La Corte di Cassazione si è espressa sulla tematica dell’acquisizione dei tabulati telefonici in seguito alla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea che ha sancito un principio molto chiaro: i tabulati possono essere acquisiti solo dopo un vaglio giurisdizionale (o indipendente). Secondo la Cassazione, però, serve un intervento del legislatore. Vediamo perché questa sentenza non è un punto fermo della materia.
Tabulati telefonici, il nodo dell’acquisizione e le diverse visioni nei tribunali italiani: i casi
Corte di Giustizia europea e Tribunali: il percorso che ha portato alla sentenza della Cassazione
Nell’ordinamento italiano i tabulati telefonici vengono acquisiti, in sede di indagini preliminari, su richiesta della polizia giudiziaria, con decreto del pubblico ministero.
Il 2 marzo 2021, però, la Corte di Giustizia dell’Unione europea (CGUE) ha affermato che deve essere un’autorità giurisdizionale o un’autorità indipendente il soggetto che dispone l’acquisizione dei tabulati.
Fino al 2014 la Corte UE aveva affermato che la valutazione, nei singoli Stati membri, poteva essere di diverso tipo, perché non c’era normativa dell’Unione in materia.
L’entrata in vigore del GDPR (Reg. UE 16/679) e della scadenza del termine per il recepimento della Direttiva UE 16/680 ha, però, cambiato il quadro normativo in termini copernicani.
Questo mutato quadro normativo ha portato la Corte di Giustizia ad affermare la necessaria indipendenza dell’organo che autorizza l’acquisizione dei tabulati telefonici.
Nel nostro ordinamento si è registrato un fortissimo dibattito, tra dottrina e giurisprudenza, su quale procedura debba essere adottata in seguito alla sentenza della Corte di Giustizia.
Secondo il Gip di Roma, che si era pronunciato nell’aprile 2021, sarebbe opportuno utilizzare la procedura di autorizzazione delle intercettazioni telefoniche, procedura simile a quella richiesta dalla Corte di Giustizia.
Nel maggio scorso il Tribunale di Rieti ha proposto la questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia europea, affermando – onestamente – che l’applicabilità diretta della sentenza determinerebbe serie difficoltà in via di prassi.
Per il Gip di Tivoli, invece, non sarebbe possibile dare diretta applicazione alla sentenza delle Corte Ue, per la genericità dei principi espressi e per le peculiarità del nostro ordinamento.
Secondo la Corte d’Assise di Napoli, ancora, «la disciplina italiana di conservazione dei dati di cui all’art. 132 d. lgs. 196/2003 deve ritenersi compatibile con le direttive in tema di privacy, e ciò poiché la deroga stabilita dalla norma alla riservatezza delle comunicazioni è prevista dall’art. 132 cit. per un periodo di tempo limitato, ha come esclusivo obiettivo l’accertamento e la repressione dei reati ed è subordinata alla emissione di un provvedimento di una autorità giurisdizionale indipendente (come è in Italia il PM)».
In parole povere, il Gip di Roma ha aperto un filone molto garantista: seguirlo, tuttavia, determinerebbe seri squilibri di sistema.
Il Tribunale di Rieti ha seguito una procedura prudente, evidenziando l’unico dato che interessa alle procure della Repubblica: la sostenibilità del sistema in termini strettamente operativi.
Tribunale di Tivoli e Corte di Assise di Napoli, infine, hanno adottato provvedimenti piuttosto “deboli” in diritto, con la manifesta finalità di non pregiudicare i risultati di indagini e di processi in corso.
La Cassazione depositata il 7 settembre 2021
La Corte di Cassazione ha, sostanzialmente, recepito le argomentazioni della Corte d’Assise di Napoli e del tribunale di Tivoli, affermando che non si possa dare applicazione diretta ai principi espressi dalla Corte di Giustizia e sostenendo quasi, implicitamente, che detta sentenza non dovrebbe essere nemmeno mai “applicata”.
Alcune osservazioni sono, però, d’obbligo.
In primo luogo, la sentenza è stata resa nel contesto di un ricorso cautelare; per intenderci, un ricorso che avrebbe determinato l’immediata scarcerazione di soggetti sottoposti a misura cautelare (in carcere) per reati di associazione a delinquere.
Storicamente, tutte le pronunce più retrograde, in termini di interpretazione giuridica in materia di intercettazioni, si rinvengono nella casistica delle sentenze in materia cautelare con riferimento a reati di criminalità organizzata.
In altri termini, quando si parla di custodia cautelare in carcere, la Cassazione non va molto per il sottile, arrivando, anche, a risultati contraddittori nel contesto dello stesso procedimento penale, ma in fasi diverse.
In conclusione, la sentenza del luglio 2021, depositata il 7 settembre scorso è, di fatto, interlocutoria.
Conclusioni
Sullo sfondo della questione restano alcuni “malintesi”, che si collocano dal contesto giurisprudenziale, a quello politico e sociale.
Il pubblico ministero, ossia l’autorità giudiziaria, è un soggetto pubblico con funzioni pubblicistiche, ma non è un soggetto “terzo” nel procedimento penale: è una parte a tutti gli effetti.
Il fatto che fino ad oggi le procure della Repubblica potessero acquisire i tabulati telefonici senza autorizzazione giurisdizionale, spesso assecondando le esigenze investigative della polizia giudiziaria, è un “privilegio” difficile da “revocare”, anche per il legislatore.
Ancora più difficile se, come accade in Italia, il sistema organizzativo non è in grado di gestire un novum normativo determinato da una sentenza e non da una norma di legge.
Va dato atto che nel sistema penale italiano la cultura della protezione dei dati non è particolarmente sviluppata: basti pensare che l’utilizzo del trojan horse è ai primi posti nel mondo ed è stato necessario il famoso “caso Palamara” perché si facesse luce sull’utilizzo, spesso distorto, dello strumento captativo.
Il potere quasi politico delle procure della Repubblica determina, poi, storture anche nella lettura delle normative.
Resta però un dato di fondo: c’è un Giudice a Bruxelles e le normative europee in termini di data retention e data protection sono realtà.