Il 10 settembre scorso su alcune testate nazionali è apparso un appello (trasformato in una raccolta firme su Change.org), a firma di un gruppo di pedagogisti e di diversi personaggi del mondo dello spettacolo. Il titolo della petizione è: “Stop smartphone e social sotto i 16 e 14 anni: ogni tecnologia ha il suo giusto tempo”.
Divieto di smartphone a scuola: la petizione e la circolare di Valditara
La richiesta dei firmatari è questa: chiedere al Governo italiano “di impegnarsi per far sì che nessuno dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze possa possedere uno smartphone personale prima dei 14 anni e che non si possa avere un profilo sui social media prima dei 16”.
La richiesta arriva due mesi dopo l’ultima circolare del ministro dell’Istruzione e del Merito Valditara, che per la prima volta ha introdotto un formale divieto all’uso degli smartphone per lo svolgimento delle attività educative e didattiche, in vista dell’avvio dell’anno scolastico 2024/2025.
Nel documento diffuso l’11 luglio si parla degli effetti negativi dell’uso continuo “spesso senza limiti, dei telefoni cellulari fin dall’infanzia e nella preadolescenza” e si dispone il divieto di utilizzo in classe del telefono cellulare, anche a fini educativi e didattici, per gli alunni dalla scuola d’infanzia fino alla secondaria di primo grado, salvo i casi in cui lo stesso sia previsto dal Piano educativo individualizzato o dal Piano didattico personalizzato, come supporto rispettivamente agli alunni con disabilità o con disturbi specifici di apprendimento ovvero per documentate e oggettive condizioni personali”.
Il clima nel quale si inserisce l’appello dei pedagogisti
Penso ai tanti anni di impegno dei docenti in classe per rendere le tecnologie invisibili, allo scopo di realizzare una vera inclusione, senza distinzione tra le persone per cui l’uso di una tecnologia fa la differenza tra accedere e non accedere all’apprendimento e gli altri, vanificati da quattro righe che schiacciano la tecnologia nell’angolo di un piano didattico personalizzato. E rapidamente si tornerà alla situazione per la quale chi ne ha indispensabile bisogno se ne priverà, per evitare lo stigma dell’imbarazzo di essere i soli con un dispositivo in mano.
Quello che mi mortifica come professionista è che un Ministro abbia prima espressamente violato la libertà di insegnamento, per poi attribuire gli insegnanti al ruolo di babysitter quando scrive che “potranno essere utilizzati, per fini didattici, altri dispositivi digitali, quali pc e tablet, sotto la guida dei docenti”. Quindi, riassumendo, per un uso didattico dello smartphone la mia capacità di guida è inaffidabile e mi viene sottratta, mentre vengo abilitata alla sorveglianza sull’uso degli altri dispositivi. A scuola ci sono altri usi, se non quello didattico, delle tecnologie digitali? E la didattica non è forse diritto/dovere dell’insegnante?
Questo è il clima nel quale si inserisce l’appello dei pedagogisti.
I rischi di delegare ad una legge le scelte educative
Alberto Pellai, tra i promotori dell’iniziativa, a maggio del 2024 scriveva sull’Avvenire: “Ecco perché dovremmo essere coerenti con quello che ci dicono le neuroscienze nel favorire il ritardo dell’uso della tecnologia, che a scuola dovrebbe comparire solo come strumento usato dai docenti per arricchire e integrare i contenuti della propria lezione. Al tempo stesso, il docente non dovrebbe prevederla, prima dei 15 anni, per un uso autonomo dello studente, nel corso dei compiti pomeridiani”. Smartphone vietato quindi anche a casa, dove forse si immagina che siano i genitori a sorvegliarne l’utilizzo.
Lo smartphone è lecito usarlo, ma solo per arricchire la mia lezione. Insomma, io dovrei insegnare ad andare in bicicletta, ma senza farci salire mai nessuno per paura che possa cadere e farsi male? E soprattutto dovrei vietare di andarci, tanto da rendere questa attività così desiderabile proprio perché proibita e quindi rischiosamente praticabile solo di nascosto, lontano da qualsiasi possibilità di accompagnamento? È questa la direzione che, come società civile, vogliamo intraprendere, cioè delegare ad una legge le scelte educative per questa generazione e quelle che verranno? Rendere l’uso delle tecnologie digitali un’attività clandestina, segreta, lontana da ogni spazio di dialogo e condivisione è la strategia migliore per avere la certezza che ogni adolescente del pianeta farà a gara per avere uno smartphone in mano e lo userà senza consapevolezza. Non avremo alcuna certezza però che ci sarà qualcuno a cui chiedere, se avesse delle domande, e soprattutto non gli sarà possibile sperimentare in un contesto sociale educativo, nel quale praticare l’uso e il non uso, vagliare i limiti e le possibilità, conoscere luoghi dove sviluppare nuove competenze e farlo insieme ai suoi pari. Senza questa guida sapiente e accogliente, farà solo ciò che saprà e potrà in quel momento. Mi sembra quasi argomento da romanzo distopico, in una società che nella sua trasformazione potrebbe evocare le atmosfere del “Paese Nero” di Stefano Garzaro (Garzaro, 2021) o quelle di una Terra popolata solo da adolescenti della saga “Berlin” di Fabio Geda (Geda, 2015).
Le (troppe) indicazioni delle neuroscienze educative che vengono puntualmente ignorate
Vengono tirate in ballo le neuroscienze educative, ma ci sarebbe anche molto altro da dire allora: far rispettare i tempi di attenzione dei bambini in aula, promuovere didattiche attive e rispettose del bisogno neurofisiologico di muoversi di ciascuno, molto più di quanto sia oggi possibile durante le attività scolastiche, curare una dimensione dell’apprendimento centrata sulla personalizzazione e non sulla ripetizione. Queste indicazioni delle neuroscienze ahimè, seppure evidenza di ricerca, non interessano i promotori dell’iniziativa, tanto che riferendosi agli insegnanti parlano di lezione da arricchire e non di esperienza di apprendimento a cui la classe potrebbe partecipare.
Credo che abbandonare i terreni più impervi e faticosi dell’educazione, proprio nel momento in cui la presenza di adulti competenti e intenzionalmente orientati al benessere della comunità è necessaria, sia alquanto deprecabile: come ho avuto modo di comunicare durante una puntata del programma Fahrenheit al quale sono intervenuti anche il dottor Pellai e il Prof. Federico Batini (promotore di ricerche sulla lettura ad alta voce condivisa, da più di dodici anni, che hanno coinvolto più di ventimila insegnanti), che non intendo abdicare al mio ruolo e cedere alla tentazione di vietare, invece di educare ad un uso critico delle tecnologie digitali.
Smartphone, lettura, videogiochi, social: quanta confusione
Tra le affermazioni del pedagogista Pellai ne segnalo almeno due che mi hanno turbato. La prima è l’idea che la lettura e le attività in rete richiedano un “bassissimo ingaggio cognitivo”, mentre è esattamente il contrario (leggete i materiali del progetto Emile, citato in fondo a questo articolo). La seconda è contenuta nella frase “tutti noi ci accorgiamo che i nostri figli maschi avendo in casa una consolle di videogiochi, pur essendo stati grandi lettori alla scuola primaria, faticano tantissimo a rimanere attaccati alla passione della lettura”, che contiene due pregiudizi: il primo è che siano solo i maschi a giocare ai videogiochi; il secondo è che la scarsa passione per la lettura dipenda direttamente dall’uso degli smartphone o delle tecnologie. Non ci sono evidenze scientifiche su correlazioni tra l’uso dello smartphone e la lettura: a leggere meno in Italia sono gli adulti, mentre i lettori più forti hanno tra gli undici e i quattordici anni (ultimi dati disponibili in merito sono quelli Istat 2022: è il 54.7% della popolazione in questa fascia d’età a leggere almeno un libro l’anno), come ha giustamente ricordato Federico Batini. Certi luoghi comuni sono giustificati in bocca ai non esperti, mentre si chiacchera aspettando l’autobus, ma suonano imbarazzanti se a pronunciarle sono dei professionisti del mondo dell’educazione.
Ogni educatore sa che la rapidità dei divieti si paga con la moneta della dipendenza: i ragazzi crescono pensando che non ci sarà bisogno di pensare troppo perché qualcuno dirà loro che cosa fare o non fare, che cosa sia giusto o sbagliato. Non credo sia questa la chiave per aiutarli a sviluppare quella motivazione intrinseca e quella autoregolazione, che sono indispensabili per supportare la crescita di individui autonomi (Di Donato, 2023, 2024).
In ogni intervento pubblico di chi promuove questa iniziativa ad un certo punto avviene sempre un corto circuito: smartphone e social diventano la stessa cosa. Il male assoluto, senza spazi di luce, si identifica nell’oggetto, nella rete e negli spazi sociali pubblici che la rete propone.
Uso solitario e dipendenza da smartphone; i rischi
Si ritiene lecito un uso passivo della tecnologia a scuola, dove è solo l’insegnante ad usarla secondo un uso definito “strumentale” rispetto ad una pratica attiva di studentesse a studenti, che esercitano la capacità di costruire e condividere artefatti e processi in ambienti digitali e umani, accompagnati da docenti competenti e da compagne e compagni di lavoro.
È invece proprio questo l’uso che viene consigliato dalla ricerca educativa e dalla New Literacy (Gee, 2013), che riguarda la capacità di comprendere, interpretare, creare e valutare i contenuti multimediali in una varietà di formati, inclusi testi scritti, immagini, video, suoni e contenuti interattivi: un uso attivo, creativo e consapevole da parte di ragazze e ragazzi, bambine e bambini.
Lo smartphone è un oggetto, che diventa ambiente nel momento in cui si compiono delle azioni che sviluppano un cambiamento, che permane anche dopo che l’uso si è concluso.
Lo sforzo della scuola di questi ultimi anni, almeno dal 2015, è stato quello di farlo diventare un potenziale ambiente di apprendimento, cioè un luogo nel quale si continua ad imparare o si consolida ciò che si è scoperto, anche dopo l’interruzione dell’uso a scuola.
La tecnologia non è da sola responsabile indipendente di cambiamento sociale, come sosteneva Dave Buckingham, a cui dobbiamo uno dei primi manifesti della Media Education (Buckingham, 2020): ci vuole ben altro per mantenere la promessa di un cambiamento dovuto solo e semplicemente al possesso di una tecnologia (Metastasio, 2021).
La compromissione del controllo degli impulsi (cliccare, rispondere in una chat, pubblicare immagini compulsivamente), che può portare alla dipendenza che ci spaventa, è una conseguenza dell’uso solitario, che un ragazzo può fare della rete senza che abbia ricevuto una educazione e senza che abbia potuto rendersi conto dei comportamenti agiti, insomma quando non sia in grado di automonitorarsi per proteggersi, anche quando non ci dovesse essere un genitore o un insegnante accanto a lui. Rischiamo di agire secondo quella Retrotopia temuta dal filosofo Baumann (Retrotopia, 2017), che vedeva nella società la tendenza a vedere con bonario ottimismo il passato, che abbiamo alle spalle, invece di guardare con coraggio e meno paure al futuro sebbene incerto. Non vi ricordate, voi boomer come me, di quanto facesse paura la nostra eccessiva esposizione alla televisione negli anni Ottanta?
Scegliere la strada della mediazione, anche se è la più impegnativa
La strada più impegnativa è quella della mediazione, cioè di un dialogo e un confronto costante e coerente innanzitutto tra genitori e figli, per concordare le prassi legate all’uso dei dispositivi digitali; dell’esempio, cioè dimostrare come si fa, invece di censurare e basta, ed evitare di comportarsi come lo “scrutatore non votante” della canzone di Samuele Bersani che “Prepara un viaggio, ma non parte; pulisce casa, ma non ospita; lo fa svenire un po’ di sangue, ma poi è per la sedia elettrica” (Bersani, 2006). Forse sfugge la straordinaria capacità compensativa ed inclusiva degli smartphone, per tutte le persone che abbiano delle difficoltà nella comunicazione, nella scrittura, nella condivisione e nell’organizzazione degli apprendimenti o l’uso abilitante per tutte le nostre studentesse e studenti migranti o ancora in corso di acquisizione della lingua italiana.
Disegnare, scrivere, guardare filmati e ascoltare podcast oppure creare tutti questi contenuti con semplicità, grazie ad un design funzionale e accattivante e alle incredibili opportunità della rete, sono azioni educative che perderemmo come occasione di crescita. Vanno cercati nuovi e sensati paradigmi educativi per insegnare la distinzione tra intrattenimento e apprendimento, affiancando esperienze di scoperta ed esplorazione collaborativa soprattutto in famiglia e a scuola, evitando di adoperare lo smartphone come un ciuccio digitale, utile per distrarre un bambino capriccioso al ristorante o per pagare senza fastidi il conto al supermercato.
Mentre noi stiamo qui a discutere di smartphone sì smartphone no, i nostri figli e le nostre studentesse parlano con una AI, per conoscere meglio se stessi creano un proprio avatar con la loro voce, usano ChatGPT per farsi fare i compiti, Dall-E per modificare delle foto e passare del tempo lontano dalla noia o per sapere se domani pioverà. La scuola e la famiglia avrebbero il compito di permettere quelle esperienze sociali, faccia a faccia, di scoperta ed esplorazione del mondo, che sono indispensabili nel processo di crescita, ma anche di sviluppare un atteggiamento di autosorveglianza sulle attività che si fanno, a prescindere da che cosa si faccia. Offrire un impianto di valori, che orientino e promuovano una alfabetizzazione all’uso dei media fin dall’infanzia sono la frontiera sfidante che dovrebbe appassionarci.
Le tappe da attraversare per introdurre gli schermi nella vita dei bambini
Che fosse l’accompagnamento la chiave di interpretazione del rapporto tra educazione e media, ce lo aveva detto l’OCSE e anche lo psichiatra e psicologo Serge Tisseron, che con la sua formula 3-6-9-12 ci ha mostrato le tappe da attraversare per introdurre gli schermi nella vita dei bambini e gestire qualcosa che non avevamo previsto esistesse, ma che ora c’è. Anche lui non approvava l’idea del divieto, pur comprendendo il problema sociale, ma proponeva invece la riscoperta di legami sociali e la capacità degli adulti di associare sempre l’uso delle tecnologie e progetti creativi e socializzanti (Tisseron, 2015).
Le iniziative di alleanza educativa che accompagnano all’uso delle tecnologie
Ci sono diverse iniziative di ricerca, di offerta di alleanza educativa, di seria divulgazione, che hanno adottato uno stile simile e che puntano a raggiungere questi obiettivi. Ve ne cito almeno quattro:
- Il progetto Emile (Empowering schools in self-regulation of Media and Information Literacy processes), (ndr: inserire il link alla pagina: https://www.emile.unifi.it/ ), che mira ad ampliare la portata dell’alfabetizzazione mediatica fornendo uno sviluppo professionale interdisciplinare per supportare la competenza degli insegnanti nell’alfabetizzazione mediatica. Si supportano gli insegnanti perché abbiano le competenze adatte a sviluppare percorsi efficaci di Media Literacy. Troverete attività che indagano la percezione di autoefficacia nelle attività di lettura su carta e digitale dei bambini, ma anche un’indagine sulle competenze di alfabetizzazione mediatica degli adolescenti e di come soluzioni gamificate possano potenziare le loro capacità cognitive (All’interno dei materiali troverete anche gli esiti di più ricerche che confermano che l’ingaggio cognitivo della lettura su schermo è più alto di quello su carta, differentemente da quanto affermato da Pellai a proposito della lettura).
- Il progetto “Un patentino per lo smartphone” è finalizzato all’uso consapevole dello smartphone e alla prevenzione dei rischi di un uso inadeguato, in particolare collegati al cyberbullismo. È promosso dall’ Ufficio Scolastico Regionale del Piemonte, dall’assessorato alla Sanità della Regione Piemonte, da Arpa Piemonte e in collaborazione con il Centro Operativo per la Sicurezza Cibernetica Polizia Postale e delle Comunicazioni Piemonte-Valle d’Aosta. Il progetto “Patentino” rappresenta un esempio importante di alleanza tra istituzioni della “Comunità educante”, realizzato all’interno delle attività curricolari della scuola e orientato a favorire lo sviluppo di life skills (abilità di vita), utili per prepararsi ad affrontare le sfide della vita.
- La pagina Facebook “Mamamo. It. Crescere con i nuovi media. Buone prassi di educazione digitale per bambini e ragazzi” nasce da Mamamò (un’associazione culturale creata da Roberta Franceschetti ed Elisa Salamini), in cui si promuove l’educazione digitale di adulti e ragazzi per creare maggiore consapevolezza nell’uso della rete, sviluppare la creatività digitale e promuovere contenuti digitali di qualità. Si rivolge a genitori, insegnanti, educatori, biblioteche, imprese ed enti pubblici, attraverso progetti dentro e fuori dalla rete. I toni di questa pagina social mantengono una certa sobrietà, sono moderati e mai aggressivi: si cerca un confronto serio su temi che interessano tutte le persone iscritte. Si offre un buon esempio di uso degli ambienti di confronto online.
- Il libro “Addomesticare gli schermi. Il digitale a misura dell’infanzia 0-6” (Marangi, 2023) è, secondo me, una tappa documentale significativa di quel percorso di conoscenza e divulgazione sul tema media e infanzia, che porta dritto alla New Literacy (Rivoltella, 2020) e partito più di dieci anni fa col libro di Tisseron (le altre due tappe che ho immaginato le trovate in bibliografia). Occorrerebbe, in effetti, seguire una strada di ricerca e confronto, per avere un’idea aggiornata e pedagogicamente coerente di che cosa significhi oggi la dimensione dell’Onlife, anche per i bambini di questa seppur ampia e sensibile fascia di età, per le loro famiglie e per la scuola.
Non dobbiamo scegliere tra proteggere/prevenire e insegnare/educare: se ci cristallizziamo su questa polarizzazione abbiamo già perso. In ambito educativo, i divieti di solito spengono ogni prospettiva di soluzione e mortificano sia chi li esercita che chi li subisce, mentre noi a scuola educhiamo alla ricerca, alla consapevolezza e alla responsabilità, in un mondo complesso e denso di sfide che ancora non conosciamo, ma che vogliamo assolutamente esplorare insieme alle nostre studentesse e ai nostri studenti e, laddove possibile, anche insieme ai nostri figli. Tirarsi indietro sarebbe una sconfitta e si sa, chi si astiene dalla lotta.
Bibliografia
Baumann, Z. (2017). Retrotopia. Editori Laterza
Buckingham, D. (2015). Un manifesto per la Media Education. Mondadori.
Di Donato, D. (2024). L’uso delle tecnologie didattiche digitali a scuola. Due esplorazioni nella formazione e nella didattica. In Benvenuto, G. & Livi, S. (Eds). Scuola, formazione e dimensioni del benessere. Ricerche psico-pedagogiche. Sapienza Università Editrice.
Di Donato, D. (2023). Oltre il digitale. La formazione dei docenti tra strumenti e pratiche. In Relazioni, Il mondo come aula (03). Luca Sossella Editore.
Di Donato, D. (2024). Vietare gli smartphone a scuola è dannoso: ecco perché. In Agenda Digitale.eu https://www.agendadigitale.eu/scuola-digitale/la-vita-digitale-passa-dallo-smartphone-ecco-perche-e-controproducente-vietarli-a-scuola/
Garzaro, S. (2021). Il Paese nero. Piemme.
Gee, J. P. (2013). Come un videogioco. Insegnare e apprendere nella scuola digitale. Raffaello Cortina Editore.
Geda, F. (2015). Berlin, I fuochi di Tegel. Mondadori.
Di Bari, C. & Mariani, A. (2018). Media Education 0-6. Le tecnologie digitali nella prima infanzia tra critica e creatività. Editoriale Anicia.
Metastasio, R. (2021). La media education nella prima infanzia (0-6). Percorsi, pratiche e prospettive. FrancoAngeli.
Rivoltella, P. (2020). Nuovi alfabeti. Educazione e culture nella società post mediale. Scholè.
Tisseron, S. (2016). 3-6-9-12. Diventare grandi all’epoca degli schermi digitali. Editrice La Scuola.