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Droni e gps contro il coronavirus? Ecco il confine da non superare

Il confine oltre il quale l’emergenza non può spingersi è quel “diritto della paura” che stravolge la gerarchia costituzionale dei diritti e la complessa articolazione di checks and balances. Una cautela da considerare soprattutto per le annunciate misure di geolocalizzazione e, a maggior ragione, uso di droni

Pubblicato il 25 Mar 2020

Federica Resta

Dirigente presso il Garante privacy*

DJI-drones-are-used-to-fight-Coronavirus

Lo scenario delle misure attuate per l’emergenza coronavirus sembra destinato a mutare sensibilmente: si discute della possibilità di geolocalizzare i soggetti positivi al virus, non solo per verificare il rispetto degli obblighi di permanenza domiciliare, ma anche per ricostruire la catena epidemiologica e sottoporre ad accertamenti i potenziali contagiati.

E’ stato, addirittura, autorizzato il ricorso ai droni (in deroga ai requisiti normativi di settore) per verificare la presenza di assembramenti e, in generale, eventuali violazioni delle misure di distanziamento sociale. Una misura, questa in particolare che appare probabilmente sproporzionata, determinando in ciascuno la consapevolezza di essere costantemente controllato.

Le limitazioni ai diritti fondamentali

Necessitas non habet legem, sed ipsa sibi facit legem”. E’ questo il vecchio adagio cui, inevitabilmente, corre il pensiero in un contesto emergenziale quale quello che stiamo vivendo.  La drammaticità della situazione ha imposto infatti soluzioni a volte disorganiche, contingenti, avulse da una strategia unitaria, almeno in prima istanza. Avvertitasi l’esigenza di un maggiore coordinamento, il raccordo normativo tra le varie misure adottate è stato affidato alla sinergia tra decretazione d’urgenza e poteri di ordinanza (di protezione civile e non). In questo schema (già ricorrente negli ultimi anni, in contesti analoghi) il decreto-legge ha, generalmente, confermato (elevandone la fonte) le misure previste con ordinanza, come ben ha chiarito Franco Pizzetti.

Benché dotata di ampi poteri derogatori, infatti, anche l’ordinanza di protezione civile non può, come noto, normare materie coperte da riserva di legge assoluta e, per quelle a riserva relativa, non può contrastare con la disciplina di settore (oltre che con i principi generali dell’ordinamento interno e unionale). 

Le significative limitazioni di alcuni diritti fondamentali (libertà di circolazione, religiosa, di iniziativa economica, diritto allo studio, al lavoro e per certi versi persino libertà personale) imposte, per garantire il distanziamento sociale, con mere ordinanze hanno così visto confermata la loro efficacia attraverso lo strumento elettivo assegnato in Costituzione all’esecutivo, per il governo dell’emergenza: il decreto-legge.

Sarebbe stato, certamente, più opportuno ricorrere sin da subito (almeno) alla decretazione d’urgenza per l’introduzione di misure così fortemente limitative di diritti fondamentali (non solo di libertà), ma nel merito le misure adottate sono apparse per lo più coerenti con l’esigenza di garantire il distanziamento sociale.

L’intensità stessa di tali limitazioni sembra, nel complesso, ragionevolmente modulare la garanzia dei diritti individuali incìsi e la componente solidaristica del diritto alla salute, quale interesse generale da tutelare in termini di sanità pubblica. Queste misure imposte a tutela, soprattutto, delle fasce più vulnerabili della popolazione- maggiormente esposte al rischio di una malattia dal decorso infausto- possono, insomma, ritenersi il prezzo da pagare per consentire ad Enea di portare sulle sue spalle Anchise, come ci ha ricordato Laura Marchetti sulle pagine del Manifesto.

Le stesse norme speciali in materia di protezione dati (contenute nell’ordinanza di protezione civile del 3 febbraio e, quindi, nel d.l. 14/2020) si sono sinora  limitate all’ambito di comunicazione dei dati sanitari, per ovvie esigenze di contenimento epidemiologico e all’informativa semplificata, senza tuttavia legittimare raccolte di dati particolarmente “innovative”.

La legittimità di tali deroghe si fonda essenzialmente sulle limitazioni possibili dei diritti degli interessati sancite dall’art. 23 Gdpr, per esigenze, tra l’altro, di sanità pubblica.  Esigenze che, (al pari del “soccorso di necessità” ) rappresentano peraltro autonomi presupposti di liceità del trattamento di dati, tanto comuni quanto particolari.

Il confine da non superare

Di fronte a queste misure (alcune annunciate, altre già attuate, pensiamo qui a quelle meno tecnologiche ) viene, allora, da chiedersi, dove corra il confine tra norma ed eccezione; il katechon superato il quale la deroga degeneri in legittimazione dello Stato di prevenzione. La distinzione è sottile, sì, ma indispensabile, soprattutto in un ordinamento, quale il nostro, che – diversamente da altri – non riconosce all’emergenza la natura di autonoma fonte del diritto (come invece riteneva Santi Romano), procedimentalizzando invece l’esercizio di un potere sì extra ordinem, ma non legibus solutus.

Il confine oltre il quale l’emergenza non può spingersi è, dunque, rappresentato da quel “diritto della paura” che stravolge la gerarchia costituzionale dei diritti e la complessa articolazione di checks and balances, volta a rendere legittimo anche il monopolio statuale della forza. 

Stiamo, oggi, superando quel confine? Ancora no, per fortuna, ma certamente il complesso delle misure annunciate in questi giorni – sia pur in forma ancora embrionale – necessita di un vaglio attento in termini di ammissibilità costituzionale e, perfino, di sostenibilità democratica.

Se, infatti, l’acquisizione di dati effettivamente anonimi di mobilità, utili a ricostruire l’andamento epidemiologico della malattia, non solleva particolari criticità, la raccolta di dati sulla geolocalizzazione (anche solo indirettamente) identificativi, per fini di verifica del rispetto degli obblighi di permanenza domiciliare o per tracciare la catena dei contagi, presenta invece non pochi profili problematici.

In entrambi i casi, infatti, come ha ricordato il Presidente Soro, il trattamento necessita di una previsione normativa (con efficacia limitata alla durata dell’emergenza) e di idonee garanzie (sostanziali e procedurali) per gli interessati, dovendo peraltro rispondere a canoni di necessità, proporzionalità, ragionevolezza e rappresentare la misura meno invasiva tra quelle ritenute adeguate rispetto al fine perseguito. E proprio lo scopo cui è preordinata la raccolta dei dati traccia, in questo senso, un discrimine importante, incidendo anche sulla valutazione di proporzionalità e necessità.

Il fine deve essere solidaristico, non repressivo

In questo senso, ad esempio, nel valutare l’utilizzo dei dati sulla mobilità dei soggetti contagiati per ricostruire la catena epidemiologica, si dovrebbe considerare la natura del fine perseguito: non già repressivo ma solidaristico, individuabile cioè nell’esigenza di sottoporre ad accertamenti quanti siano entrati potenzialmente in contatto con l’interessato o comunque di adottare le misure utili a prevenire il contagio. Così delineato il fine, andrebbero poi studiate modalità effettivamente proporzionali di realizzazione della misura, idonee a minimizzarne l’incidenza sui singoli.

Assai diversa, invece, appare l’ipotesi della geolocalizzazione dei soggetti sottoposti a permanenza domiciliare, quale strumento di controllo del rispetto degli obblighi imposti, come una sorta di braccialetto elettronico atipico. Ritenere tale misura necessaria equivarrebbe, infatti, a sancire il fallimento della funzione generalpreventiva della sanzione penale, comminata per la violazione delle misure restrittive. Il continuo ricorso alla tecnologia quale strumento coadiuvante nell’imposizione di misure coattive è un’anomalia cui ci stiamo progressivamente abituando, ma che non per questo deve ritenersi irrilevante. La sanzione penale (prevista per l’omissione degli obblighi di “quarantena”) dovrebbe rappresentare lo strumento dotato di massima efficacia deterrente, cui a fini preventivi non dovrebbe aggiungersi alcuna altra misura, tantomeno se ulteriormente limitativa di diritti individuali quale, in questo caso, il diritto alla privacy.

Uso dei droni è probabilmente sproporzionato

Quest’argomento vale, a maggior ragione, per l’uso dei droni quali strumenti di sorveglianza generalizzata nei confronti della totalità della popolazione, per verificare il rispetto degli obblighi di permanenza domiciliare e distanziamento sociale. Di tale misura è difficilmente ipotizzabile una declinazione davvero conforme al canone di proporzionali, in quanto per sua stessa natura la sorveglianza mediante droni determina l’acquisizione di una quantità di dati notevolissima, scarsamente selettiva e in buona parte ultronea ai fini di controllo delle misure di contenimento del contagio. I requisiti stringenti richiesti dalla giurisprudenza della Cgue per il rispetto dei principi di necessità e proporzionalità e la stessa salvaguardia (imposta dall’art. 52 della Carta di Nizza) del contenuto essenziale del diritto fondamentale sembrano difficilmente immaginabili in relazione alla sorveglianza mediante droni.

Tale misura sembra, insomma, consolidare quella tendenza – ben rilevata dal presidente Soro – all’assunzione del panottismo quale metodo di governo della complessità sociale (prima ancora che della sola devianza), che rappresenta oggi una vera e propria emergenza democratica.

Non va sottovalutata, in tal senso, la rilevanza di una misura, quale quella del ricorso ai droni, in grado di realizzare una sorveglianza sistematica e generalizzata, determinando in ciascuno la consapevolezza di essere costantemente controllato. Che, come ben ha rilevato la Corte costituzionale tedesca nel 2016, è essa stessa, per ciò solo, perdita di libertà.

(le opinioni espresse in questo contributo sono imputabili esclusivamente all’autrice e non impegnano in alcun modo l’Autorità di appartenenza)

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