Poche settimane fa Facebook ha provveduto a disattivare in via definitiva gli account di alcuni ricercatori connessi ad un progetto della New York University, il cui scopo era quello di esaminare le modalità di targeting dell’utenza, con particolare riguardo al targeting degli ads a sfondo politico.
La scelta effettuata dalla società non è stata esente da critiche, in ragione dei rischi che una scarsa trasparenza potrebbe arrecare ai cittadini.
I nostri dati come merce: alla ricerca del difficile equilibrio tra privacy e Digital Single Market
Il progetto di ricerca
Tutto ha inizio dal progetto avviato da parte di un gruppo di ricercatori della New York University, il cui scopo, come anticipato in premesse, era quello di rendere possibile per giornalisti, ricercatori, responsabili politici e altri soggetti di ricercare gli annunci politici per singolo stato e contesto e, conseguentemente, vedere quali messaggi sono diretti a un pubblico specifico e come tali annunci sono finanziati.
In tal modo, sarebbe stato possibile comprendere più nello specifico secondo quali logiche operasse il sistema di targeting della piattaforma in relazione ai contenuti di natura politica, evitando che potessero ripetersi eventi come Cambridge Analytica, e aiutando la lotta alla disinformazione all’interno dei social.
Il progetto, denominato Ad Observatory, lanciato lo scorso settembre, ha visto coinvolti più di 6.500 volontari, che tramite l’uso di una specifica estensione browser consentiva di raccogliere dati sugli ads politici cui Facebook sottoponeva gli utenti. In particolare, l’estensione raccoglieva i seguenti dati: username, link ai profili utente, informazioni sul perché un determinato utente visualizzava l’ad, e altri dati che non sono pubblicamente resi disponibili. Esempi potrebbero essere “donne sposate” o “interessate a frequentarsi” o “vive in Florida”.
I dati raccolti erano poi conservati all’interno di un database anonimo sulla base del cui contenuto le ricerche venivano condotte, e combinati con le informazioni rese pubblicamente trasparenti da parte della stessa Facebook.
I motivi del ban
L’utilizzo dell’estensione ha, così, portato alla formale richiesta, da parte di Facebook, della cessazione del progetto di ricerca della NYU, e, conseguentemente, alla rimozione di tutte le app, delle pagine e delle modalità di accesso alla piattaforma legate allo stesso.
Le motivazioni addotte da Facebook per l’avvenuto ban sono piuttosto semplici: l’utilizzo dell’estensione da parte dei ricercatori, che non era stato preventivamente approvato dalla Società, avrebbe violato i termini e le condizioni di utilizzo del social network, mettendo a rischio la privacy degli utenti della piattaforma, in quanto le finalità della raccolta dati non erano state autorizzate dagli stessi. Inoltre, stando a quanto riportato da Facebook, l’estensione avrebbe raccolto anche informazioni su tutti gli altri utenti di Facebook che non l’avevano installata o non avevano acconsentito all’utilizzo dei propri dati.
“Sebbene il progetto Ad Observatory possa avere buone intenzioni, le continue e ripetute violazioni delle protezioni contro il data scraping (n.d.a. l’estrazione dei dati tramite procedure automatiche) non possono essere ignorate e devono essere risolte”, ha affermato Mike Clark, direttore della gestione dei prodotti di Facebook, all’interno di una dichiarazione pubblicata sul sito web della società. “Il progetto Ad Observatory della NYU ha studiato le inserzioni politiche utilizzando mezzi non autorizzati per accedere e raccogliere dati da Facebook, in violazione dei nostri Termini di servizio “, dice Clark, “costringendo la società ad intervenire per evitare che fossero svolte ulteriori invasioni della privacy nei confronti dei propri utenti. Accogliamo con favore la ricerca che ci ritiene responsabili e non compromette la sicurezza della nostra piattaforma o la privacy delle persone che la usano”.
Essendo l’estensione utilizzata dal progetto appositamente programmata per eludere i sistemi di rilevamento di Facebook ed estrarre i dati ritenuti utili alla ricerca, come i nomi utente, gli annunci visualizzati, e le informazioni contenute nella sezione “Perché sto vedendo questa inserzione?”, si è ritenuto, inoltre, non solo che i ricercatori stessero violando i Termini di utilizzo della piattaforma, ma anche gli accordi che la società aveva stretto con il governo degli Stati Uniti per implementare la trasparenza dei propri ads.
Lo scontro tra la NYU e Facebook evidenzia come il targeting politico sia un argomento molto sensibile, che richiede un bilanciamento estremamente delicato, sia dal punto di vista della privacy che della trasparenza. Occorre evidenziare che, a seguito degli scandali che hanno coinvolto Facebook a più riprese (fra tutti, Cambridge Analytica), e delle critiche sulla natura opaca della pubblicità politica, è stato istituito uno specifico database, di pubblico utilizzo, che permette di acquisire molteplici informazioni sugli annunci politici presenti all’interno della piattaforma.
All’interno di detto archivio, è possibile acquisire informazioni come: l’identità del soggetto che ha pagato per la pubblicazione dell’annuncio, la data di pubblicazione dello stesso, e la posizione geografica delle persone che lo hanno visualizzato. Tuttavia, all’interno dell’archivio non sono contenute le informazioni sulle motivazioni che spingono la piattaforma a targettizzare uno specifico individuo, rendendo il tutto sì trasparente, ma solo in maniera parziale.
Le critiche dei ricercatori
Alla cancellazione del progetto ed alla sospensione di alcuni degli account dei ricercatori, ha ovviamente fatto seguito una dura risposta da parte di questi ultimi, i quali hanno definito l’operato di Facebook “deplorevole”. “I nostri ricercatori stanno intraprendendo ricerche importanti e legittime, e gli impedimenti che Facebook ha messo sulla loro strada sono deludenti e, dal nostro punto di vista, ingiustificati “, ha dichiarato pubblicamente la NYU.
Cybersecurity for Democracy – il gruppo apartitico della scuola di ingegneria della NYU che gestisce l’Ad Observatory – ha accusato Facebook di voler “silenziare” la ricerca indipendente.
” Il progetto Ad Observatory della NYU è stato gestito interamente da dati donati da volontari che non erano personalmente identificabili, rendendo le affermazioni di Facebook riguardo alla violazione della privacy degli utenti non vere”, ha dichiarato il direttore del programma Common Cause Media and Democracy Yosef Getachew. “Chiudere questo progetto è solo un altro tentativo della piattaforma di ridurre la potenza degli utenti e aggirare la responsabilità.”
Laura Edelson, ricercatrice capo del progetto, bersaglio delle azioni di sospensione degli account, afferma, al riguardo, che “Negli ultimi anni, abbiamo usato questo accesso per scoprire difetti sistemici nella Facebook Ad Library, per identificare la disinformazione nelle inserzioni politiche, incluse molte [inserzioni] che seminano sfiducia nel nostro sistema elettorale, e per studiare l’apparente amplificazione della disinformazione di partito da parte di Facebook. Sospendendo i nostri account, Facebook ha effettivamente concluso tutto questo lavoro.” “Il lavoro che il nostro team fa per rendere trasparenti i dati sulla disinformazione su Facebook”, aggiunge, “è vitale per un Internet sano e una democrazia sana”, e le giustificazioni addotte da Facebook sarebbero un “pretesto” per poter limitare l’accesso ai dati della società da parte di studiosi e ricercatori.
In definitiva, i ricercatori hanno interpretato la forte reazione di Facebook come una volontà, da parte della stessa, di proibire lo studio approfondito delle modalità di targeting, che hanno troppo spesso portato a fenomeni di abuso da parte di complottisti e politici, bloccando anche ogni possibilità di crescita della piattaforma: più volte, infatti, l’applicazione è stata utilizzata per segnalare alla stessa Facebook errori nel sistema di “filtraggio” dei contenuti inappropriati, evidenziando, ad esempio, la presenza di inserzioni che pubblicizzavano merchandising di Qanon da parte di gruppi di miliziani estremisti, o la pubblicazione di messaggi pubblicitari contraddittori nei confronti di diversi segmenti di utenza.
“Non possiamo lasciare che Facebook decida unilateralmente chi può studiare la compagnia e quali strumenti possa usare”, affermano i ricercatori Laura Edelson e Damon McCoy sul The Guardian, “Quello che succede su Facebook influenza la fiducia pubblica nelle nostre elezioni, il corso della pandemia e la natura dei movimenti sociali”.
La risposta della politica
Anche sul versante politico, le azioni intraprese da Facebook non hanno mancato di suscitare molte critiche.
Il senatore democratico della Virginia Mark R. Warner, ha dichiarato che Facebook dovrebbe sostenere i ricercatori indipendenti, i cui sforzi hanno contribuito a migliorare l’integrità della stessa piattaforma. Invece, secondo le parole del senatore, “Facebook sembra aver fatto l’opposto”, rendendo necessario un intervento diretto del Congresso che aumenti la trasparenza dell’advertising digitale.
La senatrice Amy Klobuchar, responsabile di un disegno di legge che porrebbe in capo alle piattaforme digitali la responsabilità per la diffusione, tramite le loro tecnologie, di messaggi di disinformazione relativi alla salute pubblica, oltre che di un disegno di legge bipartisan che renderebbe anche le pubblicità sui social media soggette ai medesimi obblighi richiesti agli annunci tramite stampa (c.d. Honest Ads Act) ha affermato di essere preoccupata per le azioni che Facebook ha intrapreso nei confronti dei ricercatori. È fondamentale che le aziende di social media proteggano i dati degli utenti e migliorino la trasparenza”, ha affermato, “Poiché ci troviamo di fronte a minacce alla nostra democrazia, abbiamo bisogno di più trasparenza dalle piattaforme online, non di meno. Ecco perché sono profondamente turbata dalla notizia che Facebook sta tagliando l’accesso dei ricercatori ai dati pubblicitari politici, che hanno dimostrato che la società continua a vendere annunci politici per milioni di dollari senza le dovute informative. ”
Inoltre, a seguito dell’evento, un gruppo di senatori statunitensi (fra cui anche Klobuchar e Warner) ha inviato a Facebook una formale lettera nella quale, dopo aver descritto le piattaforme pubblicitarie online come “opache e non regolamentate” e aver affermato che le società di social media hanno “permesso che un focolaio di disinformazione e truffe ai consumatori proliferasse e dobbiamo trovare soluzioni a tali problemi”, si chiedeva alla società di Mark Zuckerberg di fornire maggiori informazioni in merito alle ragioni dietro la decisione di impedire al team di ricercatori di approfondire lo studio del targeting politico.
Nella lettera, in particolare, si chiede a Zuckerberg di fornire risposte scritte a una serie di domande, tra cui quanti account di ricercatori e giornalisti sono stati sospesi/eliminati da Facebook nel 2021, perché sono stati rimossi, per quali motivazioni specifiche i ricercatori stavano compromettendo la privacy degli utenti e se quegli utenti erano inserzionisti o altre persone.
A sua volta, il senatore Ron Wyden ha affermato di aver chiesto all’FTC di “confermare che questa scusa è falsa come sembra”.
Come anticipato, infatti, quanto avvenuto giunge al termine di un’indagine svolta nei confronti di Facebook dalla Federal Trade Commission, che nel 2019 ha portato all’erogazione di una multa nei confronti della Società di ben 5 miliardi di dollari per aver violato le norme sulla privacy. A corredo della multa erogata, la FTC ha anche imposto alla Società nuove restrizioni sul trattamento dei dati personali e standard di responsabilità più stringenti, portando, per l’appunto, alla creazione della piattaforma pubblica da parte della Big Tech, per rendere il sistema di targeting pubblicitario più trasparente, in conformità ai principi dettati dalle norme sulla privacy.
Occorre evidenziare che anche Facebook si è più volte detto a favore di interventi legislativi che potessero dettare precisi standard per la trasparenza e la responsabilità delle inserzioni politiche; a tal riguardo, il CEO di Facebook Mark Zuckerberg ha da ultimo affermato che l’Honest Ads Act, fra tutti, “contribuirà ad alzare l’asticella di tutta la pubblicità politica online” e che “l’interferenza elettorale è un problema più grande di qualsiasi piattaforma”. Tuttavia, i disegni di legge relativi alla pubblicità digitale fanno molta fatica ad ottenere il giusto sostegno all’interno del Congresso, finendo, il più delle volte, nel nulla.
I chiarimenti della Federal Trade Commission
Il portavoce di Facebook Joe Osborne ha poi dichiarato che il decreto della FTC non era la ragione per cui erano state intraprese le azioni nei confronti dei ricercatori della NYU. Contrariamente, Osborne evidenziava che il decreto richiedeva a Facebook di creare regole per un programma sulla privacy, che i ricercatori hanno poi violato. Tuttavia, in una lettera firmata dal direttore della FTC Samuel Levine, si evidenzia che la spiegazione fornita successivamente non cambia molto l’aspetto generale di quanto accaduto.
“Se aveste onorato il Vostro impegno a contattarci in anticipo, avremmo sottolineato che il decreto non impedisce a Facebook di creare delle eccezioni per la ricerca svolta in buona fede nell’interesse pubblico”, ha scritto Levine. “In effetti, l’FTC sostiene gli sforzi volti a far luce sulle pratiche commerciali opache, in particolare sulla pubblicità basata sulla sorveglianza. Anche se non è il nostro ruolo risolvere le controversie individuali tra Facebook e terze parti, speriamo che l’azienda non invochi la privacy – tanto meno l’ordine della FTC – come pretesto per promuovere altri obiettivi”.
Conclusioni
Non è chiaro in quale modo la controversia recentemente insorta fra Facebook e i ricercatori possa influenzare il modo in cui la società si pone nei confronti dell’estrazione “etica” dei dati. Ad ogni modo, è evidente che il dibattito pubblico sul targeting politico è ancora caldo, e che occorrono interventi legislativi chiari, che possano dettare regole precise sulle informazioni che le società sono costrette a fornire per tutelare gli utenti da pericolose strategie di manipolazione politica, e sulle garanzie fornite ai ricercatori per la prosecuzione della ricerca “etica”, al fine di rendere i social network un posto più sicuro.