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Gdpr, kit di sopravvivenza per “consulenti privacy”

Ecco un kit semiserio di sopravvivenza per quei consulenti privacy “senza bollino certificato” che vorrebbero comunque cercare di “fare per bene” il loro lavoro e capire così come procedere per applicare i principi del GDPR

Pubblicato il 23 Ago 2018

Andrea Lisi

Coordinatore Studio Legale Lisi e Presidente ANORC Professioni, direttore della rivista Digeat

beach-survival-kit

Ci siamo. Mancano pochi giorni ormai e avremo in Gazzetta Ufficiale il decreto di adeguamento al GDPR[1] (General Data Protection Regulation – Regolamento 679/2016) e la vacanza terminerà finalmente, per tutti gli italiani interessati.

Già immagino aggirarsi, tra le spiagge affollate, consulenti privacy in preda al panico e in attesa di capire cosa inventarsi per sospendere ancora un po’ l’adeguamento al GDPR, continuando così a procedere indisturbati, in modo formale e ineccepibile, secondo le vecchie logiche del decreto legislativo 196/2003 (come – del resto – fatto sino ad oggi). Certo chi è “certificato”[2], dall’alto del suo bollino di qualità, potrà con aria sicura e infallibile seguitare a riferire che andrà tutto bene e ci sarà ancora tempo per avviare l’agognato processo di accountability con un pizzico di privacy by design e privacy by default che non devono mancare mai. Assumendosene il rischio.

Perché adesso non si scherzerà più, cari consulenti -certificati e non. Il decreto di coordinamento è ormai arrivato (e attendiamo solo di poterlo leggere). Il nuovo piano delle ispezioni (luglio-dicembre 2018) del Garante non tranquillizza più nessuno e apre molti margini di rischio per clienti ai quali sino ad oggi si poteva dire semplicemente che il Nucleo Specializzato della Guardia di Finanza (questa entità astratta fin quando non bussa alle porte dei propri clienti) non arriverà mai a controllare una realtà di questo tipo. E le sanzioni iniziano a impensierire davvero. È da tempo già tardi: occorre partire subito nel darsi da fare!  Anche se si vocifera che nel testo normativo appena approvato, sia stato inserito all’ultimo minuto un periodo di “grazia” di 8 mesi per la piena applicazione dell’attività ispettiva del Garante (naturalmente nel Paese delle proroghe, tutto questo non stupisce!).

Provo allora in stile vacanziero a stilare un breve kit di sopravvivenza per quei poveri consulenti privacy che non hanno con sé il miracoloso bollino certificato e vorrebbero comunque cercare di “fare per bene” il loro lavoro e capire così come procedere per applicare i principi del GDPR, a prescindere dal decreto di adeguamento (che arriverà a giorni, ma non potrà ovviamente essere in contraddizione con il regolamento europeo).

Fare ordine sotto l’ombrellone 

Entrato in un’azienda o in un ente pubblico, un attento consulente privacy deve prima di tutto capire con chi ha a che fare. Ovvio quindi che conviene dotarsi di una propria “check list” con domande specifiche da fare, iniziando dal reparto amministrativo (o informatico, o legale) che si è sino ad allora occupato della materia (sperando che qualcuno se ne sia accorto sino ad oggi!) rivolgendosi poi ai vari uffici più “delicati” in misura ai trattamenti di dati che possono sviluppare al loro interno (in modo molto approssimativo, possiamo ricordare il reparto risorse umane, il reparto marketing e comunicazione, quello IT, il legale e così via).

Durante questo primo audit (che può durare anche diversi giorni, in proporzione alla realtà di riferimento) il consulente può riuscire ad ottenere quanto meno una mappatura completa (pur se generica) del modus operandi sviluppato sino ad oggi:

  • lettere di nomina degli incaricati e degli amministratori di sistema;
  • clausole contrattuali con gli eventuali responsabili (esterni) del trattamento;
  • informative (dipendenti, clienti, utenti/pazienti ecc.);
  • modelli di consenso;
  • DPS se adottato e mantenuto aggiornato;
  • policy e/o regolamenti interni in materia di trattamento dei dati personali;
  • registri/elenchi hardware e software;
  • eventuali procedure certificate
  • etc.

Questo primo approccio di conoscenza del cliente, permette di individuare subito le aree più critiche e gli eventuali gap da colmare e, quindi, di avviare la successiva pianificazione degli interventi necessari (e magari anche di stilare un’offerta dei nostri servizi – spesso pretesa “a corpo” – che sia un minimo veritiera e basata su dati reali). In questa fase, si può già riconoscere se la realtà con cui si ha a che fare debba dotarsi obbligatoriamente di un DPO (Data Protection Officer).

Prendere appunti sulla sabbia 

Arriva quindi il momento di sviluppare i famosi registri previsti dall’art. 30 del GDPR. Partiamo da una premessa: il registro deve considerato come un documento vivo, da tenere sempre aggiornato. Può nascere, all’inizio, come un albero spoglio per poi essere arricchito con rami, foglie e fiori sempre più rigogliosi. La mappatura del resto si renderà via via sempre più consapevole e – se all’inizio potrà concentrarsi solo su ciò che obbligatoriamente l’art. 30 prevede – poi potrà via via ricomprendere tanti altri elementi utili per illustrare tutti i trattamenti sviluppati dalla struttura di riferimento, in modo da procedere oltre, con un approccio reale di accountability.

Il lavoro andrà ovviamente affrontato in team e non dovrà essere sviluppato in modo isolato, ma coinvolgendo multidisciplinarmente i vari reparti (già responsabilizzati durante la prima fase di audit). Ma – lo ripeto – i registri non vanno mai considerati come documenti finiti, ma pensati sempre come “vivi”. Gli applicativi miracolosi che fioccano come funghi per aiutare nel loro gravoso lavoro i consulenti privacy più svogliati vanno bene, ma non possono mai sostituirsi alla lente attenta di chi deve monitorare, guidare, controllare (DPO o non DPO che sia!).

In questa fase occorre quanto meno:

  • censire con attenzione tutti i trattamenti di dati personali effettuati, tramite interviste con i responsabili dei vari processi aziendali;
  • individuare gli eventuali trasferimenti di dati personali verso paesi extra UE e verificare il rispetto delle disposizioni di cui agli artt. da 44 a 49 del GDPR;
  • raccogliere tutte le informazioni e la documentazione necessaria per la compilazione del registro dei trattamenti (es. applicazioni, servizi esternalizzati, sistemi di controllo dei dati, sistemi di log retention ecc.);
  • impostare il registro dei trattamenti e compilare le parti per le quali si è già in possesso delle necessarie informazioni.

Formare la squadra di beach volley

Adesso, con in mano una mappatura reale della “situazione privacy”[3] del Cliente, si può iniziare a operare sul serio. Infatti, sulla base dei risultati dell’analisi dettagliata dei flussi dei dati personali – sia all’interno che all’esterno dell’organizzazione aziendale – si potrà cominciare a:

  • definire i contenuti dell’accordo con gli eventuali contitolari;
  • individuare, dopo aver verificato il possesso dei requisiti previsti dall’art. 28 del GDPR, i responsabili del trattamento e definire i contenuti vincolanti del contratto o altro atto giuridico;
  • individuare gli eventuali referenti interni per la gestione delle politiche aziendali in materia di protezione dei dati personali;
  • definire un sistema di controlli periodici (audit) che consentano il costante monitoraggio del livello di compliance con il GDPR;
  • definire un piano formativo su più livelli di competenze.

Rivedere gli schemi di gioco

Arrivati a questo punto, saremo pronti per rivedere la documentazione in nostro possesso, in modo da renderla davvero in linea con lo spirito del GDPR. Infatti, a fronte dei gap rilevati durante le precedenti fasi, potremo:

  • aggiornare la documentazione esistente per renderla conforme al GDPR (es. informative, moduli di consenso, eventuali accordi con contitolari, eventuali contratti o altri atti giuridici con i responsabili esterni, policy aziendali);
  • predisporre la documentazione mancante.

Abbiamo controllato i muscoli?

Ovvio che in modo coordinato e contemporaneo (ma solo dopo aver effettuato la necessaria mappatura) sarà assolutamente necessario (ex art. 24 e 32 del GPPR):

  • individuare i possibili ambiti di rischio che dovranno essere oggetto di valutazione;
  • definire la metodologia di analisi dei rischi più adatta alla realtà organizzativa aziendale con particolare riferimento ai sistemi informativi;
  • analizzare (per ogni trattamento o per trattamenti simili) sia i rischi connessi ai trattamenti effettuati senza l’utilizzo di strumenti elettronici, che quelli relativi alla configurazione dei sistemi informativi e ai software utilizzati;
  • censire le attuali misure di sicurezza organizzative, fisiche e logiche;
  • definire le misure di sicurezza necessarie a ridurre il rischio entro un livello di accettabilità (es. pseudonimizzazione, cifratura ecc.);
  • verificare tutti gli applicativi adottati e da adottare e avviare politiche di controllo in linea con i principi di privacy by design e privacy by default (art. 25 GDPR);
  • etc…

Prevenire gli attacchi di zanzare e meduse

Naturalmente in questa fase sarà necessario concentrarsi anche sulle possibili violazioni nel trattamento di dati personali (art. 33 e 34 GDPR), quindi:

  • definire e integrare le procedure di incident management per la gestione dei data breach, in modo da ridurre il più possibile il termine che intercorre tra la violazione e il momento in cui ci si accorge della violazione
  • implementare un sistema di file log che consenta la raccolta di tutte le necessarie informazioni a supporto delle violazioni e delle opportune indagini sottostanti;
  • impostare il registro delle violazioni;
  • definire la modulistica per le notificazioni all’autorità di controllo (art. 33) e le comunicazioni agli interessati (art. 34).

Verificare buche, insidie e tranelli sulla sabbia

Considerato che il GDPR, in base al principio di accountability, non prevede più la verifica preliminare da parte dell’autorità di controllo (richiesta dall’art. 17 del nostro Codice), sarà indispensabile (ex art. 35 del GDPR):

  • individuare, i trattamenti per i quali è necessario effettuare la valutazione d’impatto;
  • individuare la metodologia più appropriata da utilizzare per la valutazione d’impatto;
  • effettuare la valutazione d’impatto per singoli trattamenti (o per gruppi simili che presentano rischi analoghi) nonché le necessarie misure tecniche ed organizzative per attenuarli;
  • predisporre e conservare la documentazione relativa alla DPIA (Data Privacy Impact Assessment);
  • definire le modalità per il monitoraggio e l’eventuale revisione della DPIA.

Ovvio anche che, nel momento in cui le nostre azioni ci sembrano non bastare per minimizzare i rischi di carattere elevato evidenziati nella DPIA, allora si potrà (eccezionalmente) avviare un processo di consultazione preventiva con l’Authority (art. 36 GDPR).

Chiarire le regole di balneazione e individuare il bagnino

Considerato che il GDPR ha reso più cogenti gli obblighi incombenti sul titolare, rafforzando il contesto di garanzie e procedure da osservare nel rapporto con gli interessati (prevedendo le sanzioni più elevate in caso di loro violazione), sarà assolutamente necessario:

  • implementare le procedure finalizzate ad agevolare l’esercizio dei diritti da parte degli interessati;
  • adottare le misure organizzative e tecniche che consentano di rispettare i termini previsti dall’art. 12 del GDPR;
  • definire le politiche di data retention;
  • verificare se – pur in caso di assenza di obbligo – non sia utile dotarsi di un DPO.

E per concludere…ci sono nuvole all’orizzonte?

Ovvio che nello spirito di un’attività fluida come quella di assessment, da rapportare a una normativa complessa come quella europea, le attività descritte sinteticamente non vanno portate avanti in modo rigido e schematico, ma possono procedere contemporaneamente e vanno considerate in modo solo indicativo e generico. Ogni attività di verifica portata avanti in favore di un cliente, deve essere considerata alla stregua di un lavoro sartoriale e, quindi, realizzata su misura e sulla base delle reali necessità.

Infine, chiedo perdono per la leggerezza di questo pezzo in versione estiva, ma la maggior parte di noi è in vacanza o è in procinto di iniziare il periodo più agognato dell’anno. Meglio concederci qualche leggerezza adesso, piuttosto che al nostro rientro, ed essere così vittime di una leggerezza di approccio, che questo articolo intende prevenire: chi vorrà, saprà infatti cogliere anche qualche utile consiglio.

E poi siamo ancora e sempre in speranzosa attesa di nomine, decreti, sanzioni… e chi vuol essere lieto, sia: di doman non c’è certezza.

_______________________________________________

  1. Decreto che non abrogherà il Codice per la protezione dei dati (decreto legislativo 196/2003) come si paventava ufficialmente all’inizio. E quindi si è correttamente ritenuto di mantenere in vita le norme utili del Codice come suggerito proprio sulle pagine di Agenda Digitale. Il Decreto è stato approvato definitivamente durante il Consiglio dei Ministri, tenutosi in data 8 agosto. Si attende adesso la sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. 
  2. Ho spiegato tante volte che occorre diffidare dalle facili “certificazioni” di DPO e consulenti privacy
  3. Continuo a utilizzare impropriamente la parola “privacy” in questo articolo e non “protezione dei dati personali” al solo fine di seguire la moda estiva.

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