È di recente diffusione la notizia che riguarda Israele e il sequestro di decine di conti in bitcoin attraverso i quali il gruppo terrorista palestinese Hamas sta raccogliendo fondi per il suo braccio armato. Non è il primo esempio di “guerra” che si gioca sul campo tecnologico.
Vediamo di che si tratta e le implicazioni nel mondo e in Italia.
Israele sequestrerà i bitcoin di Hamas: il nuovo ruolo delle criptovalute nei conflitti
Wallet Hamas e intelligence
È a colpi di bitcoin che Israele sta attaccando Hamas, il gruppo terrorista palestinese, nemico storico, che sta raccogliendo fondi attraverso conti in criptovaluta per rafforzare il suo esercito. Tutto è partito dalla scoperta di una rete di portafogli elettronici appartenenti a Hamas per la raccolta fondi online, a seguito di cui il ministro della difesa israeliano Benny Gantz ha disposto alle forze dell’ordine di iniziare il sequestro. Gantz ha dichiarato che “Gli strumenti di intelligence, tecnologici e legali che ci permettono di mettere le mani sul denaro dei terroristi in tutto il mondo costituiscono una svolta operativa”.
Le criptovalute, essendo difficilmente tracciabili, sono preferite per le transazioni illecite e da un’analisi effettuata da Chanialysis, piattaforma di dati Blockchain che opera su oltre 60 nazioni, risulta, prima di tutto, che gli indirizzi che hanno ricevuto l’ordine di sequestro temporaneo sono legati ad Hamas, diversi indirizzi hanno ancora dei fondi, altri sono parte o riportano a Exchange più o meno conosciuti. Il sistema Blockchain, essendo totalmente trasparente, consente un monitoraggio preciso per verificare i trasferimenti di denaro e considerare le adeguate azioni di sequestro.
Criptovalute e legge italiana per prevenire il terrorismo
In Italia sono stati attuati alcuni provvedimenti per prevenire l’uso illecito, anche a scopo terroristico, dei circuiti finanziari in criptovalute.
Il D.lgs 25 maggio 2017, n.90, “Attuazione della direttiva (UE) 2015/849 relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo e recante modifica delle direttive 2005/60/CE e 2006/70/CE e attuazione del regolamento (UE) n. 2015/847 riguardante i dati informativi che accompagnano i trasferimenti di fondi e che abroga il regolamento (CE) n. 1781/2006”, riguarda anche le criptovalute, che sono definite, infatti, “una rappresentazione di valore digitale che non è né emessa da una banca centrale o da un ente pubblico né è legata ad una valuta legalmente istituita, non possiede uno status giuridico di valuta o moneta, ma è accettata da persone fisiche e giuridiche come mezzo di scambio, ed eventualmente per altri fini, e può essere trasferita, memorizzata o scambiata elettronicamente”.
Inoltre, nell’articolo 270 quinquies 1 del codice penale, “Finanziamento di condotte con finalità di terrorismo”, il finanziamento al terrorismo viene dichiarato al pari di qualsiasi altra azione con lo stesso scopo, si legge che “chiunque, al di fuori dei casi di cui agli articoli 270-bis e 270-quater.1, raccoglie, eroga o mette a disposizione beni o denaro, in qualunque modo realizzati, destinati a essere in tutto o in parte utilizzati per il compimento delle condotte con finalità di terrorismo di cui all’articolo 270-sexies è punito con la reclusione da sette a quindici anni, indipendentemente dall’effettivo utilizzo dei fondi per la commissione delle citate condotte.
Chiunque deposita o custodisce i beni o il denaro indicati al primo comma è punito con la reclusione da cinque a dieci anni”. La responsabilità penale è stata estesa anche ai cambiavalute e ai wallet provider per limitare quanto possibile eventuali attività di money dirting o money laundering. In questo modo, le due figure professionali possono costituire uno strumento in più per le forze dell’ordine e le intelligence nella lotta al finanziamento del terrorismo.
Non solo Hamas: cosa accade nel mondo
Non è la prima volta che tra Israele e Palestina lo scontro avviene sul terreno digitale, basti pensare alla propaganda di entrambe attraverso ogni tipo di strumento, videogiochi compresi, disinformazione sociale e ora anche le criptovalute.
Nei combattimenti di maggio scorso, durati undici giorni, Hamas ha registrato perdite importanti e infatti i trasferimenti di bitcoin e non solo, dato che sono state utilizzate anche altre valute, come Ethereum e Dogecoin, la valuta portata in auge da Elon Musk, risalgono principalmente a giugno.
Neanche gli Stati Uniti sono nuovi a questo tipo di azione. Nel 2020, infatti, sono stati sequestrati milioni di dollari da conti di criptovalute che al-Qaeda e ISIL (ISIS) usavano per le loro organizzazioni criminali. Il sequestro per mano del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha riguardato circa 2 milioni di dollari confiscati, più di 300 conti di criptovaluta, quattro siti web e quattro pagine Facebook, più oltre 150 conti di criptovaluta di Hamas con fondi riciclati da e verso conti gestiti dal gruppo.
Qualche anno fa, nel 2016, una campagna di raccolta fondi bitcoin chiamata Jahezona, lanciata su Twitter e Telegram da un gruppo terroristico della Striscia di Gaza, è arrivata a raccogliere nel giro di due anni 15 donazioni, di cui due del valore di 289.273 dollari e 123.021 dollari.
Da fonti anonime dell’FBI si parla della Corea del Nord come fulcro da cui sono stanno reclutando esperti (progetto Lazarus) per finanziarsi attraverso attacchi ransomware e il virus Wannacry. La raccolta dei fondi pare sia arrivata a 2 miliardi di dollari in criptovalute.
Il terrorismo si autofinanzia con le criptovalute
«Ci troviamo in un mondo in cui la possibilità del terrorismo, unita alla tecnologia, potrebbe farci pentire di aver agito». Le parole dell’ex Segretario di Stato e Consigliere per la Sicurezza Condoleezza Rice in riferimento all’attacco delle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, uno degli attacchi terroristici più significativi degli ultimi anni, sono a distanza di 20 anni molto attuali. In questo ventennio, infatti, terrorismo e tecnologia si sono evoluti e hanno potenziato il proprio legame, sfatando anche la diffusa convinzione secondo cui l’Islam, con la sua visione conservatrice, non avrebbe mai sfruttato le potenzialità delle tecnologie per agire. Ed ecco che, infatti, Blockchain e bitcoin, la prima criptovaluta in assoluto, entrano a far parte degli strumenti del terrorismo.
Vediamo prima di tutto di cosa parliamo. Blockchain sta per “catena di blocchi” contenenti dati di transazioni finanziarie, individuati univocamente attraverso codici chiamati hash. Ogni blocco è legato a dei nodi, computer dall’alta capacità di calcolo che verificano la validità e l’ammissibilità o meno di una transazione, partendo dal controllo sul soggetto che trasferisce il denaro virtuale. La criptovaluta è una moneta virtuale, un contante digitale, che si colloca tra la moneta fisica, con cui è accomunata per il carattere di pseudo-anonimato, la convertibilità, la trasferibilità e il basso rischio, e quella elettronica, da cui riprende la velocità di trasferimento e il basso costo di transazione.
Il bitcoin si è fatto strada dopo la crisi economica del 2008 a causa della sfiducia nelle istituzioni bancarie tradizionali e per la democratizzazione finanziaria che rappresenta: non ci sono intermediari, non c’è controllo statale e il suo ideatore, Satoshi Nakamoto, voleva proprio questo, creare potete d’acquisto, non solo dare la possibilità di trasferire. Ciò che attrae il jihad nell’utilizzare la criptovaluta è la possibilità di produrre ricchezza, la possibilità di autofinanziarsi e di fundraising. Con questo tipo di finanziamento, si fanno crescere i bambini già con l’idea del terrorismo e soprattutto del nemico occidentale. Questi bambini poi vengono finanziati dalle criptovalute in maniera celata, si mandano a studiare fuori dalla propria nazione e diventano i cosiddetti lupi isolati o solitari che continuano a fare stragi anche in Europa.