Anche nella sicurezza informatica, al pari di quella classica che si occupa dei sistemi tecnologici, occorre introdurre una nuova dimensione che si concentri sull’elemento umano. Per farlo occorre però riformulare una serie di attività perché l’ipotesi alla base è sostanzialmente differente: le persone non sono tutte uguali, non sono sistemi informatici, il loro comportamento cambia nel tempo e le scienze coinvolte sono quelle umanistiche. Questo perché la fonte del rischio cyber non è un sistema informatico.
Per cambiare la postura delle organizzazioni verso la sicurezza informatica, ecco allora che i cybersecurity advocates possono essere una soluzione efficace.
Ripensare la cybersecurity mettendo le persone al centro: come farlo bene
È un problema profondamente multiculturale (si veda la figura sotto) che richiede competenze diverse, non solo tecniche. Considerare correttamente l’elemento umano nella sicurezza richiede un approccio realmente multiculturale ed interconnesso. Le opportunità sono davvero tante.
Una delle prime azioni da fare è quella di creare una cultura diffusa della sicurezza, che sia realmente pervasiva e non solamente “punitiva”. In grado cioè di cambiare realmente il comportamento delle persone “dall’interno”. In generale questo è un problema molto complesso e noto: nel tempo numerosi articoli si sono interrogati sulla efficacia dei metodi di formazione utilizzati nel contesto della sicurezza informatica[1]. Il problema è come creare percorsi formativi dedicati alle singole culture aziendali, in grado di superare i limiti imposti dal contesto operativo specifico.
Come formare le persone
Come si legge nel rapporto McKinsey “Enhanced cyber risk reporting: Opening doors to risk-based cybersecurity” del gennaio 2020[2], in molti settori, è oramai chiaro il pericolo rappresentato dalla criminalità informatica e la necessità di operare secondo schemi di protezione guidati da stime adeguate del rischio cyber.
Attualmente le risorse destinate alla sicurezza informatica sono relativamente inadeguate e vi è una cronica carenza di professionisti. Questo dato si riferisce sia ai classici problemi derivanti da e-mail create per indurre i destinatari a cliccare su un link, aprire un documento o inoltrare informazioni a qualcuno, ma anche agli errori di valutazione dei rischi o, più in generale, di valutazione e gestione di una emergenza.
A tal proposito si vedano le due proposte Cefriel di vulnerability assessment della componente umana dai due punti di vista:
- Social driven vulnerability assessment (SDVA). Gli impiegati sono sottoposti ad una simulazione avanzata ed altamente contestualizzata di spear phishing[3]
- Full Spectrum Vulnerability Assessment (FSVA). I responsabili della sicurezza informatica sono sottoposto ad una simulazione di attacchi completi, con lo scopo di capire se il team di security incident management è in grado di operare in un contesto di emergenza e sotto pressione. In questo caso si testa la componente umana dei gruppi di security che sta dietro a quella tecnologica[4].
Ciò suggerisce che la sensibilizzazione e la formazione continua in materia di cybersecurity di tutti i dipendenti, compresi quelli di livello dirigenziale, e dei futuri dipendenti sia fondamentale per fornire i mezzi e il know-how per identificare e mitigare le minacce informatiche, aiutandoli così a proteggere se stessi e le proprie aziende dai cyberattacchi. In altre parole, sia il training che la awareness sono strumenti per la riduzione di una grossa parte del rischio informatico aziendale.
Tuttavia, la formazione continua è costosa, richiede tempo e non è sempre considerata una priorità. In particolare, le PMI, a causa dei vincoli di bilancio e della mancanza di tempo e conoscenze, si concentrano piuttosto sugli aspetti competitivi e sulla progettazione di nuovi servizi e prodotti con tempi di commercializzazione brevi e minimizzazione dei costi. Ciò rende la capacità di reazione e di recupero delle PMI generalmente bassa[5]. Questi tipi di organizzazioni hanno spesso una preparazione relativamente inadeguata in materia di sicurezza informatica e non comprendono appieno le conseguenze (anche a lungo termine) dell’essere vittima di un attacco informatico. Attacco che, può svolgersi completamente al di fuori del contesto cyber.
Di solito le PMI vedono solo le cause di un attacco (ad esempio, qualcuno ha cliccato su un’e-mail di phishing o che un server è stato violato) e i suoi effetti espliciti, ma non le conseguenze economiche e operative nascoste e durature sui loro asset tangibili e intangibili (reputazione, capitale umano, progetti, proprietà intellettuale, perdita di clientela, ecc.). Questa situazione rappresenta un rischio reale per la sostenibilità dell’economia dell’UE, poiché, come affermato dalla Digital SME Alliance, “le PMI digitali possono essere un forte elemento costitutivo per sviluppare la sovranità digitale europea in materia di sicurezza informatica”. Attualmente però oltre il 90% delle PMI dell’UE si considera in ritardo nell’innovazione digitale[6] , anche a causa delle incertezze e delle lacune nella protezione dei loro beni e della mancanza delle competenze necessarie[7] [8].
Quando si parla di grandi aziende, la mancanza di interesse per la formazione sulla cybersecurity rimane, anche se le ragioni sono diverse. Le grandi aziende sono riluttanti a fornire formazione ai propri dipendenti se non è obbligatoria (ad esempio perché implicherebbe l’indisponibilità del personale durante i turni).
I cybersecurity advocates: moltiplicatori di cambiamento nei comportamenti sicuri
Nonostante l’abbondanza di tecnologie e linee guida ampiamente disponibili per la sicurezza informatica, individui e organizzazioni continuano a essere preda di attacchi digitali a un ritmo allarmante, a volte con conseguenze devastanti. La sicurezza è spesso vista come scomoda, irrilevante, costosa o addirittura misteriosa, con conseguente mancanza di adozione della sicurezza e il fallimento delle policy che mirano a cambiare i comportamenti di sicurezza. Professionisti e ricercatori si sono impegnati in modo significativo nello sviluppo di prodotti di formazione sulla sicurezza per risolvere questi problemi. Tuttavia, questi tentativi sono spesso eccessivamente focalizzati sulla aderenza a standard formativi e mancano completamente l’obiettivo fondamentale di creare un’abitudine profonda e radicata verso la sicurezza. E’ difficile difatti creare una cultura aziendale che potremmo definire “Security-first”.
Per questo motivo, è evidente che ci sia bisogno di professionisti in grado di motivare le persone e le organizzazioni nell’adozione di comportamenti di sicurezza sostenibili e positivi. Coloro che assumono questo ruolo richiedono una combinazione unica di competenze tecniche e interpersonali insieme a una comprensione di come affrontare l’interrelazione degli elementi sociotecnici sottostanti (umano, organizzativo, sociale, economico, e fattori tecnici) che influenzano l’adozione di sicurezza. Chiamiamo i professionisti che svolgono queste funzioni i “cybersecurity advocates”.
Le strategie di formazione
In Cefriel abbiamo elaborato alcune strategie di formazione che sono altamente contestualizzate, e vengono definite tramite un iniziale maturity assessment culturale. Lo scopo è individuare le caratteristiche culturali aziendali, cosa ha funzionato e cosa no, collegandolo con la “postura” aziendale sul rischio cyber e la maturità dei processi di difesa informatica. La nostra soluzione di formazione si basa su tre elementi importanti: consapevolezza della minaccia, influenza dei comportamenti, creazione di abitudini. Questo passa tramite alcune fasi:
- Valutazione iniziale tramite simulazione di attacchi sugli umani (i sopra citati SDVA e FSVA)
- Misurazione dell’esposizione dell’elemento umano dell’impresa al rischio cyber
- Definizione di piani di formazione personalizzati in modalità mista (ad esempio tramite tecniche consolidate come il nudging, i MOOC -Massive Open Online Courses-, l’e-learning o corsi e workshop presenza) sia generalisti sia per creare i cybersecurity advocates interni.
- Consulenza one-to-one per definire le azioni concrete di mitigazione e la misurazione del concreto impatto a lungo termite.
In generale, i cybersecurity advocates possono facilitare il passaggio verso la responsabilizzazione degli utenti. Dovrebbero possedere conoscenze e competenze relative all’IT, alle tecnologie di sicurezza e alle minacce alla sicurezza. Gli advocates devono essere in grado di interpretare con precisione e presentare le informazioni agli altri, il che richiede una forte comprensione a livello di relazioni interpersonali ed empatiche, su come certe azioni portano a risultati di sicurezza positivi o negativi.
La consapevolezza del contesto va di pari passo con forti capacità di comunicazione e la capacità di inquadrare in modo appropriato i messaggi di sicurezza. Quando si lavora con persone meno tecniche, gli advocates devono tradurre informazioni altamente tecniche in un linguaggio semplice. In altre parole, questo ruolo rappresenta l’anello di congiunzione fra le policy o le linee guida aziendali, derivanti da analisi di rischio cyber e le persone o gli stakeholders aziendali. Queste figure devono essere in grado di completare il quadro di creazione di una consapevolezza culturale diffusa e profonda tramite competenze nuove. In particolare, anche sociali, di convincimento, comunicative e relazionali. Hanno bisogno di essere esperti nell’uso di tecniche di leadership e pensiero strategico.
Il punto focale è la persuasione. Ad esempio, un advocate sulla formazione all’interno dei team di sviluppo deve poter conversare efficacemente e persuadere altri sviluppatori, senza però essere un tecnico hardcore. I cybersecurity advocates devono avere conoscenze tecniche sufficienti per essere credibili nei confronti del pubblico al quale si rivolgono. Per generare fiducia, costruire relazioni e facilitare il cambiamento del comportamento, gli advocates devono far leva su forti capacità interpersonali, tra cui capacità di ascolto, pazienza e collaborazione.
Ciò implica intelligenza emotiva ed empatia: ad esempio nel caso di un problema di ingegneria sociale, parte del lavoro è essere in grado di avere una conversazione e mettersi nei panni della persona con cui si sta lavorando e quindi essere in grado di dare consigli efficaci. Far sapere loro che non sono “stupidi” semplicemente perché non sanno come fare determinate cose.
Le organizzazioni possono produrre quantità di policy e processi interni, ma se non riesce a comunicarle alle persone in una lingua che capiscano, in una lingua che li renda ricettivi al messaggio, allora sono inutili. Per comunicare con un pubblico eterogeneo in modo coinvolgente, gli advocates devono quindi diventare abili nell’uso di analogie, metafore, narrazione, immagini, umorismo e riferimenti alla cultura pop. Secondo la mia esperienza, questo comporta anche un certo grado di creatività. Ad esempio, se i messaggi di awareness su e-mail di phishing vengono regolarmente ignorati dai dipendenti, magari a causa del sovraccarico di lavoro, potrebbe essere utile sperimentare soluzioni alternative, come cartoline di promemoria con una caramella, lasciate sulla scrivania di ogni dipendente.
Conclusioni
Alcuni standard sottolineano il bisogno di competenze non puramente tecniche per alcuni ruoli legati alla sicurezza informatica. Ad esempio, il framework NICE (National Initiative for Cybersecurity Education)[9] introduce alcuni ruoli simili come, ad esempio, il Cyber Instructional Curriculum Developer. Analogamente il SANS propone il ruolo del Security Awareness and Communications Manager con enfasi sulle competenze non tecnologiche[10] come l’importanza della “influenza” sulle persone[11].
E’ essenziale un cambiamento duraturo nei comportamenti individuali sulla sicurezza. Questo a causa del recente aumento degli attacchi informatici, indotto prima dalla pandemia e successivamente dal conflitto russo-ucraino, oltre alla confusione fra contesti domestici e lavorativi a causa dello smart working. I dubbi sulla concreta efficacia della formazione in cybersecurity, già discussi da qualche anno[12], ora sono certezze. Un cambiamento duraturo deve fare leva, in ultima analisi, su motivazioni intrinseche affinché l’igiene informatica diventi un’abitudine. Le soluzioni tecniche da sole non risolveranno la crisi della sicurezza informatica, questo è oramai chiaro. I cybersecurity advocates, grazie ad un mix di competenze tecniche, interpersonali e comunicative, possono essere una soluzione efficace.
Note
- Si veda ad esempio E. Frumento, “Formazione: come può evolvere con successo nell’ambito della cybersecurity?” ↑
- E. Frumento, “Social engineering, lo strumento Cefriel che ci dice quanto è vulnerabile la PA” ↑
- E. Frumento, “Cybersecurity: testare la responsiveness del team di incident management con i Full Spectrum Vulnerability Assessment”↑
- Privacy Australia, “[Report] Most Common Vulnerabilities for SMEs (2015-2019),” 2019.↑
- European Commission, “Capitalising on the benefits of the 4th Industrial Revolution,” 2018. [Online]. ↑
- European Union, “Skill for SMEs. Cybersecurity, Internet of things and big data for small and medium-sized enterprises,” European Union, Bruxelles, 2019 ↑
- EASME Consortium, “EASME European Project,” [Online]. ↑
- R. Petersen, D. Santos, M. C. Smith, K. A. Wetzel, and G. Witte, “Workforce framework for cybersecurity (NICE framework),” National Institute of Standards and Technology, Gaithersburg, MD, NIST Special Publication 800-181 Revision 1, 2020. ↑
- “NIST NICE work role description for security awareness and communications manager,” SANS, North Bethesda, MD, 2019. ↑
- “Using Influence Strategies to Improve Security Awareness Programs”, SANS Institute ↑
- Ad esempio si veda “Is cybersecurity awareness a waste of time?” ↑