La relazione del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir) a proposito delle tecnologie 5G e del ruolo delle aziende cinesi pone la politica di fronte all’urgenza di ricominciare a occuparsi più della sicurezza degli apparati che al loro prezzo. E, soprattutto, potrebbe essere l’occasione – probabilmente l’ultima che abbiamo – per aprire un dossier Italtel, chiedere a CDP di entrare nel capitale ed eventualmente costruire una serie di accordi e joint ventures con partner industriali che siano disposti a fornire know-how per partecipare agli utili, e avere così una azienda nazionale che possa rispondere meglio alle esigenze del 5G del nostro paese controllando ogni fase dell’ingegnerizzazione e della produzione.
Non so se ormai è troppo tardi ma meriterebbe una riflessione attenta, soprattutto perché, leggendo la relazione del Copasir ciò che mi ha colpito di più è un passaggio sulla Germania: “La Germania, nel dicembre 2018, ha adottato misure di protezione dell’economia attraverso l’implementazione, a cura della comunità intelligence e delle forze di polizia, di due progetti connessi con il sistema di monitoraggio degli investimenti esteri. Il primo progetto, denominato «Iniziativa per la protezione del business», è coordinato dal Ministero dell’interno, mentre il secondo, coordinato dal Ministero dell’economia, è dedicato allo screening degli investimenti diretti esteri. Sono state inoltre assunte iniziative per modificare la normativa interna, al fine di abbassare la quota, fissata al 25 per cento, di acquisizioni dall’estero di società che operano in settori strategici.”. L’approccio tedesco, a differenza del nostro, non è solo indirizzato al controllo della sicurezza degli apparati ma mira al controllo degli investimenti esteri nei settori strategici.
L’approccio del Governo italiano
L’approccio del nostro governo è volto a rafforzare giustamente il sistema di valutazione delle tecnologie attraverso il decreto del Ministero dello Sviluppo Economico del 15 febbraio 2019 che istituisce il Centro di valutazione e certificazione nazionale (CVCN), presso l’Istituto superiore delle comunicazioni e delle tecnologie dell’informazione ma basta un maggior controllo degli apparati dei fornitori? E chi ci assicura che negli aggiornamenti o nelle patch di sicurezza non si annidino pericolosi buchi di sicurezza? E essere uno tra i principali paesi industrializzati e non avere una presenza nei settori più strategici dell’economia non mina la nostra sicurezza nazionale e il nostro benessere?
Se avessimo aziende nazionali in grado di fornire apparati e tecnologie sui settori strategici avremmo un’arma ben più importante e sicura. In realtà le avremmo pure, non ci mancano le competenze nei settori delle telecomunicazioni.
I nostri partner europei, a partire da Francia e Germania, in modo diretto o indiretto sono presenti nei grandi gruppi industriali per sostenerne la crescita e la solidità finanziaria e per renderli capaci di raccogliere quanto viene prodotto dal sistema della ricerca e dall’università trasformandolo in industria e lavoro. Parliamo di Alcatel, Siemens, Ericcsson, Nokia. Aziende ormai messe in difficoltà dalla pervasività cinese e coreana ma che continuano ad operare. Certo se pensiamo che all’epoca del GSM l’Europa era leader mondiale e oggi siamo un mercato invaso da tecnologie straniere dovremmo farci delle domande su come l’Europa affronta il tema delle tecnologie.
L’Italia e la (scarsa) valorizzazione delle sue eccellenze
Mentre negli anni scorsi la CDP entrava nel settore degli hotel abbiamo ceduto AnsaldoBreda ad Hitachi o Ansaldo STS (leader mondiale nel digitale nel settore treni) sempre da Hitachi, come abbiamo ceduto Magneti Marelli sempre ai giapponesi. La nostra capacità strategica industriale nei settori innovativi è venuta sempre meno e oggi compriamo da aziende estere ciò che prima producevamo direttamente (spesso continuiamo a produrre in Italia perché abbiamo ancora competenze di eccellenza a dimostrazione che il deficit è di imprenditorialità, finanziario o talvolta di management).
Le piccole e medie aziende italiane spesso sono punte di eccellenza su settori specifici ad alto valore aggiunto ma da sole non reggono la competizione internazionale e diventano troppo spesso preda di aziende estere più grandi.
Il settore delle telecomunicazioni italiano ha visto negli anni scorsi e ancora oggi la progressiva uscita di importanti player che qui avevano centri di ricerca e produzione. Dalla Alcatel, alla Ericcsson, alla Motorola mobile. Migliaia di posti di lavoro in meno e in particolare ricercatori, professionalità elevate, ingegneri. Questo mentre la ricerca e le università italiane continuano a posizionarsi nei primi posti al mondo nel settore delle telecomunicazioni.
Il “caso” Italtel
Italtel rappresenta una delle ultime aziende italiane con una forte storia e una grande capacità sul mondo delle telecomunicazioni. Sarebbe stato più utile trasformarla in un polo nazionale ad intervento pubblico e invece abbiamo lasciato che fosse acquisita da una azienda più piccola di lei (Exprivia) senza la capacità finanziaria e il respiro internazionale necessario a farle fare il balzo e trasformarla in un polo nazionale che possa consolidare le sue partnership internazionali (a cominciare CISCO leader mondiale delle reti) ed entrare in settori delle telecomunicazioni affini a quelli attuali come le infrastrutture mobili.
Certo allo stato attuale Italtel non avrebbe potuto competere con i giganti mondiali ma avrebbe potuto stabilire delle joint venture e degli accordi per costruire prodotti propri, sviluppare il software e gli apparati e questo ci avrebbe garantito sia la possibilità di incrementare il know-how nazionale ma soprattutto di disporre del controllo necessario ad utilizzare apparati, almeno nelle reti più core, sicuri e affidabili. Per fare questo sarebbe stato utile che il pubblico (attraverso la CDP o i suoi fondi strategici) avesse preso il controllo di Italtel, rafforzando le sue capacità finanziarie e dando respiro e forza alla sua capacità di produrre e vendere.
Italtel è anche molto presente nel meridione, avrebbe potuto essere leva di sviluppo intercettando le competenze presenti in Campania, Sicilia, Puglia e Calabria (oltre quanto già presente nel nord) consentendo al governo di promuovere interventi in quelle aree dove aziende estere evitano di arrivare.
Il carattere strategico del settore e di una azienda di questo tipo appare ancora più evidente con le raccomandazioni del COPASIR se non bastasse l’esigenza vitale per il nostro paese di farsi varco nel mondo delle nuove tecnologie. Sulla falsariga dei tedeschi avremmo potuto proteggere il nostro modello di business e la nostra sicurezza e invece rischiamo che non abbia capacità finanziaria di reggere lo stretto passaggio del mercato attuale.
Perché serve una politica pubblica industriale nel settore
È sempre più necessaria una politica industriale di settore che veda l’intervento diretto del governo, sul modello degli altri paesi europei che hanno partecipazioni rilevanti nell’industria dell’auto o in altri settori ad elevata tecnologia dove si giocheranno le sfide del domani. Italtel potrebbe essere la prima occasione di intervento in tal senso facciamo ancora in tempo.
I fondi spesi in startup o parchi scientifici e tecnologici degli ultimi venti anni non hanno ancora prodotto nessun effetto nel posizionamento strategico del nostro paese sull’innovazione, né in termini di PIL, né in posti di lavoro, né in tecnologia eppure non ci mancano le competenze che nel frattempo fuggono all’estero.
Per fare questo sono necessari investimenti ingenti e tempi non compatibili con la finanziarizzazione del mercato, i ritorni sono necessariamente differiti in tempi troppo lunghi per essere presi in considerazione da banche o fondi internazionali.
Il rischio di non intervenire su Italtel, in ultima analisi, è quello di disperdere un patrimonio ingente di conoscenza e un brand spendibile sul mercato svuotandolo progressivamente di brevetti, know-how, capacità di progettare e produrre in Italia. Il danno per il Paese sarebbe incalcolabile.