La notizia è ormai nota: la Corte di Giustizia dell’Unione europea, lo scorso 5 aprile, ha ribadito ancora una volta che la conservazione generalizzata e indiscriminata dei dati sul traffico telefonico e telematico è incompatibile con la disciplina europea in materia di privacy nelle comunicazioni elettroniche.
E che il pur nobile obiettivo di perseguire reati anche gravi o gravissimi – un omicidio nella vicenda giudiziaria all’origine della decisione – non può giustificare una deroga al principio generale che esige che i dati in questione siano cancellati esaurita la loro funzione principale, di indirizzare la comunicazione, e quella secondaria, di consentire la fatturazione e la gestione delle eventuali contestazioni delle fatture.
Data retention, c’è un limite anche per i reati gravi: bene la Corte di Giustizia UE
Data retention, la situazione in Italia
In Italia, nonostante quattro Sentenze della Corte di Giustizia, cinque con l’ultima arrivata e una sequela ormai difficile persino da contare di segnalazioni al Parlamento e al Governo e di pareri del Garante per la protezione dei dati personali, la disciplina vigente continua a imporre agli operatori telefonici e telematici di conservare i dati in questione in maniera generalizzata e, addirittura, per sei anni.
Sono regole incompatibili con la disciplina europea in materia di privacy nelle comunicazioni elettroniche ma, ancora prima, con gli articoli 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Le ragioni per cambiare la legge sulla data retention
Queste regole ora vanno espunte dal nostro ordinamento con urgenza e senza perdere altro tempo, che, poi, in questo caso, significa senza continuare a violare il diritto alla privacy di milioni di cittadini.
E va fatto per tante ragioni diverse.
La prima è che se non lo facessimo non potremmo criticare quei Paesi i cui Governi non garantiscono abbastanza la privacy delle persone, come, peraltro, sta accadendo in questi mesi nei confronti degli Stati Uniti d’America che la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha giudicato un approdo non sufficientemente sicuro per i dati personali dei cittadini europei proprio in ragione dell’eccessiva intrusività riconosciuta alle agenzie di intelligence.
Il fine giustifica i mezzi?
Come possiamo esigere che gli USA cambino le loro leggi e le adeguino a quelle europee se noi per primi, almeno in Italia, non le rispettiamo?
La seconda è che se non lo facessimo dimostreremmo di credere ancora nel principio – niente affatto democratico e, per fortuna, superato dai tempi – secondo il quale il fine giustifica i mezzi e, dunque, il perseguimento di un obiettivo nobile, come quello di assicurare alla giustizia un criminale, giustifica il travolgimento sistematico del diritto alla privacy di milioni di persone.
La tecnologia non giustifica tutto
Non è così, non può essere così, non in democrazia.
In democrazia si deve imparare – specie nella stagione iper-tecnologica che stiamo vivendo – ad accettare il rischio che un criminale possa sottrarsi alla giustizia, se per scongiurare tale rischio ci si ritrova costretti a violare i diritti di milioni di innocenti.
Il fine non giustifica i mezzi e non tutto ciò che è tecnologicamente possibile può considerarsi giuridicamente legittimo e democraticamente sostenibile.
La terza è che le regole in questione, quelle che in deroga ai diritti fondamentali dell’Unione europea ordinano ai nostri operatori di servizi di comunicazione telefonica e telematica di conservare per sei anni i dati personali sul traffico, sono regole figlie di stagioni emergenziali della vita del mondo – quelle della tragedia delle torri gemelle prima e degli attentati di Madrid e Londra poi – che, per fortuna, appartengono al passato, con la conseguenza che ogni misura straordinaria adottata in quei contesti che abbia comportato una compressione dei diritti e delle libertà delle persone, avrebbe dovuto, già da tempo, essere rimossa, cancellata e abrogata.
Perché in caso contrario si accetta l’idea – straordinariamente pericolosa specie in un momento come quello attuale nel quale il Paese sta, forse, uscendo dalla pandemia – che, quando, a causa di una situazione emergenziale si cambia la soglia della tollerabilità democratica di questa o quella forma di compressione dei diritti e delle libertà, poi, passata l’emergenza, non si torna più indietro.
E, naturalmente, questo è democraticamente insostenibile.
E poco conta che la più parte dei cittadini, pur pronta a mobilitarsi per decine di motivi diversi, in Italia, sin qui, non abbia chiesto la modifica di queste regole e che, probabilmente, non l’abbia fatto perché sente di vivere in un Paese sostanzialmente libero.
Conclusioni
Vale la pena di ricordare le parole di Louis Brandeis, uno dei padri del diritto alla privacy mondiale, in una dissenting opinion resa in uno dei primi processi alle intercettazioni telefoniche arrivato, negli anni ’20 del secolo scorso, dinanzi alla Corte Suprema degli Stati Uniti d’America: “L’esperienza dovrebbe insegnarci a essere più preoccupati di proteggere la libertà quando un governo persegue scopi benefici. Gli uomini sono naturalmente all’erta per respingere l’invasione della loro libertà da parte di governanti malvagi. I più grandi pericoli per la libertà si nascondono nell’azione insidiosa di governi ben intenzionati ma incapaci di comprendere le conseguenze delle loro azioni sulle libertà e i diritti fondamentali.”.
Cambiamo quella legge, cambiamola subito, cambiamola con un provvedimento d’urgenza se occorre e dimostriamo che il rispetto dei diritti fondamentali delle persone è una priorità nell’attuazione del piano di ripresa e resilienza del Paese, perché un Paese forse più moderno ed economicamente meno povero non può essere un obiettivo per nessun Governo, nessun Parlamento, nessun decisore pubblico se non mette al centro il rispetto dei diritti fondamentali delle persone