nel territorio

Pubblicato il 16 Apr 2020

Franco Torcellan

Associazione RED - Laboratorio di Ricerca Educativa e Didattica “Formare Trasformare Innovare”

smart city digital

In questi giorni risuonano, in una orgogliosa rivendicazione di capacità innovativa, parole inglesi di cui conosciamo, se va bene, il significato letterale, ma non l’accezione tecnica.

Vanno di moda termini quali smart working e eLearning, ma in realtà ciò di cui si parla è “lavoro da casa” (a cui si è costretti), per il quale si dovrebbe utilizzare il termine telelavoro, e “didattica da casa” (a cui si è ancor più costretti).

Inglese o no, sembra che non si voglia riconoscere il dato reale e cioè che la collocazione “smart” o “distante” è la sola propria abitazione, luogo non particolarmente innovativo, poco eroico, assolutamente privato, dove di solito si sta sbracati (e l’ospite improvviso ci scopre) e dove magari si combatte tra fratelli e genitori per l’utilizzo del computer.

In realtà perché il lavoro e la didattica siano davvero intelligenti, bisognerebbe riprogettare le nostre città e i nostri modelli sociali fin dentro le nostre case (che non sono state costruite per il telelavoro). E in questo gli insegnanti devono avere un peso determinante perché bisogna passare da definizioni asettiche della società attuale come società dell’informazione o società della conoscenza alla definizione della società dell’apprendimento: apprendere è infatti la cosa che facciamo di più e che dovremo fare sempre più tutti in ogni momento della vita e in ogni luogo che frequentiamo per lavoro, studio, svago o altro.

Lavoro, studio e mobilità sostenibile

Lo smart working, in realtà, è un lavoro praticato in maniera flessibile, ma strutturata tra sede principale dell’azienda/organizzazione, spazi di coworking (anche questo termine ricorrente, ma il cui vero significato è forse ancor meno conosciuto), spazi personali e luoghi pubblici di una smart city.

Forse sarebbe meglio partire da quest’ultimo termine, che definisce un concetto più ampio e più complesso che individua il contesto in cui si strutturano smart working, co-working, “didattica a distanza”, telelavoro e nuova cittadinanza (digitale e non).

Fin dalle prime formalizzazioni (J. William Mitchell, La città dei bits. Spazi, luoghi e autostrade informatiche, Electa 1997) il nodo centrale della smart city è la mobilità fisica e digitale, nonché sostenibile proprio nel ricorso all’informatica e alle macchine elettriche: il Programma Smart Cities del MIT Media Lab, tra il 2003 e il 2010, ha affrontato proprio la progettazione di ambienti fisici e virtuali integrati capaci di permettere una grande mobilità sostenibile di persone e di informazioni.

La smart city non è dunque “restare tutti a casa con la fibra” e nemmeno “avere la SIM con i Giga”. Non è una banalità e in Italia sono più che altro i grandi capoluoghi di provincia, prevalentemente del nord, ad aver intrapreso il cammino verso questa dimensione urbanistica e sociale.

Implementare valori e modelli sociali nel territorio

Sono proprio queste le parole chiave e le azioni da attuare: la ri-progettazione delle città e la condivisione di nuovi modelli sociali, oltre che una pianificazione sostenibile delle attività produttive.

Urbanistica, architettura, gestione del territorio in Italia però sono questioni tecniche per esperti e nelle scuole non godono di grande attenzione. I cittadini “normali”, ma pure gli insegnanti, affrontano spesso tali tematiche sul piano “letterario” o con un approccio valoriale-filosofico: nella scuola si tende poi ad evitare il terreno principale sul quale si affrontano concretamente tali questioni e cioè la politica. Il luogo del confronto democratico viene spesso glissato per evitare l’insorgere di polemiche.

I valori sono ovviamente essenziali, essi però “vanno fatti funzionare”: non basta parlarne, devono essere implementati nel territorio e la politica è lo strumento della democrazia, della partecipazione e della convivenza civile. I modelli sociali si devono concretizzare in assetti territoriali, altrimenti restano nel modo della fantasia, della speranza e possono divenire sterile discussione pseudo-filosofica e motivo di frustrazione.

I concetti di tolleranza e di integrazione, ad esempio, hanno avuto corpo quando i veneziani hanno progettato il Ghetto per gli ebrei (una delle isole che compongono il centro storico di Venezia), quando si è pianificata Amsterdam ad isolati (permettendo il controllo sociale anche della prostituzione) e quando in America si è presa tale struttura territoriale (ad isolati, appunto) per assegnare le varie zone della città a soggetti diversi in modo da non farli confliggere. Strutture perfette? No, perché vere, reali, da gestire con oculatezza, “da riparare” ogni tanto. Non si tratta di rappresentazioni ideali, ma di un pensiero, misto di idee, valori e concretezza, legato ad un fare per ottenere risultati migliorabili nel tempo: progetto, pianificazione e gestione programmata sono dunque le coordinate per l’implementazione dei valori nel territorio.

Progettare la società dell’apprendimento

Dalla crisi determinata dalla pandemia di Covid-19 si potrà uscire solo con la ri-progettazione dello spazio/tempo in cui viviamo e non cercando di aggiungere/appiccicare strumenti digitali a modelli territoriali e sociali del passato, rigidi ed inefficaci nel gestire la complessità. Non abbiamo bisogno di una trasformazione digitale per affrontare le contingenze, ma di territori in cui gli spazi fisici siano compenetrati con gli ambienti digitali per formare luoghi complessi e flessibili per migliorare la qualità della vita e che, in caso, ci permettano anche di affrontare preparati le eventuali emergenze.

La pubblicistica sulle smart city è ampia; per una rapida sintesi attuale è molto puntuale questo articolo.

Gli spazi di coworking hanno poi una loro specifica tipologia di progettazione, ma la ricerca sugli spazi (domestici) del telelavoro non mi pare invece molto affinata, quantomeno non è molto conosciuta.

Così molto si è riflettuto sugli spazi e sugli arredi dell’architettura scolastica, soprattutto nell’attività di INDIRE (Architetture scolastiche , Quando la didattica cambia lo spazio ); esistono anche Linee Guida ministeriali per l’edilizia scolastica (D.M. 11/04/2013) ed è stato realizzato il Concorso di Idee #scuoleinnovative.

Sui contesti fisici della “didattica a distanza”, invece, non molto si è studiato.

Città che imparano

È evidente che in tutto questo gli insegnanti e il mondo della scuola dovranno dire la loro e collaborare con gli architetti per dar significato concreto a parole come formazione continua, riconversione professionale, soft skills, apprendimento informale, lifelong learning e, in definitiva, “imparare ad imparare”. Da notare, in proposito, che proprio la “quinta” Competenza Chiave Europea (Raccomandazione 18/12/2006), nella Raccomandazione del 22 maggio 2018, è stata ridefinita come “competenza personale, sociale e capacità di imparare a imparare”.

La didattica a distanza non dovrà dunque essere pensata come sistema sostitutivo della scuola “tradizionale” in caso di emergenza, ma come didattica integrata e complessa che definisca la scuola quale nodo fondamentale di un sistema educativo diffuso nel territorio e spina dorsale della società dell’apprendimento, capace di supportare le necessità formative non solo dei bambini e degli adolescenti, ma di tutta la popolazione secondo le necessità che si presentano lungo tutto l’arco della vita.

Per tutto questo, per questa visione sociale dell’apprendimento come strumento di autonomia personale e sviluppo delle comunità, servono spazi integrati tra scuole, territorio, luoghi pubblici, spazi abitativi e ambienti digitali: le smart city sono “Città che imparano” (Norman Longworth, 2007).

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