Privacy, sicurezza dei dati, tutela delle informazioni, rispetto della vita privata: sono argomenti molto discussi, in un periodo in cui il recente scandalo Cambridge Analytica (con il coinvolgimento dei dati di decine di milioni di persone nel mondo) e l’entrata in vigore del GDPR lo scorso 25 maggio hanno riacceso con forza l’attenzione dell’opinione pubblica sul tema della privacy e su come l’utilizzo sofisticato (tramite tecnologia) dei dati delle persone, permette di influire – nel tempo ma in modo scientifico e costante – sulle scelte che ciascuno di noi compie quotidianamente.
La definizione di “dato personale”
Ormai un po’ tutti nelle piccole, medie e grandi imprese con l’arrivo del GDPR hanno capito che hanno e avranno sempre di più a che fare con i dati personali e che il nuovo set di normative europee dovrà essere rispettato per poter svolgere il proprio business serenamente e con il necessario equilibrio in ossequio del cosiddetto dato personale. Due parole che il nuovo pacchetto di regole spiega molto bene all’Art.4: “qualsiasi informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile (direttamente o indirettamente, con particolare riferimento a un identificativo come il nome, un numero di identificazione, dati relativi all’ubicazione, un identificativo online o a uno o più elementi caratteristici della sua identità fisica, fisiologica, genetica, psichica, economica, culturale o sociale)”.
Aiutare gli utenti a sviluppare una cultura della privacy
Ovviamente, non si tratta unicamente di una mera spiegazione normativa, è qualcosa di più che ha preso avvio e che difficilmente potrà essere fermata. Oggi, sempre più, le persone stanno via via sviluppando un approccio maturo alla tutela dei propri dati personali e il compito delle aziende come Qwant, che operano in una particolare area del settore delle tecnologie com’è quella dei motori di ricerca e che, soprattutto, basano la loro idea di business sull’etica, è sostanzialmente aiutare gli utenti – sia privati sia aziende – a sviluppare una cultura della privacy ancora più approfondita che tenga conto delle molteplici caratteristiche di ognuno di noi, ma che non le “tratti” solamente a fini commerciali.
Difendere la privacy significa preservare la libertà di ognuno di noi, salvaguardando la nostra vita privata e le informazioni sensibili che ci riguardano. Il GDPR, e non solo, sta aiutando a capire, per esempio, come le informazioni legate alle nostre ricerche online abbiano contribuito massicciamente alla creazione di profili tanto precisi, da non lasciare più spazio alla scoperta. I motori di ricerca hanno ormai una quantità di dati su di noi, che permettono loro di conoscerci più e meglio di noi stessi, anticipano i nostri desideri, sanno qual è la nostra capacità di acquisto, le nostre convinzioni religiose e il nostro orientamento sessuale non hanno più segreti. L’obiettivo è riappropriarsi della nostra libertà di scelta per staccarci da vincoli assurdi.
Il GDPR, al di là di aver scatenato un notevole traffico di email che segnalavano l’adeguamento e informavano gli iscritti a una newsletter o a un servizio, introduce diversi cambiamenti e le aziende si sono dovute adeguare alle novità, chi non lo ha fatto dovrà correre sicuramente ai ripari lavorando in tempi stretti a una soluzione che porti all’adeguamento. Un esempio su tutti è il ruolo sempre più centrale dell’informativa e del consenso al trattamento dei dati. L’Unione europea, infatti, ha imposto l’obbligo di predisporre informative facilmente comprensibili, così da potere ottenere un consenso più consapevole da parte delle persone. E qui si torna al concetto della consapevolezza, elemento sostanziale per poterne sapere di più di quali e quante informazioni sulla propria persona un’azienda o un soggetto economico ha in archivio, dove li ha immagazzinati, con quali finalità e come li utilizzano. Tutto ciò, da maggio 2018 è un diritto sancito per gli utenti.
Nuovi diritti per gli utenti, nuovi obblighi per le aziende
C’è ovviamente un risvolto della medaglia, infatti, se da una parte si introducono nuovi diritti, dall’altra – quella delle imprese – si introducono altrettanto nuovi obblighi. La prima cosa che salta all’occhio è l’implementazione di metodologie di “privacy by design”, con l’adozione di comportamenti in grado di assicurare la tutela della privacy sin dall’inizio di un determinato processo e di “privacy by default”, che prevede l’implementazione di strumenti che possano ridurre al minimo il trattamento dei dati.
La scelta di Qwant
Va sottolineato che alcune aziende non hanno avuto bisogno di correre ai ripari per adeguarsi. Una di queste è Qwant che, sin dalla sua fondazione nel 2013, ha scelto di rispettare la privacy delle persone non utilizzando alcuna tecnologia di tracciamento, né di profilazione delle persone che si affidano al suo motore per effettuare le ricerche nel web. GDPR compliant fin dalla nascita, Qwant lavora alla costruzione di un ecosistema che non tracci e non profili le attività di ognuno di noi, in un momento in cui le tecnologie sono sempre più pervasive e che guarda sempre più all’intelligenza artificiale e all’Internet of Thing come elementi di sviluppo fondamentali, ma anche estremamente critici dal punto di vista della tutela dei dati personali e privati, proprio in conseguenza della loro potenziale pervasività.
Per convincere e muovere le masse – non solo per fini commerciali – è necessario dominare i dati, e più che mai i grandi player tecnologici che detengono mezzi e competenze, sanno che le nuove tendenze digitali unite all’enorme mole di dati che i motori di ricerca (molto più che i social network) raccolgono e hanno raccolto da vent’anni a questa parte, possono formare e influenzare le opinioni dei navigatori, sulla base dei loro profili e non in modo imparziale e completo come sarebbe auspicabile.
La tutela della privacy cruciale per le imprese
Se spostiamo l’attenzione dai singoli individui alle imprese, è lampante come il tema della tutela della privacy diventi ancora più importante ed emergente. Pensiamo all’enorme numero di informazioni che gli addetti di un’azienda trasmettono al di fuori, semplicemente, facendo delle ricerche online relative al proprio lavoro. Si tratta di un patrimonio aziendale che sarebbe opportuno non condividere esternamente, soprattutto, se pensiamo a realtà come, per esempio, la pubblica amministrazione o le forze dell’ordine.
L’Europa intera più che mai deve individuare un’alternativa democratica a un sistema che ormai ci domina da un paio di decenni. La scelta e il bisogno di imparzialità è oltremodo una garanzia di informazione libera, non completamente basata su contenuti e opinioni fondate su ciò che i motori di ricerca sanno di noi.
Uscire dalla propria filter bubble
Indicizzare il web nella sua totalità, senza alcun tipo di discriminazione, applicando algoritmi di classificazione con la massima imparzialità è la scelta che ha fatto Qwant e che altri stanno facendo per fornire soluzioni tecnologiche innovative in grado di mostrare la realtà di un mondo complesso, ricco e interessante proprio per la diversità delle opinioni che lo popolano. In tutto il mondo cresce l’esigenza di sistemi che aiutino lo sviluppo personale e favoriscano la creazione di una propria opinione singolare. Un bisogno cruciale che ci consenta di poter accedere a più fonti diverse tra loro, che offrano altre opinioni e che sostengono anche tesi differenti da quelle che singolarmente ci siamo create. Soltanto in questo modo si può avere una visione globale e assolutamente chiara della realtà che ci circonda, abbandonando così quello sguardo avvolgente, ma per niente rassicurante, della cosiddetta “filter bubble”, che rischia di cullarci e di confonderci le idee presentandoci solo uno dei mille sfaccettati e colorati volti della realtà.
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Quest’articolo è parte di un’attività editoriale congiunta, sui temi della privacy, che Agendadigitale.eu sta sviluppando con Qwant e altri partner dell’evento Gdpr Ultima Chiamata.