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Liberalizzare i dati, saltare il GDPR: una tesi insistente e pericolosa

Smantellare l’oligopolio dei dati e dell’informazione è cosa urgente e necessaria, e ovviamente condivisibile. Ma non per allargare ancora di più l’uso dei dati, semmai per regolamentarlo ancor più rigidamente e per scopi di utilità sociale e non di profitto privato. Eppure, c’è un libro che lo chiede (e piccona il Gdpr)

Pubblicato il 26 Lug 2021

Lelio Demichelis

Docente di Sociologia economica Dipartimento di Economia- Università degli Studi dell’Insubria

software matematico

Come rompere il monopolio dei dati e dell’informazione digitale, rilanciare il progresso e vivere felici. Sembra un programma quasi-impossibile da realizzare, eppure, in altri tempi e per altri settori è già accaduto di rompere i monopoli.

Poi però i monopoli, gli oligopoli/cartelli e gli oligopoli di monopoli (come il Gafam), risorgono ogni volta come la mitica Fenice. Perché sono una tendenza (una tentazione) irrefrenabile del capitalismo. Eppure, il liberalismo – che nasce quasi contestualmente con il capitalismo industriale – da sempre dice che i monopoli e gli oligopoli sono da impedire, da smontare se già realizzatisi perché sono una palese violazione o distorsione della concorrenza e del libero mercato, che invece dovrebbe tendere all’equilibrio, governato dalla favolosa mano invisibile.

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Ma questa è appunto una favola liberale e neoliberale che però – intanto che viene raccontata e che la ascoltiamo catturati dalla narrazione e aspettando il “vissero felici e contenti” – lascia che i monopoli/oligopoli nascano e poi crescano; per poi magari dire (ma lo si dice sempre meno e solo – se lo si dice – quando il monopolio/oligopolio è diventato un dato di fatto ormai “too big to be disassembled”): “ma questo non è ciò che avevamo previsto!” e la favola non ha un lieto fine. Eppure, mai come oggi – pur con l’egemonia dell’ideologia neoliberale – i monopoli/oligopoli sono stati così potenti, così sfacciati e insieme così blanditi/amati da quello stesso potere politico che dovrebbe invece contrastarne la nascita e/o impedirne la crescita in potenza economica e in potere politico.

E parliamo del monopolio/oligopolio dei dati, esercitato da poche ma potentissime imprese private. Imprese industriali di un tipo particolare, che trattano una merce particolare come appunto i dati, dati che sono il nuovo petrolio (ma qualcuno dice di no) che fa muovere l’economia digitale (e non solo), ma che sono soprattutto la forma assoluta e assolutistica (totalitaria?) del potere di oggi (chi controlla i dati, controlla cioè il mondo).

A cercare di rompere il monopolio/oligopolio delle Big Tech sulle informazioni – cresciuto rapidamente e globalmente ed esercitando oggi il dominio e l’egemonia su di noi e sul mondo grazie alle informazioni che noi gli abbiamo dato – provano ora Thomas Ramge e Viktor Mayer Schönberger in questo loro saggio appena tradotto anche in italiano con il titolo programmatico di “Fuori i dati!”[1]. Ancora più esplicito ma anche molto (forse troppo) impegnativo e soprattutto illusionistico è il titolo originale in inglese: “Access Rules. Freeing information to stop Big Tech, revive innovation and empower society”. L’idea di base è che il monopolio/oligopolio dei dati è di fatto un furto all’idea occidentale di progresso, mentre l’uso dei dati dovrebbe essere un servizio per il bene comune. Da qui anche la critica – per noi paradossale, ma in realtà molto strumentale/funzionale al fine che si propone l’industria, il capitalismo, gli autori del saggio e la stessa Unione europea – al Gdpr europeo, che troppa attenzione avrebbe posto alla protezione dei dati e poco al loro uso (capitalistico).

Fuori i dati!

I dati e le informazioni, dunque. Oggi concentrati – ben chiusi e ben protetti nelle casseforti virtuali – nei server dei colossi del digitale: che sono imprese private che cercano in questo modo e con ogni altro mezzo lecito e illecito (vedi l’elusione fiscale e/o lo sfruttamento dei lavoratori, come nel caso di Amazon) di massimizzare il loro profitto privato attraverso appunto questo loro potere mono/oligo-polistico, basato sul capitalismo della sorveglianza e, più in generale, sul capitalismo estrattivo di valore dalla vita intera dell’uomo (questo sono dati e informazioni). Capitalismo estrattivo che tanto bene fa a Bezos e a Zuckerberg (ai loro profitti anche personali, al loro patrimonio) e ai loro azionisti, che tanto bene fa al loro narcisismo/egocentrismo (e al nostro feticismo per il loro narcisismo-egocentrismo) e che però – sostengono appunto Thomas Ramge e Viktor Mayer Schönberger – molto male fa alla conoscenza, alla sua diffusione, alla sua condivisione.

Con il paradosso di una economia della condivisione dove in realtà chi estrae e poi possiede i nostri dati e le informazioni non le condivide poi socialmente o lo fa solo e parzialmente per il proprio profitto e anche per i dati/informazioni vale il principio capitalistico della massimizzazione del loro valore di scambio. E così come da due secoli il capitalismo produttivo deve produrre consumatori e il bisogno di consumare beni, così oggi deve produrre consumatori di dati e accrescerne il valore di scambio trasformandoli ancora di più in merce – anche se chiama tutto questo: progresso e conoscenza e chiama i dati bene comune o pubblico (infra), quando in realtà ne vuole fare un uso (ancor più) capitalistico.

Se si vuole rilanciare infatti il progresso, scrivono i due autori, occorre obbligare il Big Tech a condividere dati e informazioni (ma il come obbligarli è la parte più debole del libro). Perché i dati, “dal punto di vista economico, costituiscono un bene non rivale. Rispetto a qualsiasi altra risorsa economica, questa caratteristica li rende più adatti ad essere un bene pubblico. Dati per tutti significherà” – viene usata una metafora naturalistica molto accattivante – “che tutti faranno pascolare le loro mucche e tutta l’erba verrà mangiata. Come bene digitale pubblicamente accessibile, i dati non scompaiono se sempre più persone li usano. Questo perché i dati si trasformano in valore solo quando vengono usati. E il loro valore aumenta ad ogni uso aggiuntivo” – appunto, il loro valore di scambio aumenta con il loro scambio/vendita.

Liberalizzare l’uso dei dati sarebbe dunque un servizio al bene comune. Questo obiettivo deve forse comportare l’esproprio delle imprese dei dati e delle informazioni? Ovviamente no, scrivono Thomas Ramge e Viktor Mayer Schönberger da bravi capitalisti tecnologici – sostenendo (affermazione molto arrischiata e che contraddice la realtà) che “in senso strettamente legale i dati non possono essere posseduti” (quindi sarebbe impossibile voler espropriare qualcuno di qualcosa, i dati, che non possiede). E allora, secondo i due autori – ricercatore presso il Center of Advanced Internet Studies di Bochum in Germania, Ramge; docente di Internet Governance and Regulation all’Università di Oxford, Mayer Schönberger – “i tempi sono maturi per riprenderci il potere dai giganti dell’informazione, che sono cresciti fino ad avere il predominio solo grazie all’uso dei nostri dati”.

Di fatto, però, Thomas Ramge e Viktor Mayer Schönberger raccontano di nuovo la stessa favola tecno-entusiasta/tecno-fila che abbiamo già sentito narrare negli anni ’90 del secolo scorso, cioè: la rete è libera e democratica, siamo nell’economia della conoscenza e dell’informazione e della condivisione, siamo in una nuova era di crescita economica infinita, svolgeremo lavori immateriali e leggeri, siamo entrati nel post-fordismo e nel post-industriale[2]). Ovvero oggi – ma appunto Ramge e Mayer Schönberger riscrivono oggi la narrazione di ieri – “saremo in grado di rendere il nostro mondo più resistente contro le grandi crisi solo attraverso una migliore condivisione delle informazioni. Perché questo avvenga è fondamentale il libero flusso di dati, informazione e conoscenza. L’epoca dei monopoli dell’informazione è finita”.

Quale progresso?

In realtà è per noi davvero difficile (se non impossibile) pensare/credere che chi ha il monopolio delle informazioni rinunci a questo suo potere, a meno di un atto di forza del diritto e della giustizia capace di arrivare non solo allo smantellamento del monopolio/oligopolio dei dati e dell’informazione, ma alla nazionalizzazione di tutto il settore del Big Tech (essendo un servizio al bene comune – come pure scrivono i due autori – pare oltremodo impossibile che possa transitare da imprese private il cui scopo – per altro legittimo in un sistema capitalistico – è solo quello di massimizzare il profitto per sé).

Come è difficile credere che dobbiamo “rendere aperto l’accesso ai dati, alle informazioni e alla conoscenza” – obiettivo che condividiamo con la massima convinzione – “se vogliamo contrastare le asimmetrie di potere ed eliminare l’indebita posizione di dominio digitale basata sulle informazioni. Abbiamo bisogno di regole di accesso” – le access rules di cui al titolo originale del libro – “perché la concentrazione del potere dell’informazione è un bene per pochi, ma un male per l’innovazione, la cooperazione e per ciascuno di noi”. Mentre “dati aperti significa menti aperte”, ed economia di mercato significa (sic!) “dare potere alle persone, non alle grandi imprese”. E “se i dati fluissero più liberamente attraverso un accesso più ampio […] metteremmo il turbo alla capacità di innovazione della nostra economia in un modo che non si è più visto dal miracolo economico degli anni Cinquanta” (ed ecco appunto e di nuovo la riproposizione della favola degli anni ’90).

In realtà – e anche Ramge e Mayer Schönberger lo riconoscono – la rivoluzione digitale “ha intensificato le asimmetrie informative in un modo che i pionieri della tecnologia, da Alan Turing a Vint Cerf a Tim Berners-Lee, con la loro ambizione di migliorare il mondo attraverso la tecnologia, non avrebbero potuto prevedere e che sicuramente non avrebbero voluto” – in realtà molti lo avevano previsto pur provenendo da fronti culturali diversi: da Heidegger a Ellul ad Anders a Severino e Galimberti, passando, sempre in Italia per Raniero Panzieri e Claudio Napoleoni: bastava ascoltarli o almeno usare un poco di spirito critico e di pensiero riflessivo analizzando come stava mutando il capitalismo. “Mezzo secolo dopo, queste strutture di potere non solo non si sono sgretolate ma si sono rafforzate a favore della centralizzazione”, i due autori dimenticando però che la centralizzazione, l’organizzazione, il comando e la sorveglianza sono da sempre, come aveva ben capito Marx quasi duecento anni fa, le funzioni specifiche del capitalismo, che si replicano oggi nell’industria (e nell’industrializzazione) capitalistica dei dati e dell’informazione.

Certo, ancora Ramge e Mayer Schönberger: “tutto ciò che è cambiato sono i nomi di coloro che sono al potere. Non sono più i baroni del petrolio o i banchieri seduti in cima alla piramide del potere economico, ma Tim Cook e Satya Nadella, Jeff Bezos e Mark Zuckerberg, Larry Page, Sergey Brin e Pony Ma. Il loro potere deriva dalla loro capacità di raccogliere e analizzare le informazioni digitali, di mantenerne il controllo esclusivo o di distribuirle se e quando fa loro comodo”. Ma allora – la domanda che ritorna – perché mai dovrebbero cedere questo loro potere? La gentilezza, la condivisione, l’orizzontalità, la democrazia e la socialità sono da sempre sconosciute al tecno-capitalismo, difficile pensare che cambi sé stesso.

Da qui nasce tuttavia la paradossale – o meglio strumentale – critica al Gdpr europeo, accusato appunto da Ramge e Mayer Schönberger di concentrarsi troppo sulla protezione dei dati personali e non sulle regole di accesso ai dati. Cioè, “spetta al resto del mondo costringere i giganti dell’informazione, ovunque si trovino, a condividere la loro ricchezza di dati con gli altri. Dobbiamo aprire l’accesso alle informazioni a tutti: cittadini e scienziati, start-up e imprese affermate, così come al settore pubblico e alle ONG”.

Religione del capitalismo o religione della libertà

Ovvero, e traducendo dalla neolingua tecno-capitalista: 1) il Gdpr è un intralcio alla condivisione delle informazioni, troppa protezione dell’individuo e della sua vita dall’intrusione capitalistica ostacola l’innovazione e frena il progresso (analogamente, troppe rigidità nel mercato del lavoro frenerebbero la crescita economica); 2) il Gdpr protegge l’individuo e la sua vita (la sua privacy), riconoscendogli un potere eccessivo mentre deve diventare invece ancora più trasparente per un capitalismo estrattivo/della sorveglianza che non si pone più alcun limite etico e morale allo sfruttamento dell’uomo; 3) il libro di Ramge e Mayer Schönberger sembra un prodotto, per altro ben costruito, per azzerare definitivamente il concetto di privacy e per cancellare la libertà dell’individuo in nome delle esigenze di profitto del tecno-capitalismo, più che una difesa del progresso e della conoscenza. Certo, il tutto viene presentato con un accattivante packaging retorico: “La protezione dei dati e l’accesso ai dati sono le due facce della stessa medaglia”, quando è invece evidente che non possono esserlo proprio per la contraddizione che non lo consente, ovvero: o la protezione dei dati e della libertà dell’individuo; o la liberalizzazione del loro uso.

E invece i due autori la chiedono, questa liberalizzazione – di nuovo – in nome del progresso, della condivisione, della conoscenza: ma è una vecchia tecnica neoliberale di ingegnerizzazione comportamentale quella di togliere libertà all’individuo (integrandolo/sussumendolo sempre più nel sistema), promettendogli maggiore libertà individuale[3]. E lo chiedono portando strumentalmente come esempio la pandemia – confondendo l’eccezione circoscritta all’emergenza sanitaria con la regola generale da voler imporre – pandemia che avrebbe invece dimostrato “i benefici che la ricchezza di informazioni può arrecare a individui e società”. E i due autori chiedono quindi che il Gdpr, creato per la protezione dei dati venga affiancato da un Regolamento generale sull’uso dei dati, necessario – lo scrivono ripetendosi più volte – per la democrazia e la prosperità di tutti, in qualsiasi paese del mondo. In realtà necessario al tecno-capitalismo per proseguire nella sua accumulazione capitalistica.

Basta quindi – Ramge e Mayer Schönberger riprendono “The Economist” dell’aprile 2020 (“Se l’Unione Europea avesse una religione ufficiale, sarebbe la privacy”) – basta con “le litanie moraleggianti dei sommi sacerdoti della protezione dei dati”. Ascoltiamo piuttosto – questo ci dicono di fatto i due autori – i sermoni efficientisti del capitalismo e dei suoi intellettuali organici come appunto sono loro stessi. Di quel capitalismo che in realtà – è giusto ricordarlo – è esso stesso una religione, come scriveva Walter Benjamin giusto cento anni fa (1921)[4].

Anche se poi i due autori ammettono che liberalizzarne l’uso riguarderebbe “chiaramente solo i dati che non sono soggetti a un obbligo legale di riservatezza, dati personali e segreti industriali. L’accesso riguarderebbe cioè dati non personali, o dati che sono stati spersonalizzati”, dimenticando che oggi quasi tutti i dati sono dati personali e personalizzabili e che l’industria vuole soprattutto questi; e che la tecnologia permette di aggirare qualsiasi divieto. Aggiungendo che si tratterebbe poi di decidere tra un sistema aperto o chiuso, cioè “se tutti potranno partecipare o solo un gruppo selezionato”. Troppo vago.

E quindi noi al capitalismo come religione preferiamo mille volte di più la religione della libertà – e della privacy.

Che si debba smantellare l’oligopolio dei dati e dell’informazione è cosa urgente e necessaria – e ovviamente condivisibile. Ma non per allargare ancora di più l’utilizzo dei dati, semmai per regolamentarlo ancor più rigidamente e per scopi di utilità sociale e non di profitto privato; e non per ridurre il diritto alla privacy (semmai occorre blindarlo ancora di più).

La conoscenza è infatti un’altra cosa da quella promessa da Ramge e Mayer Schönberger. E ha bisogno di pensiero critico e riflessivo. Convincendoci, come ha detto l’attrice Rosamund Pike interpretando Marie Curie, che “usare il cervello è più sexy che saper usare Instagram”. Il problema, per il capitalismo (e, sul fronte opposto, per la nostra libertà), è che un cervello che pensa criticamente e riflessivamente non produce dati; mentre Instagram sì.

Note

  1. T. Ramge e V. Mayer Schönberger (2021), “Fuori i dati! Rompere i monopoli sulle informazioni per rilanciare il progresso” (trad. di E. Ciancio), Egea, Milano
  2. Per tornare alle retoriche di quel decennio (e non solo) consigliamo: Ippolita (2014), “La Rete è libera e democratica. Falso!”, Laterza, Roma-Bari; J Stiglitz (2004), “I ruggenti anni Novanta”, Einaudi, Torino
  3. Rinviamo, sul tema, all’ottimo: Byung-Chul Han (2016), “Psicopolitica”, Nottetempo, Roma
  4. W. Benjamin (2011), “Scritti politici I”, Editori Riuniti, Roma

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