Non è una novità che le eccellenze italiane si distinguano in ogni arte e contesto professionale e anche nel mondo cybersecurity. BlackHat o esperti del mondo ICT, però, prendono la loro valigia – e, in certi casi, la propria famiglia – e salutano il Bel Paese. Faranno mai ritorno?
Proviamo a comprendere i motivi della drastica scelta e quelli che, forse, hanno inciso in modo prepotente sulla decisione del non ritorno.
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Cybersecurity: chi resta e chi se ne va
Il Security Summit 2023 organizzato dal Clusit, Associazione Italiana per la Sicurezza informatica in collaborazione con ASTREA tenutosi a Milano il 14, 15 e 16 marzo 2023 offre l’assist per parlare di un tema che vanta i tratti della melanconia strictu sensu intesa. Dalla fuga dei cervelli all’espressione “Italians do it better” è, infatti, un battito di ciglia.
Una tavola rotonda, svoltasi nel pomeriggio del 15 marzo, condotta da Gabriele Faggioli, Alessio Pennasilico e Alessandro Manfredini, ci ha resi partecipi di un racconto segnato da storie che hanno un sapore nostalgico, ma anche avvilente, e che non dà spazio alla speranza del ritorno ma che, piuttosto, apre il panorama a sogni dirompenti.
Gli ospiti della sessione plenaria “Cyber security: gli italiani nel mondo”, Monica Pellegrino, Tony Mobily, Corradino Corradi, Andrea Zapparoli Manzoni, Daniele Sangion, nonostante i fusi significativi e il collegamento da remoto, si sono uniti al grande evento da tutte le parti del mondo, anche quelle insospettabili, offrendo
importanti spunti di riflessione per analizzare la situazione del nostro Bel Paese.
Come emerge dal Rapporto Censis – DeepCyber 2022 “quasi 4 italiani su 10 sono indifferenti o non si tutelano dagli attacchi informatici […] e solo 1 su 4 ha un’idea chiara di cosa sia la cybersecurity”.
È facile giungere alla conclusione che quella parte di italiani virtuosi, che dominano la cybersecurity, ha un valore inestimabile. Pertanto, riteniamo condivisibile il messaggio veicolato da Roberto Baldoni, ex Direttore della Agenzia Cybersicurezza Nazionale – ACN, il quale ha affermato che “consapevolezza, formazione, sviluppo tecnologico, resilienza agli attacchi sono elementi fondamentali che devono essere un esercizio del sistema Paese, con pubblico e privato che devono collaborare per raggiungere questi obiettivi.”
Usando le stesse parole di Alessandro Manfredini, Presidente di AIPSA, “troviamo, anche nell’ambito della sicurezza fisica fiduciaria, esempi di colleghi italiani che sono andati a lavorare all’estero quando, per esempio, il TOP Management è stato espressione di nostri connazionali.” A parere di Manfredini “c’è un retaggio che si sta perdendo e che riguarda tutta la tematica relativa alla compliance di polizia locale […]. Il tema è: se uno ha la professionalità la può esprimere ovunque, visti i tanti colleghi che operano ormai all’estero”.
“L’Italia in base all’indice DESI (Digital Economy and Society Index) della Commissione Europea sui 27 Paesi membri dell’Unione Europea è ventesima per livello di digitalizzazione complessiva, è terzultima per popolazione con competenze digitali almeno di base (42%), contro una media UE del 56%, ed è quartultima per competenze digitali avanzate (22%), contro una media UE del 31%.” (Rapporto Clusit 2023)
L’ambizione nel mondo cybersecurity è, nonostante tutto, viva per l’Italia e tale vitalità la riscontriamo in diversi programmi volti a realizzare quella che molti chiamano transizione digitale. Tra questi, il progetto un’Alleanza per la cybersecurity che vanta lo scopo di creare awareness e formazione sia per gli studenti che per i cittadini italiani.
Ma cosa accade alle eccellenze italiane del mondo cyber? Seppur l’Italia dia spazio alla loro collocazione nel settore di riferimento, molti scelgono di trasferire la propria vita altrove.
Come ha affermato Roberto Setola, Ordinario di Automatica e Direttore del Master in Homeland Security UCBM, “solo in Italia soffriamo la carenza di circa 100mila esperti e, nel mondo, la domanda di lavoratori della cybersicurezza supera i 3,4 milioni di unità.”
In un pianeta sempre più interconnesso, esposto a grandi attacchi informatici – come dimostra per ultimo lo scenario bellico che coinvolge Ucraina e Russia – è di fondamentale importanza che gli Asset cybersecurity siano concretamente messi in campo, a tutela di tutti i cittadini del mondo.
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È chiaro che facciamo riferimento ad una materia che solo adesso ha ottenuto il rispetto meritato o, almeno, così speriamo.
Negli anni 80’, primi anni dello sviluppo delle tecnologie ICT, gli esperti informatici rappresentavano il gradino più basso del mondo professionale classicamente inteso. Informatici, hacker, periti elettrotecnici & Co. erano, agli occhi dei più, meri sventurati dediti a saldature ed impulsi elettrici, rinchiusi nelle sale server a giocare con le reti cablate e i propri utensili di lavoro. Solo dopo pochi anni, quando si cominciò a toccare con mano la portata dirompente delle nuove tecnologie informatiche e della programmazione informatica, tutto cambiò forma.
Conclusioni
A voler prendere come esempio uno dei padri dei PC portatili, Gordon Clark, nemo propheta in patria.
Da qui proviamo a trarre le nostre conclusioni allo spontaneo quesito: perché i nostri eroi della cybersecurity sono volati all’estero come dei veri e propri pirati al timone della propria vita?
Nonostante tutte le difficoltà del caso, che vanno dal trasferimento di un giovane ventenne in Australia nei primi anni ’90 allo spostamento di interi nuclei familiari nei tempi moderni, tante sono le occasioni di crescita che i nostri protagonisti hanno colto atterrando verso nuovi luoghi sconosciuti, sia per essi sia per le proprie famiglie.
Lasciare tutto per abbandonare le terre europee per prestare la propria attività a multinazionali o Governi stranieri – come hanno fatto Tony Mobily, Corradino Corradi, Andrea Zapparoli Manzoni – o scegliere di salutare il proprio paese per rimanere comunque nel continente – questa la decisione di Monica Pellegrino e di Daniele Sangion – e offrire la propria professionalità alle Istituzioni Centrali europee o a gruppi bancari tutti italiani, certamente trova la sua prima giustificazione nella ricerca di un luogo che vanti un respiro internazionale e che garantisca servizi ai propri cittadini ma, soprattutto, un migliore work life balance coordinato ad una immensa soddisfazione professionale, anche economica. Ecco alcuni tra i vari motivi che hanno spinto i nostri eroi della cybersecurity a non lavorare più in Italia.
Ma come potremmo immaginare di frenare la fuga dei nostri connazionali all’estero? È necessario un riconoscimento economico maggiore a quello standard o basta semplicemente comprendere che l’unione fa la forza e che tutti si dovrebbe remare verso un fine comune?
È chiaro che, da sempre, i motivi che portano gli italiani a emigrare altrove possono facilmente identificarsi in diversi temi abbastanza critici.
Mancata allocazione, stipendi sottopagati, alto costo della vita nelle grandi metropoli, tassazione statale onerosa, rigida burocrazia, normazione molto teorica e poco pratica, bassi compensi per i liberi professionisti che si trovano a pagare – in regime ordinario – un tasso di IVA fin troppo alto, mancanza di fondi o allocazione errata dei fondi europei, infrastrutture inesistenti o obsolete, nonché – last but not least – infiniti e ingarbugliati percorsi di studio – universitario e non – che, però, non hanno programmi di formazione all’altezza del preteso livello tecnico di protezione cyber parametrato alle esigenze reali di sicurezza.
A conferma di tutto ciò, come riporta il Rapporto Clusit 2023 “l’Italia è ultima (!) nel continente per quota di laureati in ambito ICT sul totale della popolazione con una laurea (1,3% rispetto a un valore UE del 3,9%). […] A questa situazione già di per sé critica, che spiega la grandissima difficoltà di aziende, Pubbliche amministrazioni e Autorità nel trovare risorse da inserire nei propri staff, si aggiunge una cronica carenza di risorse economiche.”