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Sorveglianza di massa, la Cina è un sistema a “diritti affievoliti”: perché lo tolleriamo e cosa rischiamo

Da tempo, i cittadini cinesi si sono abituati all’idea di essere costantemente sorvegliati in cambio di una governance che, idealmente, rende le loro vite più sicure e facili. Ma la Cina non è sola: anche l’Europa deve rispondere delle proprie responsabilità, finora sottaciute, per lo sviluppo di tecnologie di sorveglianza

Pubblicato il 22 Nov 2022

Barbara Calderini

Legal Specialist - Data Protection Officer

china surveillance

Il Partito Comunista cinese, peraltro con la partecipazione della Silicon Valley, Intel, IBM, Seagate, Cisco e Sun Technologies (che hanno contribuito a rendere i sistemi di sorveglianza all’avanguardia accessibili e convenienti), è riuscito a costruire un nuovo contratto sociale con i suoi cittadini.

Una sorta di stato di polizia distopico presidiato dalle forze di sicurezza nazionale, armate di intelligenza artificiale: sostenuti da pensatori scientifici cinesi fondamentali come Qian Xuesen, i cinesi si sottomettono alla sorveglianza digitale in cambio di una governance più precisa che, idealmente, rende le loro vite più sicure e più facili; dai modelli di traffico alla sicurezza alimentare, alla risposta alle emergenze.

Uno stato di cose delineato chiaramente dai giornalisti del Wall Street Journal Josh Chin e Liza Lin, autori di Surveillance State: Inside China’s Quest to Launch a New Era of Social Control.

China’s Surveillance State: Why You Should Be Worried | System Error

China’s Surveillance State: Why You Should Be Worried | System Error

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Surveillance State: il controllo sociale in Cina che plasma la volontà delle persone

Alibaba e Tencent, giganti tech cinesi, tornati sotto il controllo del Partito Comunista a seguito del “giro di vite” intrapreso dalla Cina contro le società tecnologiche più potenti, controllano enormi quantità di dati comportamentali; tutti accessibili al governo: sin dal 2016 nella città di Hangzhou, Alibaba ha sviluppato una piattaforma cloud chiamata City Brain che monitora le condizioni del traffico, rileva incidenti stradali, regola i semafori per ridurre i tempi di viaggio e persino i tempi di risposta dei veicoli di emergenza. L’intelligenza artificiale di City Brain, asservita alle velleità del governo, è solo una delle tante applicazioni in grado controllare i veicoli di un’intera città.

Grandi quantità di dati, (la Cina ha già superato gli Stati Uniti per quanto riguarda la quantità totale di dati che è in grado di trattare e produrre) vengono raccolte, elaborate da algoritmi nei supercomputer, quindi reinserite nei sistemi della città, resi disponibili all’autorità.

Leadership confuciana

Ogni espressione dell’autorità di governo in Cina viene intesa dai cinesi alla stregua di un assioma ontologico: l’interesse pubblico prevale su quello del singolo; il capillare controllo della società e le esigenze di pubblica sicurezza si impongono sui diritti degli individui.

Non è un caso che la Repubblica Popolare Cinese sia oggi il più importante esempio di Stato socialista ancora esistente, sebbene con alcune evidenti peculiarità che ne hanno caratterizzato il discostamento rispetto alla concezione tradizionale: prima fra tutte la capacità della classe dirigente cinese di interpretare le dinamiche dell’attuale fase storica della globalizzazione e di volgerle a proprio favore consentendole di emergere come protagonisti indiscussi della scena economica internazionale.

La Cina contro lo strapotere delle big tech: cosa c’è dietro la stretta

E certo, il fatto che la Cina, in tale contesto, si ponga come un sistema a “diritti affievoliti” non stupisce. Tanto è connaturato alla sua stessa storia e tradizione.

È altresì sancito espressamente nella Carta costituzionale cinese dove, a fronte di un elenco di diritti e doveri fondamentali, è infatti previsto che “i cittadini nell’esercizio dei loro diritti e libertà, non possano violare gli interessi dello Stato, della società o della collettività” (art.li 51, 53 e 54).

Il Partito è l’interprete unico dell’uniformità di intenti che deve contraddistinguere l’azione statale a tutti i livelli; le assemblee popolari, dal parlamento a quelle dei diversi enti locali, province regioni autonome, prefetture e contee, assurgono al ruolo di “organi e strumenti del potere statale”.

Ed è in tale contesto che trovano terreno fertile le molteplici applicazioni e i sistemi di sorveglianza che rendono le città cinesi le più monitorate al mondo: Golden Shield, Skynet, Safe Cites, Police Clouds, Project Sharp Eyes, e altri.

Sorveglianza di massa in Cina, il modello che spaventa l’Occidente

Da tempo i cittadini cinesi si sono adattati a tale forzosa convivenza. E la leadership cinese, forte degli strumenti di governance derivanti dalla dottrina della “Grande Armonia”, ha in tal modo potuto perseguire i nuovi programmi di sviluppo e di soft power culturale globale, radicandoli proprio nella tradizione e nella ferrea obbedienza dei cinesi ai capisaldi dell’etica confuciana.

Un sofisticato database nazionale collega documenti di identificazione, telecamere a circuito chiuso, sistemi di riconoscimento di aziende cinesi come Huawei, Sensetime, Megvii e China Electronics Technology Group Corporation, registrazioni di impronte digitali, campioni di DNA, scansioni dell’iride e gruppi sanguigni, cronologie di viaggio, tracciamento dei telefoni, monitoraggio degli acquisti online e meccanismi di decrittazione dei messaggi scambiati dagli individui: tutte informazioni sottomesse al monitoraggio del governo cinese.

Xue Liang”, ovvero “Occhio di falco” è il nome del programma di videosorveglianza a tappeto del presidente Xi Jinping e di Pechino. Spyware nei cellulari, telecamere per il riconoscimento facciale, wi-fi sniffer: si basa su un mix di tecnologie vecchie e nuove la grande rete voluta dal presidente Xi che punta a “controllare” 1,4 mld di abitanti in Cina.

Diffusione e pervasività della sorveglianza sociale che la società di sicurezza Comparitech ha voluto classificare a livello mondiale: la Cina ospita oltre 540 milioni di telecamere di sorveglianza, circa la metà di tutte le telecamere del mondo e detiene il primato con otto delle prime 10 città più sorvegliate al mondo. L’apice si tocca a Chongqing, grande agglomerato urbano situato nel sud-ovest del paese, dove confluiscono i fiumi Azzurro e Jialing, con quasi 2,6 milioni di telecamere, ovvero 168,03 per 1.000 persone. Seguono Shenzhen, nella provincia meridionale del Guangdong e Urumqi, nota capitale della regione autonoma cinese dello Xinjiang Uygur.

Apposite telecamere vengono posizionate dove le persone si recano per soddisfare i loro bisogni comuni, come mangiare, viaggiare, fare shopping e divertirsi; telecamere per il riconoscimento facciale si trovano all’interno di spazi privati, come edifici residenziali, sale karaoke e hotel; dispositivi, noti come wi-fi sniffer e catcher IMSI, raccolgono informazioni dagli smartphone consentendo alla polizia di tracciare i movimenti di un dato bersaglio.

Due giornalisti del New York Times, Paul Mozur e Aaron Krolik, hanno descritto il modo in cui i vari strumenti di sorveglianza vengono combinati all’interno di un vasto sistema integrato e connesso, alimentato da un insieme di tecnologie, alcune all’avanguardia ed altre piuttosto datate.

L’articolo del NYT presenta, con ricchezza di particolari e riscontri video, come tutte queste funzionalità siano diventate largamente disponibili per le Autorità di polizia di ogni livello e come i dati raccolti possano essere resi accessibili ad una vasta gamma di terze parti sia pubbliche, per scopi di intelligence e sicurezza pubblica, che private, per scopi commerciali e di marketing. Il tutto, peraltro, attraverso pratiche di sicurezza del tutto assenti se non inadeguate, livelli di fallacia algoritmica piuttosto significativi e un livello inquietante di pregiudizi sistemici.

Human Rights Watch (HRW), con sede a New York, riporta l’esistenza di un documento ufficiale, risalente al 2017, chiamato “The [Xinjiang Uyghur Autonomous] Region Working Guidelines on the Accurate Registration and Verification of Population” (全区人口精准登记核实工作指南, “The Population Registration Program”), che descrive il funzionamento di una banca dati biometrica, destinata in modo specifico al controllo delle minoranza etnica Uiguri, che aggrega e archivia su server governativi le delicate informazioni degli individui coinvolti in nome di apparenti politiche antiterrorismo: operazioni che le Nazioni Unite hanno già dichiarato idonee a costituire crimini contro l’umanità.

Le stesse applicazioni di monitoraggio sviluppate in costanza di pandemia, come quella chiamata Health Code (Codice sanitario), lanciata dalla città cinese di Hangzhou, sembrerebbero essere destinate a non esaurire la loro funzione con la fine dell’emergenza sanitaria ma a diventare veri e propri “passaporti digitali” dei cittadini in pianta stabile. Come dire un upgrade permanente della sorveglianza di massa che grava sui cittadini in Cina.

L’IoT offre l’infrastruttura necessaria per la sorveglianza 

Edward Schwarck, uno studente in sicurezza pubblica cinese presso l’Università di Oxford, ha approfondito il ruolo del ministero della Pubblica Sicurezza Cinese descrivendone lo sviluppo nel corso del tempo in chiave di intelligence.

Le sue analisi hanno evidenziato come il ministero iniziò a riformare ed aggiornare le sue strutture di intelligence all’inizio degli anni 2000 con l’intento di ristabilire il “dominio dell’informazione” su una società sempre più fluida e tecnologicamente sofisticata. Le evidenze raccolte hanno dimostrato come lo stesso si sia adattato allo sviluppo tecnologico trasformando ed adeguando, alle potenzialità offerte dalle nuove tecnologie, le proprie procedure di raccolta, analisi e diffusione delle informazioni, fino a dare forma all’attuale sistema di intelligence di pubblica sicurezza.

Ebbene, secondo Schwarck “definire un modello simile come sistema di polizia basato sull’intelligence o sulle analisi predittive distoglie l’attenzione dal fatto che ciò che sta accadendo in alcune aree del Paese, come nello Xinjiang: non riguarda affatto la polizia, ma una forma di vera e propria ingegneria sociale”.

Nel frattempo, mentre da una parte le reazioni della comunità internazionale sulla questione dei diritti umani nello Xinjiang e di altri crimini umanitari nel mondo rimangono piuttosto deboli e poco coordinate, rivelando ben più di una frattura a seconda degli interessi economici con Pechino, dall’altra, le tattiche di propaganda e disinformazione dei regimi autoritari, tra cui la Cina, evolvono in forme sempre più sofisticate, e al centro di questi sforzi globali di repressione e controllo dell’informazione ci sono sempre i social media: Twitter, Facebook, YouTube, oltre naturalmente a TikTok

Chiaro, dunque, che applicazioni omnicomprensive “di fatto insostituibili” come WeChat assumono, nell’alveo del loro terreno d’elezione – lo spazio digitale – un ruolo strategico sinergico e cruciale, con effetti calamitanti dentro e fuori dal territorio cinese.

Un universo non solo di sorveglianza ferrea ma anche “geo mediatico”, peraltro, ben sedimentato: le prime interferenze governative riscontrate su Wechat risalgono al 2013, con la censura dei post e delle chat contenenti le parole “Falun Gong” (法轮功) e “Southern Weekend” (南方周末).

Più di un miliardo di smartphone in tutto il mondo dove l’app interagisce con gli apparati di polizia fornendo l’accesso a query di ricerca e contrassegni di tag specifici e dove persino l’inattività digitale stessa può destare sospetti.

Censura e propaganda

Il controllo dell’informazione è un elemento ritenuto cruciale; l’apparato di propaganda “visibile” della Cina è ben radicato e la gestione della verifica dei contenuti informativi sia interna che esterna riveste una priorità assoluta per il PCC.

Censura, insomma. Ma non solo, perché alla censura si accompagna l’attività di propaganda: gli obiettivi di controllo sulle informazioni della Cina abbracciano tanto operazioni di influenza negli ecosistemi tradizionali quanto nei social media, ritenuti non a caso percorsi preferenziali usati per deviare il dibattito come veri e propri distrattori sociali.

Luoghi virtuali di condivisione in cui l’utilizzo di contenuti di terze parti rivela un potenziale di amplificazione ed effetti di rete talmente appetibili da porsi in perfetta sinergia con l’operato interno dei media governativi, strategicamente coordinati per orientare il discorso pubblico e la governance internazionale, a scapito dei diritti e delle libertà fondamentali universali.

Una sorta di “censura inversa” che si oppone al dissenso politico anticinese con il rumore creato dall’effetto cascata dei post governativi appositamente costruiti.

Tutte circostanze queste ben descritte nello studio sulle operazioni di informazione a spettro completo della Cina, analizzato dall’Hoover Institution e dall’Osservatorio Internet di Stanford, di cui sono autrici Renèe Diresta, Carly Miller, Vanessa Molter, Jhon Pomfret e Glenn Tiffert, ma anche nel rapporto di Recorded Future e nell’analisi dell’Australian Strategic Policy Institute, che documentano in modo esauriente e con dovizia di particolari le armi di propaganda e censura del governo cinese.

Il Great Firewall è l’ulteriore strumento di sorveglianza che blocca decine di migliaia di siti Web invisi al Partito. Proprio il rafforzamento della “sfera ideologica” nel contesto di quella che la Cina stessa definisce una “Guerra globale dell’informazione” viene esplicitamente identificato dal Comitato centrale del Partito comunista tra gli obiettivi cardine, imprescindibile per l’affermazione della supremazia del Paese, nonché baluardo contro i pericoli derivanti dalla minaccia delle avverse forze occidentali: dai valori universali e fondamentali espressione della democrazia costituzionale di matrice neoliberalista, alla concezione occidentale dell’ecosistema informativo che sfida il principio cinese secondo cui i media e il sistema editoriale dovrebbero essere soggetti alla disciplina del Partito.

Sotto la leadership del Presidente Xi, la repressione di qualsiasi voce dissenziente ha, infatti, ricevuto una svolta ulteriormente restrittiva e rigorosa. Non è un mistero che proprio la Cina detenga oggi il primato di giornalisti incarcerati, ponendosi al primo posto nella classifica dei Paesi con il maggior numero di reporter reclusi, prima di Turchia, Arabia Saudita ed Egitto.

Una situazione che lo stesso Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj) ha definito “in costante peggioramento”. E altrettanto significative in tal senso risultano le numerose “espulsioni” dei giornalisti occidentali ritenuti spesso “ostili”: ne sono coinvolti testate come il Wall Street Journal, Bloomberg e il New York Times.

Il sistema nazionale di credito sociale

Non ultimo rileva, in termini di controllo, il sistema nazionale di credito sociale (un insieme di «modelli» per verificare l’«affidabilità» delle persone associandole a un punteggio e a blacklist) finalizzato a valutare “e dunque prevenire” la condotta di ogni cittadino cinese, in ogni ambito: dall’accesso al credito alla tendenza alla commissione dei crimini.

E il “sistema dei crediti sociali” rappresenta solo uno dei tanti aspetti oscuri e distopici dei piani di ingegnerizzazione sociale in Cina.

Se infatti da una parte i crediti sociali mirano a creare una società basata sulla fiducia dove però cosa è virtuoso e morale lo decide il partito comunista, un’ulteriore “griglia sociale” viene stabilita dalle smart city, a loro volta governate socialmente attraverso crediti sociali e capacità tecnologiche che consentono raccolta ed elaborazioni di dati continua.

Forme di iper-sorveglianza nei confronti della quale milioni di cinesi nel mondo, e non solo, stanno divenendo ormai insensibili e dove la libertà personale ha un costo inimmaginabile. E le possibilità di scelta sono inesistenti.

Dall’IA alle smart cities, passando per le applicazioni social come WeChat, la Cina ha infatti assunto una posizione pesantemente sfidante e per il momento vincente rispetto alla supremazia tecnologica filoccidentale.

Nella hall dell’Institute of Automation, il campus di laboratori nazionali dell’Accademia cinese delle scienze, un poster gigante del Presidente Xi Jinping in abito nero, convalida quanto l’obiettivo del potenziamento del sistema digitale di controllo sociale – pattugliato da algoritmi precognitivi addestrati al riconoscimento dell’iride, alla sintesi vocale basata su cloud e al controllo dei potenziali dissidenti in tempo reale – rappresenti per la nazione la priorità assoluta.

I Big Data costituiscono la risorsa inestimabile per fare tali previsioni. I funzionari possono attingere a questa capacità per gestire crimini, proteste o impennate dell’opinione pubblica online.

Un network, quindi, dove la repressione del crimine va di pari passo con l’analisi di polizia predittiva e la censura con la propaganda: coloro che esprimono opinioni non ortodosse online possono diventare soggetti di attacchi personali mirati nei media statali. La sorveglianza e l’intimidazione sono ulteriormente integrate da una vera e propria coercizione, tra cui visite di polizia, arresti, “confinamenti rieducativi”.

Ubi data ibi imperium

In tutto ciò il Partito Comunista è stato straordinariamente abile nel plasmare la conversazione sulla privacy.

In tal senso uno degli eventi normativi significativi dell’ultimo periodo è senza dubbio l’introduzione della legge sulla privacy cinese, Personal information protection law (“Pipl”) cinese, che interessa molte aziende internazionali operanti in Cina o intenzionate a coltivare relazioni commerciali con il territorio cinese.

Una legge che si inserisce in un sistema regolatorio in costante evoluzione, di cui fanno parte anche la Cybersecurity Law, in vigore dal primo giugno 2017 e la Data Security Law. approvata il 10 giugno 2021, in vigore da settembre 2021, con impatti a livello domestico e internazionale estremamente imprevedibili, specie per i riflessi in fatto di circolazione internazionale dei dati e dell’adozione di misure destinate allo sviluppo di tecnologie relative al riconoscimento facciale, all’intelligenza artificiale e all’analisi dei dati.

Parliamo di un sistema giuridico solido dove impiantare il regime di sicurezza delle informazioni e dei dati in Cina, mira, in modo specifico, a potenziare le esigenze di sovranità digitale ritenute prioritarie da Pechino, a maggior ragione nel contesto dell’attuale competizione tecnologica e commerciale con gli USA.

Lo Stato, Pechino, sede del potere politico, diviene a tutti gli effetti il tutore della salvaguardia dei dati e della sovranità digitale della società cinese.

Sorveglianza di Stato e Capitalismo di sorveglianza ovunque

Ma la Cina non è l’unico paese ad utilizzare e ad offrire una visione chiara di come gli Stati dovrebbero utilizzare le tecnologie di sorveglianza (i sistemi di controllo della polizia cinese vengono venduti in più di 80 paesi in tutto il mondo, comprese diverse democrazie).

La stessa Europa viene chiamata a rispondere delle proprie responsabilità, finora sottaciute, per lo sviluppo di tecnologie di sorveglianza. Negli anni, la collaborazione dell’Ue con i Paesi limitrofi per il controllo delle migrazioni ha rafforzato i regimi autoritari, fornito un boom di profitti per le imprese della sicurezza e ai produttori di armamenti, distolto risorse dallo sviluppo e indebolito i diritti umani.

A settembre 2020 Amnesty International, auspicando il divieto assoluto dell’uso indiscriminato delle tecnologie di riconoscimento facciale, ha diffuso il rapporto “Out of Control: Failing EU Laws for Digital Surveillance Export”, in cui ha reso evidente come tre aziende europee con sede in Francia, Svezia e Paesi Bassi abbiano venduto sistemi di sorveglianza ad agenzie di sicurezza cinesi coinvolte nelle violazioni dei diritti umani. Il caso più conosciuto è quello che riguarda la minoranza musulmana uiguri nella regione dello Xinjiang. E il riferimento è rispettivamente a Morpho (ora Idemia), Axis Communications e Noldus Information.

Ma tra tutti il rapporto che ha destato il rumore maggiore, per l’ampiezza e specificità delle denunce (tutte documentate) è senza dubbio lo studio “Surveillance Disclosures Show Urgent Need for Reforms to EU Aid Programmes” pubblicato il 10 novembre 2020 da Privacy International di cui si consiglia l’attenta lettura.

Sono molte le organizzazioni europee coinvolte nelle recriminazioni: dall’Agenzia di frontiera Frontex al Servizio europeo per l’azione esterna, dal Fondo fiduciario dell’UE per l’Africa all’Agenzia dell’Unione europea per la formazione delle forze dell’ordine (CEPOL) e all’EUROPOL; comprese le istanze di chiarimento rivolte all’EDPS quanto all’Opinion 2/2018 relativa agli otto mandati negoziali volti alla conclusione di accordi internazionale che consentirebbero lo scambio di dati tra Europol e paesi terzi.

Il riconoscimento facciale è sedimentato e certo “ben sovvenzionato” da tempo. In Europa, Cina e ovunque: in Florida, l’ufficio dello sceriffo della contea di Pinellas (PCSO) gestisce uno dei più grandi database di riconoscimento facciale in America.

Se dunque i governi dei paesi autocratici e semi-autocratici sono più inclini ad abusare della sorveglianza dell’IA rispetto ai governi delle democrazie liberali, queste restano comunque i principali utilizzatori e fornitori della sorveglianza dell’IA.

L’origine dell’odierno Panopticon cinese e la sua inarrestabile evoluzione non sono altro che il risultato di un’accelerazione resa possibile dalla grande trasformazione tecnologica del paese (e con essa la nuova straordinaria capacità di raccogliere dati biometrici da parte di Pechino). La diffusione della sorveglianza, in particolar modo applicata all’AI, continua senza sosta.

E se il suo utilizzo da parte di regimi autoritari per progettare repressioni contro popolazioni mirate ha già suonato campanelli d’allarme, tuttavia anche in paesi con forti tradizioni di stato di diritto, l’IA fa sorgere problematiche etiche fastidiose ed urgenti.

Un numero crescente di stati nel mondo oltre alla Cina sta implementando strumenti avanzati di sorveglianza dell’IA per monitorare, rintracciare e sorvegliare i cittadini per raggiungere una serie di obiettivi politici: alcuni legali, altri che violano palesemente i diritti umani e molti che cadono in una via di mezzo oscura.

Questo è il quadro descritto da Carnegie Endowment for International Peace, uno dei più antichi e autorevoli think tank statunitensi di studi internazionali.

“La tecnologia legata alle società cinesi – in particolare Huawei, Hikvision, Dahua e ZTE – fornisce la tecnologia di sorveglianza dell’IA in 63 paesi, 36 dei quali hanno aderito alla Belt and Road Initiative cinese” afferma il Rapporto.

Oltre alle società cinesi, la giapponese NEC fornisce la tecnologia di sorveglianza dell’IA a 14 paesi e IBM in 11 paesi, secondo il rapporto Carnegie. “Anche altre società con sede in democrazie liberali – Francia, Germania, Israele, Giappone – svolgono un ruolo importante nel proliferare di questa tecnologia”. Tutti questi paesi, evidenzia il Rapporto “non stanno però adottando misure adeguate a monitorare e controllare la diffusione di tecnologie sofisticate collegate a una serie di importanti violazioni”.

Gli esperti esprimono preoccupazione in merito ai tassi di errore del riconoscimento facciale e all’aumento dei falsi positivi per le popolazioni minoritarie. Il pubblico è sempre più consapevole dei pregiudizi algoritmici nei set di dati di addestramento di AI e del loro impatto pregiudizievole sugli algoritmi di polizia predittiva e altri strumenti analitici utilizzati dalle forze dell’ordine. Anche applicazioni IoT benigne – altoparlanti intelligenti, blocchi di accesso remoti senza chiave, display con trattino intelligente per autoveicoli – possono aprire percorsi problematici alla sorveglianza. Le tecnologie pilota che gli Stati stanno testando ai loro confini – come il sistema di riconoscimento affettivo di iBorderCtrl – si stanno espandendo nonostante le critiche che si basano su scienza difettosa e ricerca non comprovata.

Inevitabilmente sorgono le domande inquietanti sull’accuratezza, correttezza, coerenza metodologica e impatto pregiudizievole delle tecnologie di sorveglianza avanzate.

Conclusioni

Dal momento che gli algoritmi non sono neutrali, imparziali ed oggettivi e che molto difficilmente le loro implementazioni potranno tradursi in mere scelte amministrative, di ordine pubblico e sicurezza nazionale o di business, allora la domanda è: perché si continuano a tollerare, se non addirittura a favorire, scelte “politiche” che prestano il fianco alle ambizioni degli stati dispotici, o anche democratici, primattori dei diversi approcci di sorveglianza a vantaggio dello sfruttamento commerciale, governativo e a scapito dei diritti umani?

La risposta a questa domanda è complessa. E per le democrazie avanzate la sfida lanciata da queste problematiche è globale e immensa.

I soli adeguamenti normativi, sebbene necessari, non basteranno a garantire trasparenza e correttezza. Ugualmente non saranno sufficienti le pronunce delle alte Corti per definire precisi ambiti di responsabilità e, neppure i progressi tecnologici, tesi ad abbattere il margine di fallacia dei processi algoritmici, potranno arginare adeguatamente i rischi di discriminazione.

Neppure sarà sufficiente “tagliare la catena di approvvigionamento globale della tecnologia di sorveglianza”.

In tanti, non solo negli stati autoritari, continueranno a “fidarsi supinamente” degli (ab)usi promossi da queste tecnologie, vittime di un approccio incauto che rende la sorveglianza parte integrante e naturale del panorama contemporaneo.

Quello tra l’Occidente e la Cina non è un rapporto di sole relazioni tra governi, è altresì una connessione, ancora per nulla compresa, tra le diverse percezioni, che i rispettivi cittadini hanno su temi divisivi, come può esserlo quello dei diritti fondamentali e del potere che promana dall’autorità.

La necessità di pensare in modo critico e consapevole sui sistemi di sorveglianza e certo sugli algoritmi di AI in generale diventa evidente.

Non servono, però, approcci solo teorici, di parte o peggio solo distopici. Se da una parte la strategia cinese mira al controllo totalitario della propria società e al predominio in campo scientifico entro il 2030 e quella russa si concentra sulle applicazioni in materia di intelligence, dall’altra, negli Stati Uniti, il modello liberista crea una biforcazione tra settore pubblico e privato, in cui i colossi tecnologici della Silicon Valley puntano alla mercificazione deregolata delle opportunità tecnologiche.

E, ancora oggi, il ruolo dell’Unione europea nell’ecosistema digitale globale è in gran parte ancora da decidere.

Parlando di intelligenza artificiale – ci riferiamo a qualcosa che in realtà ha zero intelligenza e zero semantica: il significato e il senso lo danno le persone.

Che si parli di stato totalitario o di sorveglianza di massa piuttosto che di monopolio digitale e di capitalismo di sorveglianza, il solo discrimine e la vera ricchezza tra ciò che ci consentirà o meno di guidare consapevolmente ed efficacemente il percorso verso un progetto umano sostenibile e la necessaria riconciliazione tra l’umanità e lo sviluppo tecnologico, dipende in primis dall’uomo stesso, dalle sue scelte.

E dunque ampio spazio all’alta politica che rivela “l’arte dei migliori”, capace di generare una cultura diffusa in grado potenziare valori radicati ed impregnati di umanità così da fornire adeguate risposte ai sonori biasimi sollevati. Poiché l’avanzata dei modelli di sorveglianza sociale rischia di farci perdere una guerra che non è di predomino economico e politico, ma di civiltà.

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