L'APPROFONDIMENTO

Ethical hacker, assolti ma non troppo: le “zone grigie” del diritto penale

La “divulgazione responsabile” non sempre giustifica l’accesso non autorizzato a sistemi informatici aziendali. Analizziamo come le maglie della giurisprudenza possono venire declinate a seconda del contesto in cui si consumano gli attacchi etici

Pubblicato il 02 Ott 2020

Roberto Flor

diritto penale, università di Verona

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L’etica hacker occupa ancora una zona da esplorare, nella giurisprudenza. Ripercorriamo a freddo le ragioni dell’archiviazione “a sorpresa” di un caso che ha fatto scuola, esaminando le evoluzioni del diritto penale di fronte alla sicurezza digitale.

Nascita della cultura hacker

Negli anni ’80, il giornalista americano Steven Levy,  cercando di percorrere le tappe della nascita di una cultura hacker ne offriva una visione affascinante, se non romantica, fondata sull’esplorazione intellettuale e sul miglioramento dell’intera società attraverso il miglioramento della tecnologia. Non è possibile riflettere sull’“etica” hacker senza ricordarne le parole.

Mass-media ed istituzioni, sin da tempi non sospetti, tendevano a descrivere gli hackers come soggetti pericolosi, offrendo una visione per lo più negativa. L’hacker etico, in realtà, è mosso dalla necessità di conoscere e comprendere la tecnologia, senza scopi malevoli o diretti a cagionare effetti pregiudizievoli a dati, informazioni, programmi o sistemi, o ad acquisire illecitamente tali dati e informazioni. Certo, fra le regole etiche dovrebbe essere annoverata anche la condivisione delle conoscenze e delle informazioni stesse.

Ma la scoperta di possibili vulnerabilità e criticità dovrebbe essere orientata dall’intento di migliorare la cybersecurity structure e la cybersecurity governance.

In un breve volume del 2007, di agevole lettura, Raoul Chiesa e Silvio Ciappi tentano di individuare le basi su cui erigere una metodologia di “profiling” applicabile al mondo dell’hacking, dovendo però partire dall’assunto che ogni hacker è diverso dagli altri: “si tratta di persone che hanno una propria storia, un proprio background culturale e famigliare, un proprio vissuto”. Questo tentativo, lungi dal pretendere di raggiungere generalizzazioni assolute, ha il pregio di indicare alcuni principi caratterizzanti l’etica hacker, rendendoli accessibili ai lettori, ripercorrendo l’evoluzione (per così dire) storico-generazionale del mondo dell’hacking. Nel corso degli anni questo mondo è divenuto maggiormente complesso.

Chi è l’ethical hacker

Di fronte ai tentativi di distinzioni criminologiche e sociologiche fra black hat, grey hat e white hat rimane il fattore comune e congenito della curiosità verso l’informatica, le reti ed i sistemi: curiosità che non muore mai. Cambia, forse, il senso dato alla parola “hacker”.

Rileggendo oggi The Hacker Manifesto (o The Conscience of a Hacker) e riguardando il film WarGames con le lenti del penalista, pur riscoprendo ed interpretando – nel senso sia storico, sia evolutivo – lo spirito ed i fondamenti della cultura hacker, non è possibile negare che molte azioni “riconducibili” all’ethical hacking si realizzano spesso in prossimità di un labile ed incerto confine fra rilevanza ed irrilevanza penale, tra liceità ed illiceità, a prescindere dai motivi, per quanto nobili, perseguiti dal soggetto agente.

Il riferimento non è a figure professionali o esperti (che si possono ben definire “hacker etici”, seppur con sfumatura diverse) assunti da aziende o enti di diversa natura per effettuare simulazioni di attacchi, penetration test o security test autorizzati, con lo scopo di migliorare la sicurezza dei sistemi, dei dati, delle informazioni o dei prodotti (si pensi, ad esempio, alla certificazione “Certified Ethical Hacker-CEH” promossa dall’International Council of  Electronic Commerce Consultants).

La riflessione che si propone prende spunto, invece, da una serie di notizie  riguardanti la c.d. divulgazione responsabile (responsible disclosure) e, in particolare, da un provvedimento di un giudice per le indagini preliminari (G.i.p. Tribunale di Catania, decreto del 15 luglio 2019), che ha disposto l’archiviazione di un procedimento penale ritenendo non sussistente il reato di accesso abusivo a sistemi informatici o telematici (art. 615 ter c.p.) punibile, nell’ipotesi base, fino a tre anni di reclusione.

Il caso archiviato: com’è andata

I fatti si inseriscono in un contesto di sviluppo di un progetto aziendale relativo ad un’applicazione per smartphone. Dalla lettura del provvedimento sembra che l’agente, «godendo di notevoli competenze tecniche», si fosse introdotto abusivamente nel sistema aziendale, acquisendo informazioni sull’applicativo attraverso le quali avrebbe individuato dei bugs. Dopo aver avvertito l’azienda affinché potesse porvi rimedio e dopo aver atteso invano un suo riscontro diretto a risolvere le vulnerabilità del sistema, avrebbe deciso di rendere noti al pubblico tali errori tecnici.

Il giudice ha ritenuto di inquadrare questo fatto nella «metodologia comune della divulgazione responsabile», per assicurare la tutela dei consumatori.

Al di là delle valutazioni tecniche, sul piano penalistico, relative al caso di specie, alle modalità concrete (che non si comprendono dal provvedimento del giudice) attuate per accedere abusivamente al sistema informatico – e a quale sistema – nonché alle questioni interpretative riguardanti gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice, questa vicenda solleva notevoli spunti di riflessione sulla rilevanza attribuita alla c.d. divulgazione responsabile ed all’hacking etico, nell’ottica di un necessario bilanciamento fra esigenze di tutela, anche penale, di interessi di rilevanza pubblica e privata.

Come inquadrare la responsible disclosure

Prescindendo da considerazioni o valutazioni personali, culturali o etiche relative all’ethical hacking, per affrontare i profili relativi alla rilevanza penale delle attività riferibili a quest’ultimo è necessario definire, anzitutto, la responsible disclosure.

Si tratta di una prassi, a cui possono aderire le realtà aziendali, in base alla quale se un utente o un ricercatore scoprono una vulnerabilità di un prodotto sono invitati ad informare il produttore. Nel caso in cui decorra un determinato lasso di tempo senza che l’azienda abbia fornito un riscontro, essi possono sentirsi legittimati a rendere nota al pubblico la vulnerabilità individuata. Appare indiscutibile che tale prassi possa, di fatto, risultare utile, da un lato ai produttori, messi in condizione di risolvere le criticità di un prodotto e, dall’altro lato, ai consumatori, i quali possono acquistare prodotti qualitativamente migliori e più sicuri.

In secondo luogo, sul piano strettamente penalistico, appare del tutto evidente che con l’art. 615 ter c.p. il legislatore abbia inteso sanzionare l’accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico (o la permanenza non autorizzata in esso), non assumendo alcuna rilevanza, ai fini della consumazione dell’illecito, l’effettiva presa di conoscenza di dati o informazioni, la natura di questi ultimi e nemmeno le motivazioni che hanno mosso il soggetto agente (che possono incidere, eventualmente, sulla commisurazione della pena).

In terzo luogo, se si volge lo sguardo alle fonti internazionali ed europee, sia la Convenzione del Consiglio d’Europa del 2001 sulla criminalità informatica (art. 2), sia la Direttiva europea 2013/40/UE relativa agli attacchi contro i sistemi di informazione (art. 3), adottano il medesimo approccio, sostanzialmente in linea con le scelte politico-criminali del legislatore italiano effettuate con la l. n. 547 del 1993 (che ha introdotto il citato art. 615 ter nel codice penale).

Nel quadro così delineato quale ruolo può giocare la c.d. divulgazione responsabile?

Fra “ illiceità speciale” e “non punibilità”

Un accesso non autorizzato ad un sistema, realizzato per verificare la presenza di vulnerabilità o criticità, al quale segue il post factum della responsible disclosure al fine di assicurare ai consumatori maggiori tutele, in termini di sicurezza del prodotto, costituiscono due segmenti dell’attività del soggetto agente da tenere ben distinti.

In sintesi: il fatto che una realtà imprenditoriale aderisca ed incentivi la divulgazione responsabile non significa che, per attuarla, autorizzi accessi illeciti ai propri sistemi informatici, alle proprie risorse tecnologiche o ai propri prodotti.

O tale divulgazione, quindi, si inserisce, influenzandone la piena configurazione, nel requisito di illiceità speciale, oppure si rinviene una scriminante non codificata o, in generale, una condizione di non punibilità, se essa mira a risolvere problemi di sicurezza informatica, prevenendo dunque anche cyber incidents che potrebbero coinvolgere interessi di rilevanza pubblica. Infine, potrebbe operare sul piano dell’elemento soggettivo, quale elemento a sostegno di un’ipotesi difensiva che abbia l’obiettivo di dimostrare il difetto di dolo.

Gli obiettivi dell’attaccante

Non è questa la sede per affrontare tutte queste delicate questioni di rilevanza non solo pratica, ma anche dogmatica ed interpretativa.

Basti rilevare che, agli occhi del penalista e con riferimento al fenomeno oggetto di indagine, si assisterebbe alla pretesa di giustificare ex post attacchi (rectius accessi non autorizzati) sulla base non solo dei (nobili) motivi dettati dalla volontà di individuare vulnerabilità e criticità per migliorare la stessa cybersecurity, ma anche del raggiungimento degli obiettivi dell’attaccante e della loro valutazione positiva (e da parte di chi?) in termini di utilità pubblica o sociale.

In caso contrario, ossia se non venissero rilevate vulnerabilità tali da giustificare l’accesso abusivo, il medesimo fatto rimarrebbe antigiuridico, o comunque punibile e, dunque, penalmente rilevante. Si tratterebbe, dunque, di un accertamento totalmente concentrato sui motivi dell’agire e su parametri etici non facilmente determinabili.

Bilanciamento fra interesse pubblico e privato

L’interesse giuridico tutelato è caratterizzato da una dimensione privatistica e da una dimensione pubblica-collettiva. La prima si identifica con l’interesse all’esclusività dell’accesso ad uno o più spazi informatici, a prescindere dalla natura dei programmi, dei dati e delle informazioni ivi archiviati, nonché alla loro disponibilità rispetto ad illegittime interferenze da parte di terzi soggetti.

La seconda si riferisce ad un interesse super-individuale o di natura collettiva a che l’accesso a sistemi informatici ed alla stessa rete avvenga per finalità lecite e in modo tale da essere regolare per la sicurezza degli utenti.

Oggi, tenendo in considerazione le fonti europee e sovranazionali, il concetto di cybersecurity non può che essere concepito come un comprehensive concept, quale processo proattivo e reattivo volto proprio alla protezione ideale dell’interesse degli uomini e delle organizzazioni ad essere liberi da minacce, in specie da quelle al suo nucleo essenziale meritevole di tutela, la c.d. CIA-Triad (la triade riservatezza, integrità e disponibilità di sistemi, programmi, dati e informazioni), cui può collegarsi l’esigenza di protezione dell’affidabilità di sistemi informatici, reti, dati e informazioni ivi contenuti o tramite di essi trattati.

Ai fini della configurabilità della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 615 ter c.p., dunque, assume primaria rilevanza la violazione della voluntas domini e dello ius excludendi alios del titolare del sistema informatico, a prescindere dai motivi del soggetto agente e/o dalla natura dei programmi, dei dati o delle informazioni archiviati o trattati nel sistema informatico, ovvero dai “risultati” o dalle “conseguenze” del fatto.

Principio di perseguibilità a querela

È necessario aggiungere, sul piano non solo pratico, il fatto che il legislatore ha previsto la perseguibilità a querela per l’ipotesi base del reato di accesso abusivo. Il titolare del sistema, dunque, potendo disporre del suo legittimo interesse, di fronte all’effettiva utilità delle conseguenze del reato, può decidere di non esporre denuncia-querela, ovvero di ritirarla successivamente.

Ciò significa, in altri termini, che potrebbe esservi spazio per l’ethical hacking e per la divulgazione responsabile. De iure condito, però, tale spazio sembra essere limitato solo entro le maglie della citata condizione di procedibilità e, dunque, delle scelte del titolare dell’interesse protetto.

La questione si porrebbe diversamente in caso, ad esempio, di acquisto del prodotto, analisi tecnica dello stesso per individuare bugs o vulnerabilità e successiva divulgazione di tali informazioni al pubblico, in difetto di riscontri da parte dell’azienda produttrice.

In tale ultima ipotesi molto dipende anche dalla natura del “prodotto”. Se si pensa, a titolo esempificativo, ad un software, la legge sul diritto d’autore (l. n. 633 del 1941) pone dei limiti al reverse engineering o alla violazione dei dispositivi di sicurezza. L’attività successiva di divulgazione delle informazioni così ottenute e destinate a rimanere segrete, che caratterizzano il know how del prodotto, potrebbe integrare gli estremi di altri reati.

È necessario, dunque, non lasciarsi persuadere, da un lato, da notizie giornalistiche che alludono a generiche ed indeterminate aree di non punibilità dell’hacking etico; dall’altro lato, dalla convizione che integri sempre un reato. Il senso dato alla definizione “ethical hacker” cambia, sul piano penalistico, in relazione alle circostanze del fatto concreto.

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