Se fossimo un Paese più digitale, meno cittadini subirebbero il furto di identità online, che secondo i dati CRIF toglie 220 milioni di euro circa ogni anno alle tasche degli italiani.
La cronaca recente ci restituisce infatti la vicenda di un giovane informatico di Torino che ha visto la sua vita completamente stravolta da un furto d’identità, vittima di un pasticcio esistenziale provocato dal nostro sistema paese. E verrebbe da pensare che “se è capitato a un esperto… allora siamo davvero tutti in pericolo!”.
In realtà, non è proprio così: il fatto di cronaca, più che i pericoli e i problemi legati al digitale, ci dimostra invece -e ancora una volta- quanto dovremmo temere l’arretratezza del nostro Paese in fatto di digitalizzazione.
Provo a spiegarvi allora perché il fattaccio non sia legato tanto alla sicurezza informatica in astratto, ma sia piuttosto espressione diretta della “digitalburocrazia” che da tempo caratterizza in modo avvilente il nostro Paese.
Furto d’identità online: siamo tutti a rischio?
Analizziamo i fatti. Il caso del giovane torinese è effettivamente eclatante ed emblematico: il furto dei dati è infatti partito dalla circolazione di una copia della sua carta di identità (analogica), probabilmente inviata tramite e-mail per la sottoscrizione di un contratto. Finita nelle mani sbagliate, è poi accaduto un vero e proprio corto circuito sistemico, dall’attivazione di prestiti al furto di un’auto con la quale è stato compiuto un crimine. Come se non bastasse, il malcapitato, che per ironia della sorte è un esperto informatico, è stato incriminato per ciò che non ha mai commesso ed è ora anche un’autentica vittima della giustizia di un Paese che si finge digitale, ma continua a permettere gravi peccati di promiscuità analogico-informatica. Proprio come nel caso di utilizzo fraudolento di carta di identità analogica spedita in modalità telematica e tranquillamente accettata come valida dal “Sistema”.
Si continua effettivamente a parlare in mirabolanti convegni o manifestazioni (o anche nei comunicati stampa governativi) delle meraviglie dell’IA o della Blockchain, o di quanto il PNRR e i piani di digitalizzazione ci porteranno verso il futuro, ma senza alcuna reale attenzione per la gestione corretta dei dati, per la definizione di ruoli e per la ripartizione di responsabilità, non avremo mai il piede nella giusta direzione. Peggio, continueremo ad assistere al moltiplicarsi anche dei crimini informatici.
E siamo tutti in pericolo, esperti compresi, non a causa dell’ignoranza informatica dei cittadini o dei pericoli ontologici del digitale, ma per i continui passi del gambero compiuti sistematicamente, dal nostro Paese, in materia.
CIE, verso nuovi modelli per l’identità digitale: cosa cambia con il decreto 8 settembre
L’Italia ai vertici per furti di identità
Il nostro Paese è tristemente ai vertici di questo tipo di reati. Eppure, abbiamo SPID, CIE, CNS, la nuova CIEId, un’Agenzia Nazionale di Cybersicurezza…abbiamo tutto ciò che ci serve per vivere digital felici, ma nei fatti restiamo profondamente (e tristemente) analogici. Anzi, peggio, siamo irrimediabilmente ibridi.
Come mai attraverso l’utilizzo fraudolento di una semplice copia analogica di carta di identità è consentito ancora oggi a un criminale (piuttosto tradizionale e senza la necessità di possedere particolari “cybercompetenze”) di commettere una moltitudine di crimini informatici a danno di ignari cittadini, in un Paese che dovrebbe da tempo essere retto dal Codice dell’amministrazione digitale? Chiediamocelo una buona volta.
E la risposta è semplice e drammatica. L’Italia a 17 lunghi anni dall’entrata in vigore del Codice dell’amministrazione digitale e a 25 anni dalla legge Bassanini bis, che ha avviato e confermato la validità giuridica di documenti informatici e procedimenti amministrativi digitalizzati, resta un Paese che (digitalmente) non c’è, non esiste e continua ad avvitarsi in una contorta promiscuità digitale e analogica annebbiando i cervelli di cittadini confusi e annoiati, che ben rifarebbero le file agli sportelli amministrativi, pur di eliminare il disorientamento sugli strumenti e le procedure informatiche oggi in atto (e non in atto) nel nostro Paese.
Il Paese digitale che non c’è
L’Italia avrebbe bisogno (finalmente) di altro. Di costruire le sue fondamenta, partendo dai diritti e doveri di cittadinanza digitale (come il CAD pretenderebbe dal 2005) che quasi tutti ignorano. Il Paese digitale ancora non c’è, vive di slogan e promesse mai mantenute. E gli insistiti sogni digitali fanno male, son indigesti e la realtà resta piuttosto triste e avvilente.
E anche il sistema televisivo pubblico che quando racconta il digitale insegue la cronaca e si abbuffa di crimini informatici (che poi informatici non sono) dovrebbe avere la pazienza, il gusto e il dovere di raccontare ciò che siamo e magari di attuare il più inattuato degli articoli del CAD, il numero 8 che recita vacuamente ancora oggi così: “Lo Stato e tutti i soggetti pubblici promuovono iniziative volte a favorire la diffusione della cultura digitale tra i cittadini con particolare riguardo ai minori e alle categorie a rischio di esclusione, anche al fine di favorire lo sviluppo di competenze di informatica giuridica e l’utilizzo dei servizi digitali delle pubbliche amministrazioni con azioni specifiche e concrete, avvalendosi di un insieme di mezzi diversi fra i quali il servizio radiotelevisivo”.
Aspetta e spera, popolo italiano…
* Nota dell’autore: queste brevi riflessioni nascono da una colazione con due Amici, Alessandro Longo e Giovanni Ziccardi, intervistati un paio di giorni fa su Rai1, mentre gustavo un buon caffè, sui rischi di furto di identità.