l'analisi

La notizia diffamatoria va rimossa dagli archivi online del giornale: ordinanza della Cassazione

Nelle ipotesi di pubblicazione di notizie diffamatorie – perché non veritiere, perché non rientranti nei canoni della continenza o dell’interesse pubblico – il rimedio è la cancellazione dagli archivi online. Non basta la deindicizzazione. Lo dice la Cassazione su una vicenda riguardante il Corriere

Pubblicato il 26 Apr 2021

Massimo Borgobello

Avvocato a Udine, co-founder dello Studio Legale Associato BCBLaw, PHD e DPO Certificato 11697:2017

Legge

In una recente ordinanza di rigetto del ricorso per cassazione proposto da RCS, la Sezione Terza civile della Corte di cassazione ha disposto la rimozione dagli archivi online della testata di due articoli ritenuti giudizialmente diffamatori.

Se il diritto all’oblio si attua nei casi di notizie vere attraverso la deindicizzazione, in caso di notizie diffamatorie si può ottenere la cancellazione della notizia.

Il fatto

RCS, il direttore responsabile ed una giornalista sono stati ritenuti responsabili civilmente per i danni non patrimoniali cagionati con la pubblicazione di due articoli ritenuti diffamatori sulla cronaca di Roma de “Il Corriere della Sera” nel 2004.

La giornalista aveva riportato acriticamente delle notizie di un atto governativo ispettivo di cui aveva preso visione, senza verificarne la veridicità e “caricando” moltissimo nei titoli e nei toni il pezzo.

Diritto all’oblio e privacy, cos’è e come esercitarlo: tutto quello che devi sapere

Oggetto dell’articolo era la presunta relazione tra un collaboratore di un professionista romano e la figlia del presidente della Sezione fallimentare del Tribunale.

Il professionista veniva apertamente accusato di aver ricevuto un numero di incarichi superiore alla media in ragione di questo legame.

Dopo anni di cause, accertato peraltro che la circostanza non rispondeva al vero, il professionista otteneva un risarcimento pari ad 80.000,00 euro e la cancellazione degli articoli dall’archivio online del quotidiano (era stata pubblicata anche una rettifica, ritenuta, anch’essa, diffamatoria).

RCS, il direttore responsabile e la giornalista hanno ricorso per cassazione, ma il ricorso è stato respinto.

L’ordinanza di rigetto, al di là delle questioni processuali – molte – e delle questioni inerenti all’ammontare del risarcimento, ha affrontato una tematica molto rilevante in epoca digitale, ossia il rapporto tra archivi digitali e diritto all’oblio.

L’archivio digitale, infatti, trova tutela espressa nel G.D.P.R. all’articolo 89, paragrafo 1, ed il diritto all’oblio (previsto all’articolo 17) può essere limitato nelle ipotesi in cui il trattamento sia necessario per fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica, storica o statistica.

L’ordinanza

L’ordinanza del 2 dicembre 2020, pubblicata il 20 aprile 2021, cita, a questo punto, la sentenza emessa dalla Cassazione civile a Sezioni unite, nel 2019: la tutela dell’integrità degli archivi digitali veniva ritenuta espressione di un interesse generale determinato dalla libertà di stampa.

Il bilanciamento tra questo interesse generale e quello del singolo alla cancellazione dei dati – il diritto all’oblio, appunto – veniva bilanciato facendo ricorso allo strumento della deindicizzazione, rendendo, in sintesi, improbabile la diffusione di una notizia per caso fortuito e limitando la reperibilità dell’informazione a soggetti chiaramente interessati alla stessa.

Nel 2109, quindi, le Sezioni Unite civili avevano indicato tre ipotesi in cui il diritto all’oblio poteva essere invocato ed azionato: il caso di chi desidera evitare che vicende risalenti nel tempo siano nuovamente oggetto di diffusione a mezzo media, anche se al momento della pubblicazione erano state legittimamente diffuse; la situazione di chi, in casi legati all’uso di internet, abbia l’esigenza che le notizie reperibili in rete siano collocate nel contesto attuale, in ragione del mutamento di alcune precondizioni; infine, l’ipotesi di diritto alla cancellazione dei dati in ragione del tempo trascorso dalla pubblicazione della notizia.

Rientra, quindi, in questa ultima casistica, il diritto alla deindicizzazione quando vi sia un concorrente interesse al mantenimento degli archivi online.

La diffamazione a mezzo stampa dà diritto alla cancellazione

La novità dell’ordinanza RCS consiste nel mantenimento dell’ordine di cancellazione dei due articoli la cui natura diffamatoria è stata accertata civilmente.

La cassazione, in altre parole, ha effettuato un passo in avanti rispetto alla sentenza delle sezioni Unite del 2019, affermando che le ipotesi di diritto all’oblio individuate allora erano relative alle ipotesi di notizie pubblicate e diffuse lecitamente.

Nell’ordinanza pubblicata il 20 aprile, invece, si afferma senza mezzi termini che nelle ipotesi di pubblicazione di notizie diffamatorie – perché non veritiere, perché non rientranti nei canoni della continenza o dell’interesse pubblico – il rimedio è la cancellazione dagli archivi online.

Questo arresto giurisprudenziale non è certamente una pietra miliare, ma individuare il discrimine tra deindicizzazione e cancellazione nell’accertamento della diffamazione a mezzo stampa potrebbe essere una soluzione adottata anche in altre sentenze future.

Da ricordare che il Tribunale di Milano aveva affermato che la deindicizzazione poteva essere il rimedio anche in caso di diffamazione: la Cassazione, quindi, si è spinta oltre.

L’ordinanza in questione, quindi, si pone come monito anche per i giornalisti più “entusiasti”: utilizzare un atto di indagine – ministeriale o della Procura – senza dare conto che si tratta della sola versione di chi indaga – e magari sbaglia grossolanamente, come nel caso di specie – può determinare la condanna ad un risarcimento serio ed alla cancellazione dell’articolo.

Anche le modalità con cui si pongono titoli e sottotitoli è importante: il risarcimento, in questo caso, è stato quantificato anche sulla base di questi elementi.

Conclusioni

Chi gestisce i media italiani deve prendere atto che un’indagine è solo un atto di parte e non è la verità assoluta.

Il recepimento – con grave ritardo – della direttiva europea che impone ai media di trattare indagati e imputati come presunti innocenti dà la misura di quanto l’informazione debba evolvere culturalmente.

Non è solo questione di garantismo o di giustizialismo – entrambe etichette piuttosto volgari -: è anche necessità di riportare notizie in modo rispondente ai fatti, possibilmente con interpretazioni plausibili e riconoscibili come tali, perché diversamente, come nel caso del professionista romano, si rischia semplicemente di commettere errori davvero madornali.

Non pare, a chi scrive, che mettere alla berlina qualcuno senza basi solide sia un prezzo accettabile per poter pubblicare un pezzo bene in vista o mettersi in luce con l’editore.

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