I colossi del web (Google, Apple, Facebook, Amazon – GAFA) sono contemporaneamente sotto accusa su entrambe le sponde dell’Atlantico. Ma l’esito potrebbe essere molto diverso: anche negli Stati Uniti, nonostante il nuovo presidente, molti osservatori pensano che farà più strada e, per i giganti del web, creerà più problemi l’iniziativa europea.
C’è, inoltre, in questa battaglia, anche un terzo incomodo: una Cina che, sia pure in modo contrastato al proprio interno, pone la sfida ad un livello più alto: non di freno e tassazione dei servizi digitali, ma di nuove opportunità-
Vediamo perché, esaminando i tre diversi approcci alla lotta allo strapotere dei giganti del web.
L’impostazione antitrust negli Usa
A luglio il Congresso Usa ha interrogato i CEO di GAFA ponendo questioni rilevanti sulle loro pratiche anticoncorrenziali.
Il Rapporto del Comitato Antitrust del Congresso[1], pubblicato un mese fa, punta il dito sulle pratiche delle aziende che, essendo enormemente cresciute, da innovatori che sfidavano i leader del mercato si sono trasformate in detentori di potere monopolistico “simile a quello dell’era dei baroni del petrolio e dei magnati delle ferrovie”. Da qui la necessità di giungere ad una ridefinizione della regolazione antitrust. Una conclusione altisonante, ma con misure difficili da realizzare nell’immediato:
- rivitalizzando la dottrina delle infrastrutture essenziali, che impone l’accesso non discriminatorio alle aziende concorrenti;
- disintegrando verticalmente le grandi piattaforme, per separare le diverse linee di business;
- impedendo le pratiche discriminatorie delle piattaforme che tendono ad accordare la preferenza ai propri servizi;
- estendendo la comunicazione preventiva alla Agenzie federali antitrust da parte dell’azienda dominante che effettua una acquisizione.
Il Rapporto richiama esplicitamente l’impostazione del Giudice della Corte Suprema Louis Brandeis, che vedeva il contrasto al monopolio come una scelta: “possiamo avere la democrazia, oppure possiamo avere la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non possiamo avere entrambe le cose”.
Nuovo vigore antitrust viene invocato da una scuola di pensiero che negli Stati Uniti si richiama a quel giudice protagonista della lotta alle concentrazioni di potere di mercato. È probabile che questa linea prenda il sopravvento con l’elezione di Biden: potrebbe essere una delle concessioni che il nuovo Presidente dovrà fare all’ala sinistra dei democratici. Ala sinistra in cui si annidano coloro che vorrebbero spaccare le aziende GAFA (o GAFAM se si include Microsoft) per ridurne la dimensione, (si veda lo spacchettamento di AT&T nel 1982), come la senatrice Elizabeth Warren, democratica del Massachussets, che propone di spezzare in diverse parti i giganti tecnologici.
Eppure, anche recentemente, i democratici avevano applaudito la sconfitta davanti al giudice del Dipartimento di Giustizia del tentativo di bloccare l’acquisizione di Time Warner da parte di AT&T, una acquisizione volta a creare un conglomerato che, facendo leva sulla rete TLC e sui contenuti, sarà in grado di offrire una alternativa al predominio di Amazon e Netflix.
Ma qui forse il giudizio dei democratici era sviato dal fatto che Trump voleva impedire la fusione, per il solo fatto che Time Warner controlla l’odiata CNN: a volte la destra trumpiana si incontra, a propria insaputa, con la sinistra democratica.
L’impostazione dell’azione antitrust negli USA è ancor oggi basata sulla posizione netta del giudice Robert Borck, della Scuola di Chicago, il quale arguiva con successo che le fusioni sono da evitare solo se configurano una perdita di benessere del consumatore.
In Europa, dove la legislazione antitrust viene quasi un secolo dopo quella americana, l’impostazione prevalente è che le fusioni sono da evitare se si crea o rafforza una posizione dominante.
Rimane la differenza fondamentale tra i due ordinamenti: negli USA le decisioni del Dipartimento di Giustizia sono soggette alla giurisdizione ordinaria, mentre in Europa le decisioni e le norme della Commissione hanno carattere preminente sulla giurisdizione nazionale[2].
Ma ora, sui due lati dell’Atlantico, entrambe le autorità di controllo si confrontano con i giganti del web. E c’è anche la Cina che, come dicevamo, pone la sfida ad un livello più alto.
Con quale esito?
Jack Ma (Alibaba): “Il mondo aspetta un nuovo sistema finanziario progettato per il futuro”
La Ue apre il fronte diritti di proprietà sui big data
Margrethe Vestager, vicepresidente della Commissione con delega alla concorrenza, ha avviato una azione analoga contro i giganti del web. Ha seguito con attenzione l’esito dell’indagine americana, e ha posto l’attenzione sul tema della riduzione dello spazio competitivo, determinata dalla posizione dominante dei giganti del web e dalla loro evidente capacità di competere in posizione di vantaggio con i loro stessi clienti.
“Molti venditori investono pesantemente per identificare prodotti di interesse e portarli al consumatore, prendendo rischi quando investono in nuovi prodotti e quando scelgono un determinato prezzo. Amazon può evitare alcuni di questi rischi usando i dati dei venditori terzisti per prendere le sue decisioni… in alcune categorie dei prodotti più diffusi, Amazon quota solo il 10% dei prodotti con proprio marchio, ma fa il 50% delle vendite di quella categoria. Siamo giunti alla conclusione preliminare che l’uso di quei dati consente ad Amazon di focalizzarsi sulla vendita dei prodotti che vendono meglio. Ciò marginalizza io venditori-terze parti e pone un freno alla loro capacità di crescere”[3].
Vestager, quindi, sostiene l’abuso di posizione dominante sulla base della appropriazione, da parte di Amazon, dei dati relativi alle vendite dei propri clienti: il tema dell’uso dei big data senza riconoscere alcunché al cliente, anzi deprivandolo di potenzialità di mercato attraverso l’uso dei suoi stessi dati.
Inoltre, avvia una indagine sulla prassi di Amazon di dare priorità, nel suo Buy Box rapido, ai propri prodotti e a quelli che utilizzano la sua logistica.
Margrethe Vestager si muove con decisione, ma anche con cautela e astuzia. Apre un fronte limitato di scontro, ma nuovo, quello dei diritti di proprietà sui big data. Si tratta di una questione dibattuta, ma che troviamo alla radice delle scelte della Commissione europea in materia di tassazione dei servizi digitali (digital tax), dove si insiste sulla creazione di valore attraverso l’appropriazione dei dati degli utenti (e quindi nel mercato dove vengono erogati i servizi).
È questo che preoccupa di più GAFA: se Vestager riuscisse a coordinare l’iniziativa sulla tassazione con quella della regolazione dei servizi digitali, che ha annunciato, creerebbe un precedente a livello mondiale da cui molti altri paesi potrebbero trarre ispirazione, riducendo in modo significativo, sia dal lato fiscale, sia dal lato regolatorio, io gradi di libertà dei colossi del web.
Lungi dal dare corda alle richieste massimaliste in stile Elizabeth Warren, e lontana anche dalle raccomandazioni altisonanti del Comitato del Congresso, Vestager non si scaglia contro la dimensione delle aziende né intende proporre di farle a pezzi.
Il suo attacco è lungo le linee tradizionali dell’approccio europeo: l’abuso di posizione dominante e il danno alla concorrenza. La dimensione nuova, semmai, è quella dei big data, ossia il tema della tutela e della valorizzazione dei diritti di proprietà che investe la gigantesca mole di dati di cui, fino ad oggi gratuitamente, si sono appropriati i giganti del web.
La Cina sfida l’approccio “risk adverse” della Ue
Ma, come vedremo, c’è una Cina, non necessariamente quella di Xi Jinping, che preme in una direzione assai più innovativa e che ha le idee precise sul ruolo della regolazione e sfida implicitamente l’approccio “risk adverse” della Commissione europea.
La Cina rappresenta il terzo incomodo, la sua politica è difficile da scrutinare, la sua regolazione in materia di privacy, tutela di dati e soprattutto di concorrenza, ancora agli albori e soggetta ai predominanti interessi del Partito, che ha una presenza irrinunciabile nelle aziende di credito, prevalentemente pubbliche e locali.
I colossi cinesi del web si muovono invece sia sul mercato internazionale sia su quello interno, dove hanno una “riserva di caccia” che il Partito ha costruito con il duplice obiettivo di proteggerne la crescita e di controllarne l’impatto sociopolitico.
Vi è una evidente differenza rispetto alle preoccupazioni europee e americane, che investono essenzialmente i temi della concorrenza e della protezione dei dati, come dimostra il caso in corso relativo alla quotazione di Ant, la fintech di Alibaba.
L’IPO di Ant era prevista il 5 novembre in contemporanea sulle borse di Shanghai e Hong Kong, con target di sottoscrizione di oltre 34 miliardi di dollari, ma l’operazione è stata sospesa su richiesta delle autorità cinesi, con un tonfo nelle quotazioni della casa madre Alibaba, di oltre il 13%.
Jack Ma, il patron di Alibaba, anch’egli come Gates ritiratosi a gestire la fondazione, ma, evidentemente, ancora ascoltato in quanto fondatore del colosso cinese, sapeva che stava correndo rischi importanti: “non c’è innovazione senza rischi a questo mondo” ha detto il 24 ottobre al Bund Finance Summit di Shanghai, in un intervento importante e che riportiamo integralmente in traduzione italiana nel riquadro.
Nel corso degli ultimi anni, aveva visto salire le preoccupazioni delle banche, del governo e del Partito di fronte alla crescita esponenziale delle transazioni di Ant, che nell’anno fiscale conclusosi il 30 giugno ha lavorato con oltre 100 banche, realizzando 250 miliardi di prestiti al consumo e 58 miliardi di prestiti alle piccole imprese.
Ant aveva provato a definirsi una techfin, invece che una fintech, dichiarando che non era in competizione con le tradizionali istituzioni finanziarie, per evitare di disturbare il manovratore.
Ma l’intervento di Jack Ma non lascia adito a dubbi: “La collateralizzazione con mentalità da banco dei pegni non sosterrà lo sviluppo mondiale e le esigenze finanziarie dello sviluppo mondiale nei prossimi 30 anni. Dobbiamo sostituire questa mentalità da banco dei pegni con un sistema basato sul credito ancorato ai big data, utilizzando le capacità tecnologiche di cui disponiamo”.
Questa dichiarazione è forse stata ritenuta una sfida dal Partito, che ha deciso di mettere un colossale bastone tra le ruote della quotazione di Ant.
Ma questa Cina contraddittoria, piegata agli ordini del Partito, è comunque avanti con le sue aziende e con la sua società tecnologicamente avanzata. Questa Cina, non necessariamente quella di Xi Jinping, pone questioni decisive sul tema della regolazione dei giganti del web: si permette di entrare a piedi pari nel mondo della finanza e della moneta, l’area intoccabile delle democrazie occidentali.
Le più avanzate aziende cinesi, libere dai vincoli della tutela della privacy e della protezione dei dati, osano porre il tema della nuova regolazione del web in termini non di freno, di tassazione, di vincoli, ma di apertura di nuove opportunità per i servizi digitali nel cuore stesso della questione centrale per il futuro dopo-pandemia: il finanziamento dello sviluppo.
- Subcommittee on Antitrust, Commercial and Administrative Law of the Committee on the Judiciary, Majority Staff Report and Recommendations, US House of Representatives, 2020, p. 7. ↑
- Renato Nazzini, Antitrust enforcement beyond public and private law, in: Gian Antonio Benacchio e Michele Graziadei (eds), Il declino della distinzione tra diritto pubblico e diritto privato, Atti del IV Congresso nazionale SIRD, Trento 24-26 settembre 2015, Università di Trento, Quaderni della Facoltà di Giurisprudenza, 2016, pp. 142 e 143. ↑
- Margrethe Vestager, Statement by Executive Vice-President on Statement of Objections to Amazon for the use on non-public independent seller data and second investigation into its e-commerce practice, Brussels, 10 november 2020. ↑