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Difesa comune europea: ostacoli politici e nuovi approcci finanziari



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La rigidità del settore difesa limita l’efficacia degli investimenti europei. Le tecnologie dual use e l’apertura ai capitali privati rappresentano opportunità per rinnovare l’approccio alla difesa comune europea

Pubblicato il 8 apr 2025

Antonio Picasso

Giornalista, scrittore, Ted speaker



difesa comune europea (1)

Il progetto di una difesa comune europea resta incerto. Per quanto la crisi ucraina e l’avvento di Trump alla Casa Bianca abbiano riportato sulle prime pagine dei media un tema che, da anni, era esclusiva degli addetti ai lavori. I problemi per la difesa europea sono evidentemente politici, finanziari, ma anche di tempo.

Un organismo collegiale di sicurezza a livello Ue, che non sia la fotocopia della Nato e che non vada a compromettere ulteriori porzioni della sovranità dei singoli governi, è un nodo che non si sa ancora come sciogliere. Soprattutto in un momento in cui le organizzazioni comunitarie sono in perdita di sostegno, mentre le correnti sovraniste seguono un trend diametralmente contrario.

Le sfide finanziarie della difesa comune europea

Sul fronte delle risorse il percorso risulta altrettanto complesso. Le nazioni che storicamente hanno scritto la storia militare europea – Francia e Germania in primis, ma anche Spagna e Italia – sono le più recalcitranti a metter mano al portafoglio. Escluse le ambizioni di Macron, questi governi hanno ben presente quanto rischia di essere impopolare un tema come la corsa agli armamenti. Tanto più che andrebbe a intrecciarsi con uno Stato sociale sempre meno sostenibile e dei vincoli di bilancio Ue altrettanto difficili da rispettare. Il piano RearmEurope, appena presentato da Ursula von der Leyen, sembra risolvere questi problemi. D’altra parte, dovrà passare il vaglio del Parlamento europeo, dove può essere bloccato da più fronti.

I paesi dell’est e gli investimenti nella difesa comune europea

Diverso è il caso delle “new entry in Europa”. Paesi baltici, Polonia e Repubblica Ceca hanno intrapreso la strada dell’aumento delle spese militari. Il giogo sovietico del passato e adesso la guerra alle porte in Ucraina hanno spinto le singole cancellerie a scelte che le pongono perfino in linea con le pretese di Washington. Anche la Grecia ha fatto altrettanto. In questo caso però, più per ragioni di contrasto alla Turchia, invece che alla Russia.

In generale, stiamo parlando di un aumento di investimenti dell’ordine di mezzo punto percentuale in media sul Pil nazionale. Tutti si stanno avvicinando al 3% richiesto dalla Nato. Per quanto Trump vorrebbe che si arrivasse al 5%. Ma è già un passo avanti. Del resto c’è chi sta riuscendo nella volata. Il budget del governo polacco stanziato per la sicurezza è destinato a passare dal 4,12% attuale al 4,7% già alla fine di quest’anno. Niente male per dei Paesi piccoli per dimensioni, geografiche e demografiche, ma anche per struttura economica.

Il reperimento delle risorse per la difesa comune europea

Sia per queste nazioni volenterose, sia per quelle che non hanno ancora fatto una mossa, resta da chiedersi l’origine degli investimenti. La domanda è stata più volte posta da Mario Draghi, con il suo Report sulla Competitività. E non si limita alla filiera della sicurezza. Il futuro dell’Europa poggia su un nuovo modo di fare industria, innovazione, sostenibilità, eccetera. Posto questo, dove si recuperano le risorse?

Il piano ReArm Europe per la difesa comune europea

Volendo rispondere a questa domanda, il piano RearmEurope si declina in cinque punti, di natura squisitamente finanziaria, che dovrebbero tamponare perplessità e posizioni contrarie a priori.

Per prima cosa, l’attivazione della clausola di salvaguardia del Patto di Stabilità, che limita i deficit di bilancio Paesi Ue, permettendo loro di aumentare la spesa dell’1,5% sul Pil senza incorrere nelle procedure per debito eccessivo.

Da qui il secondo punto: la creazione di uno spazio fiscale di 150 miliardi di euro in prestiti per potenziare gli acquisti congiunti in settori come difesa aerea, droni, mobilità militare e cybersicurezza.

Sono poi messi nero su bianco maggiori incentivi ai Paesi che decidano di utilizzare i fondi di coesione per aumentare gli investimenti nella difesa.

Ultimi step – quelli più in linea con la “Dottrina Draghi” – la mobilitazione di capitali privati, attraverso (finalmente) la creazione dell’unione dei capitali e una revisione delle competenze della Banca Europea per gli Investimenti.

Le rigidità della filiera della difesa comune europea

D’altra parte, il settore difesa è da sempre il più ostico nelle attività di fundraising. Lentezze amministrative, vincoli di sicurezza e bias nazionalistici rendono il mercato tutt’altro che libero. «I grandi gruppi industriali di questa filiera non hanno l’agilità per adattarsi alla velocità del cambiamento dello scenario odierno», spiega Giuseppe Lacerenza, partner del fondo DefenceTech di Keen Venture Partners, attore olandese del venture capital che investe in startup e scaleup a livello europeo. «La filiera è organizzata su piani industriali di lungo periodo», aggiunge. Progettazione, appalti, assegnazioni pubbliche. Questa rigidità non consente la prototipazione di nuove soluzioni e il loro rilascio in tempi brevi. A questo, poi, si aggiunge il fatto che i portafogli ordini dei grandi gruppi del settore sono particolarmente consistenti e questo significa che, anche all’aumentare delle risorse per la difesa, non sarebbe semplice trasformarle in un output servibile.  

Tecnologie dual use per la difesa comune europea

Ma ci sono due obiezioni che inducono all’ottimismo. Da un lato la componente digitale, dall’altro il superamento dei pregiudizi e quindi l’apertura della filiera ai capitali privati.

Sicurezza infatti non vuol dire soltanto produrre carri armati, ma ancor più dotarsi di un apparato di sicurezza e deterrenza caratterizzato dall’adozione di tecnologie dual use. Militari, ma anche civili.

Proprio in quella parte d’Europa dove si sta avvertendo una maggiore percezione dell’urgenza di proteggersi, gli investimenti in innovazione tecnologica vanno per la maggiore. Tra i Paesi baltici, scandinavi e l’Europa dell’Est – a cui si aggiunge la frugale Olanda – l’opinione pubblica ha iniziato a evolversi. Vuoi per ragioni geografiche. Come si diceva, la Russia è alle porte. Vuoi per propensioni culturali, gli olandesi da sempre sono alla ricerca di nuove frontiere. Prima geografiche oggi tecnologiche. Attori istituzionali, come i fondi pensione, si stanno avvicinando progressivamente agli investimenti nel settore. Tra Olanda, Finlandia ed Estonia, appunto, stanno cominciando a nascere fondi di investimento specializzati ad hoc.

A oggi però, in Europa, non esistono ancora venture capital per sostenere startup e scaleup del settore. Tra le iniziative in una qualche misura comparabili sono l’acceleratore di startup promosso dalla Nato, denominato Diana, e Brave 1, la piattaforma creata dal governo ucraino per rendere più semplice lo scouting e l’adozione di soluzioni tecnologiche da parte delle proprie forze armate.

I fondi di investimento per la difesa comune europea

Con il target di raccolta a 125 milioni di euro, il fondo DefenceTech di Keen Venture Partners, intende investire in settori che spaziano dall’intelligenza artificiale ai sistemi a guida autonoma, fino all’analisi dei dati, alla protezione delle infrastrutture critiche, alla resilienza energetica e alla cybersecurity.

Tecnologie duali, appunto, che garantiscono la partecipazione «di capitali sani», dice Lacerenza. «E con sani intendo dire che premiano la sostenibilità del business e dell’impresa in termini di mercato, e di conseguenza orientati all’efficientamento dei costi e allo sviluppo rapido di prodotti realmente utili per il cliente finale». Il dual use fa sì che non si abbia a che fare con l’esclusivo e canonico investimento in un piano militare. «È un discorso di deterrenza», spiega il manager italiano trapiantato ad Amsterdam ormai da otto anni. «Così come la nostra società vuole vivere in mondo più verde e di pari opportunità, pretende anche maggiore sicurezza. La difesa oggi deve fornire una risposta anche a questa domanda. Con tutte le tecnologie di cui può disporre».

Le sfide temporali della difesa comune europea

Tuttavia, resta un terzo ostacolo: il tempo. Al di là del fatto che lo stop alle ostilità in Ucraina sia diventato un’urgenza per tutti, la corsa alla digitalizzazione della propria difesa, parte di Usa e Cina, è avviata da tempo e una velocità impressionante. Oggi inoltre, gli Usa investono circa 900 miliardi di dollari in difesa. Contro i 200 dell’Europa. Una differenza sostanziale, difficile da poter colmare in tempi rapidi. Nonostante l’interesse dei mercati. A questo si aggiunge il fatto che, in ogni caso, la piena operatività di un esercito nuovo e competitivo richiede una quindicina d’anni. Troppo per quello che sono le sfide europee oggi.

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