nuovi media e terrorismo

Nuove geografie del terrore: il Jihadismo nell’era digitale



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Il terrorismo islamico, attraverso l’uso strategico dei media, ridefinisce le geografie tradizionali, creando spazialità digitali e fisiche che amplificano la sua portata. Attraverso la simbiosi tra terrorismo e comunicazione, la narrazione terroristica influenza così la percezione della sicurezza e destabilizza gli equilibri geopolitici

Pubblicato il 2 feb 2024

Marino D'Amore

Docente di Sociologia generale presso Università degli Studi Niccolò Cusano



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I nuovi media digitali sono diventati strumenti essenziali nella propaganda del terrorismo islamico, ridefinendo la spazialità e l’azione terroristica.

La comunicazione globalizzata attraverso internet permette la diffusione ubiqua di messaggi di terrore che destabilizzano società e politiche internazionali. Il terrorismo sfrutta queste piattaforme per massimizzare visibilità e allarme sociale.

La radicalizzazione attraverso network virtuali crea comunità estese oltre confini geografici, mentre la narrativa jihadista si adatta alle tecnologie moderne per influenzare l’opinione pubblica. Il risultato è un’espansione del terrorismo che va oltre il fisico, infiltrandosi nel virtuale e nell’immaginario collettivo.

Proviamo allora ad analizzare il fenomeno terroristico, di comprendere come, e secondo quali modalità, esso, e la sua narrazione, modifichino le geografie esistenti, ne attualizzino di nuove, come detto, e sovvertano equilibri geopolitici stabilizzati nel tempo.

Il “fenomeno” terrorismo

Il terrorismo rappresenta un fenomeno proteiforme e imprevedibile, il cui scopo primo è quello di destabilizzare le istituzioni, neutralizzare le resistenze del potere costituito, depauperando, di fatto, la percezione della sicurezza di un corpus comunitario, sia secondo un livello nazionale sia internazionale. Esso rappresenta una realtà che accompagna storicamente l’esistenza umana, riuscendo spesso a rinnovarsi nelle sue forme e nelle sue azioni. Un concetto che rifugge qualsiasi definizione totalizzante, in quanto privo di un consenso condiviso sulla nozione stessa che ne definisce la natura essenziale e intrinseca.

La spettacolarizzazione del terrorismo

Il terrorismo è una realtà resa visibile, come detto, anche da quella comunicazione che ne costituisce il racconto e ne ha caratterizzato i presupposti secondo un mero meccanicismo. Una comunicazione che, di fatto, lo globalizza, neutralizzando, come detto, i confini, fisici, politici e culturali, ma soprattutto ridefinisce e costruisce comunità, luoghi e territori nella realtà e nell’immaginario popolare.

In base a un meccanismo comunicativo, ogni nuova minaccia assurge alla ribalta nelle vecchie e nuove spazialità mediatiche, divenendo parte del nostro vissuto quotidiano e alimentando le nostre paure. Infatti, i media, nel garantire l’informazione grazie alla possibilità di sfruttare le nuove tecnologie, sono invasivi e in grado di raggiungere ogni angolo del pianeta, spettacolarizzando immagini e messaggi di terrore, esacerbando, in questo senso, una visibilità inedita e ubiqua e diventando così i principali vettori di traiettorie, spaziali e al contempo semantiche, che destabilizzano le società.

Le geografie del terrorismo

Geografie fisiche e, al contempo immateriali, rendono ipervisibile la territorializzazione del terrorismo stesso, inteso come una realtà molto articolata che, assecondando tendenze metonimiche, si compone e viene influenzato da diversi elementi, come l’integrazione, le migrazioni e le omologanti istanze della globalizzazione. Questi elementi modificano, irreversibilmente e costantemente, le sue spazialità, intrinseche ed esteriori, attivando un processo imprevedibile che ne amplifica gli effetti e la dimensione drammatica, palesando una commistione che si manifesta particolarmente in una declinazione precisa del fenomeno: il terrorismo islamico che verrà analizzato attraverso la sua eziologia, la sua struttura e le sue deprecabili azioni.

Esso rappresenta il risultato ultimo e maggiormente esaustivo di un processo che, grazie anche all’ipermediazione[1], ovvero all’effetto moltiplicativo dei media, realizza e costruisce nuove imprevedibili spazialità.

Tale desiderio di immediatezza si manifesta attraverso il tentativo di offrire al pubblico esperienze profondamente reali in cui il mezzo di comunicazione si cela nell’apparenza di un luogo condiviso, ossia nell’elisione stessa del medium, permettendo a chi comunica di entrare in diretto contatto con l’opinione pubblica a cui si elargiscono nuovi panorami virtuali, scenari ammantati di un sedicente fascino ma che nascondono tutte le loro esecrabili criticità.

Questi sono i criteri sui quali si struttura l’azione comunicativa dei terroristi: instaurare un dialogo immediato con il proprio interlocutore, sfruttando le aree, interattive e multimediali, che connotano i new media. Mediante tale meccanismo, infatti, le grandi organizzazioni del terrore riescono a massimizzare gli effetti delle loro azioni, sia in termini di visibilità sia in termini di allarme diffuso. L’opinione pubblica si trova davanti alla forza devastante di immagini di attentati, di sofferenza, di morte e percepisce quelle realtà come molto più prossime e preoccupanti, esacerbate da tale rappresentazione glorificante e autoreferenziale che corrode la dimensione spaziale.

Terrorismo e periferie

Dal 2015 gli attacchi terroristici hanno esteriorizzato alcune evidenti tendenze evolutive del fenomeno jihadista europeo. Le più rilevanti possono essere rintracciate nel consolidamento del processo radicalizzante autoctono e la definitiva consacrazione della periferia urbana come luogo per la metabolizzazione e la diffusione del terrorismo di ispirazione fondamentalista.

Il concetto di periferia si riferisce alla dimensione geografica, politica e sociale comune a diverse città europee e mondiali. Tuttavia, appare innegabile che a Parigi e Bruxelles, la radicalizzazione in senso jihadista rappresenti una realtà evidente e in costante evoluzione. In questo senso, il caso franco-belga può servire sia da modello orientativo sia per l’analisi di altri scenari urbani europei sia da monito per i governi e le istituzioni nell’elaborazione di una strategia di contrasto e prevenzione.

La radicalizzazione jihadista in Europa

La periferia parigina, ad esempio, è un agglomerato urbano fortemente frammentato, suddivisibile in due grandi macro-gruppi: nel primo gruppo, la maggioranza della popolazione è autoctona e agiata; nel secondo gruppo, la popolazione è prevalentemente straniera o di derivazione coloniale: immigrati di prima e seconda generazione che patiscono una sostanziale privazione di servizi ed assistenza sociale unita alla stigmatizzazione.

Il tratto caratterizzante della periferia è la distanza non solo geografica ma sociale, politica e culturale rispetto al centro della città, ai valori e agli stili di vita che la caratterizzano. Essa si configura come il principale scenario del malessere sociale e la fucina di creazione e proliferazione di modelli culturali in aperto contrasto con quelli dominanti.

In tale scenario sociale, prima Al-Qaeda e poi lo Stato Islamico, hanno saputo manipolare il malcontento sociale, i problemi legati alla disoccupazione, la ricerca della propria identità da parte delle comunità emarginate. La radicalizzazione è avvenuta in maniera variegata, attraverso il contatto diretto, sia in strada sia nelle carceri, o mediante le dinamiche comunicative attualizzate da internet. In questo caso, la responsabilità non è da attribuire alle moschee, ma ai gruppi di imam e predicatori estremisti, attori che proliferano nel sottobosco sociale della periferia europea, dalla Svezia fino alla Germania, dalla Bosnia fino al Kosovo[2]. Altro aspetto da considerare è che l’Islam moderato non è riuscito a fidelizzare nuovi adepti nei luoghi più degradati delle realtà cittadine periferiche. Inoltre, la maggioranza dei foreign fighters francesi e dei principali attivisti radicali non sono mai stati musulmani praticanti prima della loro radicalizzazione. Questo a riprova di come la propaganda jihadista non recluti proseliti sulla base di criteri meramente religiosi, bensì mirando a individuare sacche di alienazione sociale che chiedono riscatto.

Per questa ragione, riferendosi alla radicalizzazione francese, ed europea in generale, si deve parlare di jihadismo europeo tout court, endogeno e non di un fenomeno esclusivamente importato[3].

L’arruolamento nelle milizie dello Stato Islamico o in quelle di Al-Qaeda e l’esperienza nei fronti jihadisti in Medio Oriente e in Nord Africa rappresentano una duplice possibilità: ricevere, innanzitutto, un adeguato addestramento ed effettuare quel percorso propedeutico necessario per portare a termine il processo di radicalizzazione e completare la formazione jihadista. Infatti, la pianificazione e l’organizzazione dei recenti attentati europei, oltre alla rete di copertura utilizzata per sfuggire alle forze dell’ordine e alle intelligence, hanno mostrato come la periferia funga da quartier generale per la fabbricazione, ad esempio, di giubbotti esplosivi, lo stoccaggio delle armi, la logistica e la gestione delle operazioni. In questo senso, non si può trascurare il collegamento tra territorializzazione dei movimenti jihadisti e radicamento delle reti fondamentaliste islamiche nelle periferie sopracitate[4].

Alla luce delle considerazioni fatte sinora, i governi europei e le istituzioni dell’Unione appaiono preoccupati per lo sviluppo futuro del fenomeno jihadista autoctono. Infatti, anche se Belgio e Francia rappresentano gli esempi più evidenti, le periferie delle grandi città tedesche, danesi, olandesi, inglesi, svedesi e italiane potrebbero esteriorizzare analoghe problematiche. La commistione tra il proselitismo Islamico e l’alienazione, sociale ed economica, di una parte della popolazione musulmana potrebbe favorire la crescita del fenomeno di radicalizzazione nonché quella dello spirito di emulazione.

L’Ue e la strategia di contrasto alla radicalizzazione jihadista

Nell’implementazione di una strategia di contrasto alla radicalizzazione jihadista, le istituzioni europee non dovrebbero mai dimenticare l’eziologia della problematica in questione. Il fatto che l’esclusione trovi redenzione nell’adesione alla causa jihadista è sintomatico della crisi valoriale dello stato sociale.

In genere l’atto del terrorista si contestualizza all’interno di un ambito reattivo appreso e interiorizzato: in un ambiente ideologico chiuso e impermeabile alle frustrazioni derivate dallo stigma dell’esclusione sociale si reagisce con l’adesione a una sottocultura violenta che legittima il passaggio all’azione. Un’azione che diventa riscatto e vendetta rispetto a una sanzione ritenuta immeritata nella dialettica tra minoranza esclusa e maggioranza dominate.

Quindi, nella costruzione di un adeguato piano di prevenzione di atti terroristici come quelli che hanno insanguinato di recente l’Europa, oltre ai classici strumenti preventivi dell’intelligence, i paesi europei dovrebbero seriamente considerare l’efficacia di un vasto programma formativo per il ripensamento dei modelli di integrazione che hanno evidentemente fallito: dal multiculturalismo britannico fino all’assimilazionismo francese, passando per il funzionalismo tedesco, e mirare al recupero di quelle fasce della popolazione più vulnerabile e maggiormente influenzabile.

La genesi del terrorismo, inteso come fenomeno multifattoriale ed esecrabile, va rintracciata nelle dinamiche dei meccanismi relazionali sottesi al funzionamento delle società come detto, evitando spiegazioni monolitiche e semplicistiche. In generale in quelle moderne come le occidentali, l’apparizione di nuove controculture suscita dibattiti e rifiuti delle norme e dei valori tradizionali generalmente intesi, a cui corrisponde la proposta o l’imposizione di nuove regole.

In questi casi la risposta istituzionale rischia di aggravare tali degenerazioni, attraverso la commistione tra un maggior rigore normativo e minori garanzie di libertà. Attraverso questo meccanismo i terroristi ottengono una sorta di riconoscimento, una legittimazione eterodiretta, mentre i cittadini tendono a un’accettazione accondiscendente delle procedure eccezionali, aderendovi con un’acritica inerzia dovuta e sostenuta dalla presunta eccezionalità del momento e attuando costantemente comportamenti di esclusione che obbediscono a dinamiche di causa-effetto[5].

Terrorismo e comunicazione

Contenuti di carattere intimidatorio vengono condivisi sulla rete da radicali musulmani che, aggrappandosi ad una distorta visione del vero Islam, istigano alla violenza e alla lotta contro gli infedeli. La mole di contenuti di stampo terroristico che spunta sul web ogni giorno è spaventosa e proprio per questa ragione lo sforzo deve essere sempre collettivo[6].

Gli sforzi dei social

Per questo motivo, Facebook, YouTube, Twitter e Microsoft si uniscono per la creazione un database condiviso di tracce digitali uniche che vengono assegnate ai contenuti di carattere violento o collegati ad attività terroristiche condivisi online.

In questo modo se una pubblicazione viene bloccata, ad esempio su Facebook, non potrà essere condivisa successivamente su YouTube o su Twitter.

Google menziona l’uso di tecnologie di machine learning per riuscire ad identificare e segnalare in maniera più veloce i contenuti legati, direttamente o indirettamente, ad attività terroristiche. Nonostante gli sforzi nello sviluppo di queste tecnologie, la principale sfida riguarda ancora la difficoltà nel distinguere i contenuti: un video con immagini o contenuti associati al terrorismo può essere informativo se presentato dalla BBC o dalla CNN ma può essere un potente catalizzatore di condotte violente o estremiste se pubblicato da un altro utente.

Inoltre, Facebook, Microsoft, Twitter e YouTube hanno annunciato anche la creazione del Global Internet Forum to Counter Terrorism, che avrà lo scopo di liberare, in ottica sinergica e collaborativa, i rispettivi servizi di hosting di contenuto dalla comunicazione di estremisti violenti.

Altro strumento della strategia di lotta al terrorismo sul web occorre menzionare anche che YouTube ha introdotto il redirect method, che reindirizza chi cerca dei video su contenuti estremistici verso delle playlist che contrastano e demistificano i contenuti stessi e la propaganda terrorista.

La propaganda digitale del Califfato

I video presenti in queste playlist hanno l’obiettivo di fornire più elementi che possano contribuire a cambiare l’opinione delle persone che sono a rischio di radicalizzazione.

Tutta la comunicazione dello Stato islamico è stata fondata sulla grande narrazione che i gruppi storici jihadisti, soprattutto nel caso di Al-Qaeda, hanno creato dopo la guerra in Afghanistan contro i sovietici. Questa narrazione include il furto di simboli islamici collettivi come la bandiera nera, ma soprattutto Il messaggio fondamentale che riguarda la salvezza e il senso di appartenenza all’unica comunità dei credenti che consente di guadagnare il paradiso attraverso il martirio.

La propaganda del sedicente Califfato ha solo beneficiato della rivoluzione tecnica del Web 2.0 per la sua diffusione nella Rete[7].

Alla domanda sulle principali differenze comunicative tra Isis ed al Qaeda ci risponde così Asiem El Difraoui, politologo ed economista di origine egiziana-tedesca, regista cinematografico conosciuto dal grande pubblico per il successo del 2008 di “The al Qaeda Code”.

Il 29 giugno 2014, il discorso di Al Baghdadi dalla moschea di Mosul e il comunicato diffuso in Rete, che annunciava che lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIL) avrebbe cambiato nome, ha dato inizio al processo di oscuramento mediatico di al Qaeda per qualità e diffusione di una comunicazione più all’avanguardia e dedicata alla causa[8].

Nel comunicato ISIL si annunciava che lo Stato Islamico aveva assegnato al suo leader il ruolo di califfo, come successore del Profeta Maometto e si chiedeva al mondo arabo di giurargli fedeltà, delegittimando in questo modo ogni altro gruppo. Da quel video si capiva quali erano gli obiettivi del gruppo e quali fossero le sue capacità sul piano comunicativo, che da sempre riveste una viscerale importanza oltre al campo di battaglia.

Il video dura 15 minuti e 4 secondi, le riprese sono in Full HD, le inquadrature sono studiate, così come le luci e l’audio. In alto a destra compare il simbolo della casa produttrice, ‘al Hayat’, che sarà autrice di quasi tutti i contenuti media di stampo jihadista sunnita.

Con al Qaeda il cammino tra la radicalizzazione, l’arruolamento, il combattimento e il martirio, avveniva in segreto. Dei mujaheddin responsabili degli attacchi, si conoscevano i volti e i nomi solo dopo l’estremo sacrificio, quando ormai si erano trasformati in shahid, cioè in martiri.

La comunicazione dell’ISIS

La comunicazione dell’ISIS oggi rappresenta una parte fondamentale e irrinunciabile dell’attacco stesso. Essa avviene in internet dove i combattenti e i sostenitori delle filosofie jihadiste discutono, postano video e foto dei reclutati, raccontano la loro dottrina quotidiana, promuovendo modelli di vita alternativi a quella occidentali, gli unici ritenuti giusti, gli unici possibili.

I futuri terroristi trovano un palcoscenico in cui possono essere protagonisti, prima del paradiso, rivolgendosi a una platea globale e sconfinata che garantisce una popolarità insperata in una sorta di precoce e terrena immortalità, attualizzata attraverso il compimento di atti eroici[9].

La produzione video

La produzione video, anche se sorprendente e drammaticamente professionalizzata, non è la sola capacità nelle mani dei terroristi. Sia al Qaeda che l’ISIS, godono di riviste e redazioni rispettivamente Inspire per il primo; la già citata Dabiq e Rumiyah per il secondo, dove la comunicazione palesa le sue avanguardie: un’impaginazione simile a quella di molte testate occidentali unita a una correttezza sintattico-lessicale tipica delle scuole di giornalismo[10]. Le interviste e i racconti sono spesso corredati da foto tratte da video altrettanto agghiaccianti e i testi sono spesso la trascrizione integrale delle conversazioni riprese dai video. Tutto questo esteriorizza un assiduo lavoro redazionale, nonché la conoscenza del processo di implementazione e ottimizzazione nella pubblicazione di contenuti giornalistici, facendo sì che i due gruppi, all’interno di una competizione concreta, si stimolassero a vicenda.

Quando Osama Bin Laden morì, nel 2011, la narrativa jihadista si era indebolita ed era poco considerata nel mondo arabo.

Il messaggio dello Stato Islamico, pur sotteso alla stessa ideologia, prevalse all’interno della competizione sopracitata. Questo è dovuto al fatto che L’ISIS stesso risulta essere molto più organizzato e strutturato di Al Qaeda, usa benissimo i mezzi di comunicazione, i social network e gli stessi attentati hanno lo scopo ulteriore di rendere i loro autori dei simboli, dei miti fidelizzanti per futuri proseliti[11].

È lecito pensare che se i leader di Al-Qaeda fossero stati più reattivi nell’adattarsi ai cambiamenti tecnologici l’organizzazione rappresenterebbe ancora il nemico principale degli USA e dei Paesi alleati. Come già affermato lo Stato Islamico si palesa fortemente come un’alternativa ad Al-Qaeda e oppone alle sue vaghe minacce contro un monolitico e indistinto Occidente una promessa ben più pratica e precisa e delle ricompense tangibili per i suoi seguaci.

La forza della sua propaganda riesce a convincere anche giovani musulmani ad andare in guerra, utilizzando l’invasività catalizzatrice dei social media per diffondere delle profezie apocalittiche, gonfie di retorica che si ammantano di legittima autenticità.

Tale macchina propagandistica servì ad attrarre anche combattenti esperti dalla Bosnia, dalla Cecenia e altri paesi mediorientali, individui dotati di notevoli competenze militari che favorirono l’espansione dell’organizzazione.

Media e terrorismo

Il processo di fidelizzazione allo Stato Islamico è un’operazione che si avvale di alta tecnologia, gestita da professionisti che se ne occupano a tempo pieno. Infatti, quando un contenuto viene rimosso da un sito o da una piattaforma online, esso ricompare subito da un’altra parte, permettendone la fruizione e il caricamento su altri blog, siti, social network secondo dinamiche piramidali. Allo stesso modo, quando un account importante subisce una sospensione su Twitter, Facebook o YouTube, viene ricreato nel giro di pochi minuti e riprende la sua attività senza particolari difficoltà.

Tutti i formati della propaganda

La propaganda comprende il formato tradizionale, cartaceo e quello digitale. Nel primo caso, essa risulta utile per i predicatori che si aggirano per le città, distribuendo opuscoli e piccole guide che informano sui risultati realizzati nel rispetto della legge coranica. Nel secondo, serve per comunicare con gli utenti della Rete, impressionandoli con fotografie, video e messaggi audio che inneggiano al Califfato.

Il suo organo di comunicazione ufficiale più noto, come detto, è Dabiq, una rivista pubblicata online, in formato pdf, facilmente scaricabile e condivisibile, il cui primo numero risale al 5 luglio 2014.

Si tratta di una scelta basata, anche in questo caso, su esigenze concorrenziali e sulla necessità di opporsi a Inspire, la rivista di Al-Qaeda che è, ancora oggi, un punto di riferimento per i jihadisti. Il periodico è redatto primariamente in inglese, ma è possibile reperire anche delle versioni in arabo, russo, francese e tedesco secondo istanze diffusive il più possibile globalizzanti.

Spesso le traduzioni sono estremamente semplificate, per facilitare la comprensione dei concetti che veicolano. Da queste letture emergono concetti come il senso di appartenenza che vede i membri dell’organizzazione concepiti non come soldati, ma come fratelli, membri di una stessa grande famiglia, la Ummah musulmana, e leoni che combattono contro i crociati, i kafir, quelli che non credono in Maometto e in Allah e i murtad, ossia musulmani apostati, polarizzando in questo modo il conflitto attraverso una continua dicotomia tra fedeli e infedeli. Tali termini ricorrono spesso nei messaggi diffusi dai mezzi di comunicazione del gruppo, assumendo una valenza più connotativa che denotativa, attualizzando un forte simbolismo identificativo dello Stato Islamico[12].

Le citazioni coraniche vengono ampiamente usate per giustificare le proprie argomentazioni e così, ampiamente decontestualizzate, diventano degli ottimi slogan di propaganda, evocando scenari epici e proclami eroici contro i nemici di un sedicente Islam nella sua caratterizzazione fortemente radicalizzata.

La rivista Dabiq

La rivista Dabiq funge come una sorta di realtà aggregatrice omogenizzante delle tematiche jihadiste, in quanto comprende riferimenti all’ègira, letteralmente migrazione, verso la Siria, la glorificazione dei martiri, la lotta agli infedeli, la rivendicazione degli attacchi terroristici e la prospettiva di una vita sotto l’egida della bandiera nera, aumentando la drammatica seduzione delle promesse fatte dallo Stato. Inoltre, la rivista non si rivolge solo ai jihadisti, ma serve anche per spiegare e motivare a tutti i musulmani le ragioni e il senso profondo del progetto del Califfato[13].

Oltre a Dabiq esistono altre due riviste generiche, ISN (Islamic State News) e ISR (Islamic State Report), pubblicate da al-Hayat Media center, che sono essenzialmente dei bollettini volti a informare sui risultati raggiunti dallo Stato. Ad esse si accompagnano delle riviste locali, prodotte in Paesi esterni a Siria e Iraq, che aggiornano sull’evoluzione di Daesh e commentano le strategie messe in atto dalle autorità nazionali, come Dar-al-Islam, interamente in francese, Konstantiniyye, in turco, e Istok, in russo.

I responsabili della propaganda hanno anche dimostrato una grande abilità nel gestire la convergenza mediatica, creando interdipendenze comunicative tra diversi device, usufruendo di ogni tipo di piattaforma comunicativa[14].

Ad esempio, nel febbraio 2014 è stato annunciato il videogioco Grand Theft Auto: Salil al-Sawarim, che riprende il titolo di un noto videogioco e lo collega a un video di propaganda pubblicato qualche tempo prima (Salil al-Sawarim), che ha così ottenuto circa 57.000 visualizzazioni. In quest’ultimo caso, si evidenza anche la padronanza del concetto di gamification, che trae la portata comunicativa e formativa del gioco a favore della diffusione del messaggio di Daesh.

Ogni zona dello Stato, suddiviso in una ventina di province, wilayat, ha un proprio centro di produzione, che si occupa delle notizie locali, attualizzando pienamente il concetto di glocalizzazione[15]. Inoltre, esistono degli enti centrali che si occupano della realizzazione di contenuti grafici, testuali o video che vengono riutilizzati dai centri subordinati, ossia al-Furqan (in riferimento alla sura aprente del Corano) e il già citato al-Hayat Media Center, fondato nel mese di maggio 2014 dal rapper tedesco ed ex foreign fighter Abu Talha al-Almani, alias Deso Dogg.

I contenuti pubblicati o condivisi via internet spaziano dai video di propaganda che mostrano scene di combattimento, chiamate al jihad o testimonianze di combattenti; passando per i nashid, ossia inni che cantano le gesta dei mujahidin; articoli relativi agli eventi locali oppure a dichiarazioni delle autorità straniere; fino agli e-book che indicano i passaggi per costruire degli ordigni esplosivi o descrivono l’ideologia dello Stato, come i libri programmatici della serie Black Flags, che spesso ricorrono a informazioni provenienti dai media europei o statunitensi, ricontestualizzate iconograficamente, utilizzando immagini “hollywoodiane” di alta qualità realizzate con il fotomontaggio e altri effetti grafici. Produzioni spesso associate a citazioni di figure autorevoli o a passi coranici, che promuovono documentari del gruppo, alcune realizzate con l’ausilio di droni.

I canali usati per viralizzare i contenuti di propaganda

I canali principali che vengono usati per viralizzare tale materiale, in modo da neutralizzare la censura dei singoli siti, sono i social network, specialmente Twitter, Facebook e YouTube e siti di condivisione gratuita di file come justpaste.it, archive.org, Diaspora e Live Leak.

Questi strumenti permettono di diffondere facilmente i contenuti e di sfruttare le logiche della diffusione internettiana per raggiungere un pubblico sempre più ampio in tempo reale. Inoltre, al contrario di mezzi di comunicazione unidirezionali come le riviste, i social permettono l’interazione e forniscono l’occasione di entrare direttamente in contatto con reclutatori e simpatizzanti, che si dimostrano sempre molto disponibili a rispondere alle domande degli utenti. In questo modo il messaggio dello Stato Islamico può raggiungere e influenzare, attraverso le proprie tecniche di fidelizzazione e la retorica che le connota, migliaia di potenziali combattenti[16].

La tecnologia opera secondo un’ottica multitiming e multiplacing, in ogni momento e in ogni luogo, impedendo di rimanere estranei a eventi che avvengono in altre parti del mondo. Tale processo rappresenta un’arma a doppio taglio, poiché se le informazioni che riceviamo sono incomplete o edulcorate, è inevitabile una loro decodifica aberrante[17] e la formazione di un’opinione distorta della situazione.

Lo Stato Islamico ha compreso che internet, per i cittadini occidentali, sembra più reale della stessa realtà e sta sfruttando questa debolezza per esteriorizzare visioni terribili, polarizzare il conflitto tra fedeli e infedeli e suscitare dibattiti interni volti a neutralizzare il confronto e il dibattito politico che ne consegue.

Il web viene gestito con molta disinvoltura e maestria, utilizzando strumenti per la comunicazione crittografata, a partire dal già citato Telegram fino a sistemi VNP e Tor, che impediscono di identificare l’indirizzo IP da cui si accede alla Rete e che permettono di aggirarsi nel deep web senza lasciare tracce.

In seguito agli attentati di novembre 2015 a Parigi, si è anche sostenuto che IS, acronimo per definire lo Stato Islamico dopo le sconfitte e i territori perduti in Siria e Iraq, usasse le chat private della consolle PlayStation 4 per sfuggire al monitoraggio delle intelligence internazionali, concentrato su devices più attuali[18]. La caratteristica più importante, e al contempo più allarmante, del piano comunicativo terrorista è il fatto che esso estenda la propria presenza in modo tentacolare su ogni piattaforma, sito e social network, archetipo simbolico della sua espansione nel mondo reale, realizzato attraverso la conquista territoriale.

La radicalizzazione è il risultato della propaganda sopracitata: l’atto terroristico, la minaccia diretta e indiretta, le scene cruente sono ormai la linfa che alimenta il voyeurismo mediatico, finalizzata a rendere visibile l’esteriorità di una strategia molto più complessa che si prefigge l’obiettivo della radicalizzazione su larga scala.

L’aspetto più d’impatto della comunicazione dello Stato Islamico non è però legato alla narrazione militarizzata, ma all’altra faccia della medaglia, quella che vede i membri dell’organizzazione mentre soccorrono i civili e giocano con i bambini, ossia la componente emozionale che inganna, fidelizza e riabilita, umanizzandola profondamente, quella violenza cieca ed esecrabile, negandone la barbarica recrudescenza. La strategia mediatica di IS è quindi più complessa e sottile di quella di altre organizzazioni, che puntano esclusivamente sul terrore puro per conquistare territori e prostrare le loro comunità, confermando il suo elevato livello di assimilazione di strumenti e tecniche comunicative[19], nonché la sua abilità di adoperarli a danno dei propri nemici.

Il terrorismo tra narrazione e contronarrazione

Le tecnologie mobili e i social network rassomigliano sempre di più ad armi, le quali danno vita al cosiddetto mobile warfare, una situazione in cui il conflitto trae vantaggio da questi strumenti. Per darne una definizione ancora più completa, potremmo fare riferimento al concetto di consumerization of warfare, coniato da Andrea Zapparoli Manzoni[20], che sottolinea il contributo e l’inclusione delle tecnologie di consumo nel campo militare. Nei paesi oppressi da regimi autoritari queste possono essere adoperate per contrastare l’ordine costituito e informare il mondo sulla realtà dei fatti, aggirando la censura governativa, ma possono anche essere adottate da chi detiene il potere per ridurre la popolazione in uno stato di vessazione psicologica.

In questo senso Daesh si struttura attraverso una morfologia di tipo statale, che governa un territorio sul quale riscuote tasse e offre servizi, si propone di battere moneta e pubblica un budget, esercita il potere della violenza, comunica attraverso una pluralità di media e diversifica i messaggi.

Sottovalutarlo e lasciare che la sua capacità di manipolazione delle informazioni influenzi la percezione della realtà a tal punto da farla coincidere con le profezie apocalittiche che esso diffonde rappresenta un errore sesquipedale. Diventa inderogabile analizzare con cura le sue azioni, concrete e virtuali, in modo da poter individuare le falle su cui agire in un’ottica di contronarrazione.

Emerge, quindi, in modo fondamentale il rapporto tra i nuovi media e il terrorismo, di cui viene analizzata la loro relazione di reciproca influenza volta ad ottenere visibilità e una maggiore audience.

La glorificazione della guerra contro i cosiddetti infedeli anticamente avveniva nelle moschee, nelle carceri o nelle associazioni islamiche, quindi in luoghi che presupponevano un’influenza diretta, il dialogo e la compresenza fisica. Oggi, grazie all’utilizzo delle nuove tecnologie e alla comunicazione elettronica sempre più diffusa, i social network e i mezzi di comunicazione di massa giocano un ruolo fondamentale per le strategie di propaganda che il sedicente Stato Islamico ha saputo usufruire e ottenerne il massimo rendimento.

Esso, infatti, continua a diffondere con regolarità immagini e video cruenti, messaggi intimidatori verso i suoi nemici e docufilm dei propri successi, improntati sulla logica dell’infotainment, genere nato dalla fusione delle parole information (informazione) ed entertainment (intrattenimento).

Tale organizzazione terroristica nel corso del tempo ha ripetutamente cambiato la propria denominazione: nel giugno del 2014 ha assunto il nome di Stato Islamico, due anni dopo ha assunto il nome di Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, noto con la sigla di Isil o Isis, nome che rimanda all’intenzione dei jihadisti di pensare al loro modello di Islam, non solo come una realtà religiosa ma anche geopolitica[21].

La definizione in lingua araba dell’ISIS è Dawlat al-Islamiyah f’al-Iraq wa al-Sham, cioè Stato Islamico di Iraq e Siria, il cui acronimo Daesh significa calpestare o schiacciare[22].

Il nome ISIS, ossia Stato Islamico dell’Iraq e della Siria, incarna semanticamente la formazione di uno stato vero e proprio, pretesa che non viene minimamente avallata dalla comunità internazionale. In questo modo si approverebbe la connotazione di entità statuale di un’organizzazione terroristica, che, in quanto stato territoriale soddisferebbe i criteri del diritto internazionale, legittimando quindi la rappresentazione di tutta la comunità islamica, una comunità composta da più di un miliardo e mezzo di persone collocate in un’area geografica che si estende dal Marocco all’Indonesia e dalla Cina nord-occidentale fino al Sudan.

Al contrario di Al-Qaeda, l’ISIS ha conquistato numerosi territori in Siria e in Iraq, ed è stato sempre caratterizzata da una volontà di territorializzazione del potere e di creare uno Stato con un sovrano, il Califfo, e un esercito, e renderlo autonomo e indipendente anche dal punto di vista economico.

Dal punto di vista culturale e religioso, l’ISIS afferma di imitare la comunità originaria che diffuse il culto del profeta Maometto, caratterizzata dalla totale obbedienza al Califfo, nel sedicente rispetto delle leggi islamiche.

L’organizzazione territoriale è dunque volta a mostrare la plausibilità del progetto del Califfato, il quale fornisce una primitiva organizzazione piramidale, militare e amministrativa, che persegue, con la forza, la legittimazione mediante il consenso a livello locale nelle regioni occupate.

Lo Stato Islamico, nei territori conquistati, tenta non solo di rispondere alle esigenze di uno stato moderno (territorialità, sovranità, legittimità e burocrazia), ma istituisce anche dei tribunali religiosi e impone la Shariʿah, ossia la cosiddetta legge di Dio, le cui fonti sono il Corano e la Sunna, la sacra immutabile tradizione, come unica legge giuridica applicabile nel Califfato.

Il termine Jihad ha assunto attraverso lo Stato Islamico un significato del tutto nuovo: costruire uno Stato. Compito del jihadista è quindi quello di difendere la propria comunità in nome dell’Islam, ma anche quello di attualizzare un patto tra l’uomo e Dio, attraverso la realizzazione di un Califfato mondiale.

Il Jihad moderno ha come fine la sottomissione del mondo musulmano grazie a un Califfato che trascenda le frontiere nazionali: ecco perché si parla attualmente di globalterrorismo o di eurojihadismo[23].

Nuove spazialità e territorializzazione digitale

Grazie alla globalizzazione e alla diffusione di internet, la realtà geografica si divide in reale e virtuale: quella reale, che concerne il conflitto vero e proprio, e quella digitale poiché il reclutamento alla jihad avviene principalmente grazie all’utilizzo dei social network, elidendo di fatto ogni caratterizzazione di tipo spaziale e temporale[24].

La guerra lontana almeno geograficamente appare allo stesso tempo vicina e presente, sia attraverso la vetrinizzazione quotidiana degli accadimenti in televisione o in Rete, con notizie e immagini al riguardo, e sia perché numerosi combattenti dello Stato Islamico provengono in gran numero da città europee: i cosiddetti Foreign Fighters.

L’Islam radicalizzando muta costantemente, passando da una realtà improntata ai desueti stati nazione per strutturarsi secondo un modello profondamente globalizzato. Questa nuova forma si caratterizza per la capacità di reclutare un’enorme massa di seguaci potenzialmente illimitata.

La Rete assurge a medium principe che esteriorizza la sua duplice natura: quella di strumento di socializzazione, ma, al contempo, mezzo che permette di fruire contenuti in maniera individuale. Si sta tornando quindi a una fase in cui il singolo autore di attentati ottiene una visibilità potenzialmente planetaria grazie alle dinamiche, invasive e piramidali, del web.

Lo stesso McLuhan aveva preconizzato questa stretta connessione tra media terrorismo, definendo quest’ultimo come un modo di comunicare e affermando che senza comunicazione non vi sarebbe terrorismo[25].

Gli stessi media, soggetti alle logiche del newsmaking e della commercializzazione della notizia sono sempre più propensi a diffondere e dare visibilità a contenuti di questo tipo, all’interno di un mercato profondamente concorrenziale in cui il discriminante è l’esclusività. Elemento che sottolinea il rapporto reciproco, necessario e speculare tra comunicazione e terrore.

La propaganda dello Stato Islamico è consapevole dell’assuefazione dei fruitori rispetto alla visione di eventi scioccanti e spettacolari e di come, troppo spesso, la verità passi in secondo piano rispetto al sensazionalismo della sua narrazione

I media contemporanei, in questo senso, attualizzano un overload informativo che catalizza interessa e pone in essere una sorta di processo ipnotico che fidelizza lo spettatore e ne costituisce i bisogni comunicativi.

Storicamente le società occidentali hanno tentato, attraverso lo sviluppo sociale, culturale e tecnologico, di mitigare la presenza della morte e concretizzare l’idea di una sostanziale sicurezza sociale, rendendo la percezione del pericolo un elemento esiziale.

Tale deficit stimola i terroristi a distruggere un delicato equilibrio attraverso una sfida, prima simbolica e poi fattuale, all’intero sistema sociale. Questo, secondo Baudrillard, è il cosiddetto spirito del terrorismo[26].

La morte simbolica, una morte portata quindi all’estremo, fa breccia nella sensibilità dello spettatore e instaura in lui il sentimento della paura e dell’insicurezza; è un eccesso di realtà che il pubblico non riesce ad accettare e ne è quindi sconvolto. Molti contenuti fotografici talmente scioccanti da risultare incredibili iniziano a circolare sul Web anche pochissimo tempo dopo un attentato, come ad esempio le drammatiche immagini diffuse su Facebook da un turista italiano sulle Rambla a Barcellona dopo l’attacco del 17 agosto 2017, le quali mostravano i feriti e i morti a terra dopo il passaggio del furgone guidato dagli attentatori.

Le immagini televisive del crollo delle Torri Gemelle nel 2001 erano così intense e incredibili da sembrare quasi estratte da un film; le fotografie scattate durante una guerra che raffigurano ad esempio delle torture inflitte a dei prigionieri non sono più in grado di rappresentare la realtà poiché, rendendo tutto esplicito e visibile, hanno perso la capacità di comunicare.

Attualmente i media, da standardizzati e di massa, si tramutano in media sociali, ossia capaci di consentire la partecipazione attiva dell’utente.

La Rete è diventata quindi un luogo di scambio prima che di mera comunicazione. Il messaggio, se prima passava dalla televisione allo spettatore, essendo in tal modo unidirezionale, ora non arriva più a un soggetto tendenzialmente passivo, ma verso un attore comunicativo alfabetizzato in grado di interagire.

La diffusione della Rete sembrerebbe aver quindi democratizzato la società, permettendo a praticamente chiunque dotato di una connessione internet di agire in prima persona, e consente anche a individui con meno risorse di ottenere importanti risultati per quanto riguarda la comunicazione e la costruzione del consenso.

L’influenza dei media è da porre in relazione con il contesto di ricezione e i fattori personali e sociali che lo accompagnano ed essa può variare in base alle identità, alla cultura, alle gerarchie valoriali e alle conoscenze del pubblico.

In questo senso lo Stato Islamico ha iniziato a promuovere un rapporto di scambio con i propri interlocutori, costruendo man mano un legame di fiducia volto a aumentare il consenso, l’aggregazione e la fedeltà.

Lo Stato Islamico è pienamente consapevole della fondamentale importanza che rivestono i suoi sostenitori per la sua stessa esistenza, la sua linfa vitale e, grazie ad una mirata strategia di propaganda, cerca di aumentarne il numero e la visibilità stessa dei propri messaggi, soprattutto grazie all’intervento della propria audience che può fungere da moltiplicatore diffusivo degli stessi presso altri potenziali pubblici.

Un metodo efficace per diffondere i propri messaggi nel web è, ad esempio, il lancio degli hashtag, una tipologia di etichette digitali utili per circoscrivere l’argomento di una conversazione e a farlo circolare soprattutto nei social network a disposizione di coloro che ne siano interessati.

Dal 2009 Twitter ha reso possibile il cosiddetto live tweeting, ossia la possibilità di commentare online in tempo reale un evento utilizzando appunto uno specifico hashtag che vi sia collegato[27].

Nel 2015, nelle ore successive all’attacco terroristico al giornale satirico Charlie Hebdo in Francia, in rete sono comparsi numerosi hashtag che sostenevano apertamente l’azione dei terroristi, come ad esempio #we_avenged_the_prophet, #lone_wolves, #parisburns. Twitter, in questo modo, è diventato il luogo digitale della narrazione e della contronarrazione: da un lato hashtag che inneggiavano alla violenza terrorista, dall’altro il popolare #jesuischarlie a sostegno delle vittime e del giornale colpito.

La strategia di propaganda islamica punta all’emozionalità, piuttosto che sulla razionalità dell’utente con cui si relazionano, offrendogli numerosi contenuti sottesi a tale connotazione. La rilevanza dei contenuti è infatti un elemento alla base della social media strategy: alimentare l’interesse e la curiosità voyeuristica del proprio pubblico diventa un elemento imprescindibile nell’economia di un atto comunicativo efficace[28].

I social network si sono rivelati strumenti efficaci non solo per consolidare la reputazione e la credibilità di un gruppo, grazie al loro approccio sempre più consumer oriented, mirato a determinate fasce di pubblico, selezionate in base ai loro interessi, attraverso un’adeguata targettizzazione che selezioni i contenuti rilevanti per l’utente.

Non basta solamente scegliere un titolo d’effetto o uno stile espositivo particolarmente attraente, ma un contenuto, per essere pervasivo, deve attirare l’attenzione del pubblico, risultare di facile comprensione e essere accettato come un fatto reale[29].

Di fondamentale importanza sono allora le emozioni coinvolte nel processo di persuasione e le tecniche narrative, oltre a coinvolgere il lettore, rendono anche più comprensibile l’argomento trattato.

Viene utilizzata a tale scopo dallo Stato Islamico la tecnica del Digital Storytelling, vale a dire l’insieme delle storie personali destinate a una piattaforma online che ora si è in grado di raccontare a un pubblico notevolmente più vasto grazie alla diffusione dei social network e di internet[30].

Rilevante è infatti la presenza online di numerosi blog dove solitamente sono contenuti i racconti, per lo più in lingua inglese, di chi ha deciso di raggiungere la Siria per unirsi all’ISIS. Nei blog di questi jihadisti si racconta il perché essi si siano affiliati all’organizzazione, di come la loro vita sia notevolmente cambiata in meglio dopo il trasferimento in Siria e, alcuni di essi, suggeriscono anche come comportarsi con le proprie famiglie al fine di non destare sospetti circa la radicalizzazione l’imminente partenza verso il Califfato.

La forza di tali racconti sta nel coinvolgimento del lettore e nella loro modalità di interazione soggettiva e dedicata, fattori che hanno incoraggiato comportamenti imitativi alla base del reclutamento.

Il denominatore comune del terrorismo

Il terrorismo, nella sua caratterizzazione omnicomprensiva, è innanzitutto un concetto politico, e come tale, influenzato da fattori storici, culturali, giuridici ed ideologici.

Una definizione universalmente accettata non esiste, anzi è delegata ai diversi orientamenti degli stati e delle organizzazioni governative secondo contingenze e ragioni di opportunità. Un esempio di tale divergenza è riscontrabile nelle diverse valutazioni che Stati Uniti e Europa pongono in essere: Hezbollah non è un gruppo terroristico per il vecchio continente, mentre lo è per americani e israeliani. Invece i mujahidin che combattevano contro Saddam erano terroristi ma sono stati riabilitati dopo un accordo di cooperazione con le truppe occupanti statunitensi.

Il tentativo di sviluppare una definizione esaustiva che non privilegiasse alcun approccio ma che fosse proiettata a integrare le diverse componenti di una visione multidisciplinare non ha prodotto risultati. Tuttavia, all’interno di questa grande varietà semantica possono essere rintracciati elementi comuni, macrotemi che ne costituiscono una sorta di denominatore comune: la violenza; l’uso della minaccia e la diffusione del terrore nella popolazione.

Postulati strategici e funzionali al raggiungimento degli obiettivi preposti attraverso nuove geografie, nuove spazialità digitali e le conseguenti narrazioni. Una caratteristica fondamentale che lo connota, soprattutto nelle sue fasi preparatorie, opponendosi alla visibilità, anelata ed esasperata, delle sue gesta, è la clandestinità, ossia la necessità di rendere segreta l’organizzazione e i suoi membri, i quali, in alcuni casi, continuano a vivere apparentemente una vita normale ma sono, in quanto cosiddette cellule dormienti, sempre pronti ad entrare in azione.

Tale segretezza conduce a un altro elemento fondante, corollario di ogni azione: l’imprevedibilità. Una minaccia sconosciuta e poco prevedibile genera angoscia in una comunità e fiacca la sua percezione della sicurezza.

L’aspetto imitativo è altrettanto importante: le pratiche terroristiche si reiterano anche in luoghi e contesti, politici e sociali, diversi: dirottamenti aerei, bombe, cinture e zaini esplosivi sono diventate drammatiche consuetudini negli ultimi anni.

Il simbolismo, come detto, è fondamentale: i significati espliciti e sottesi degli obiettivi, la metacomunicazione e la rivendicazione identitaria sono aspetti centrali nell’eziologia e nell’evoluzione del fenomeno.

Geografie fisiche, e al contempo immateriali, che hanno arricchito di significato la territorializzazione del terrorismo stesso, inteso come una realtà molto articolata che, assecondando tendenze metonimiche, si compone e viene influenzato da diversi elementi, come l’integrazione, le migrazioni e le omologanti istanze della globalizzazione. Tali elementi hanno mutato, irreversibilmente e costantemente, le sue spazialità, intrinseche ed esteriori, attivando un processo imprevedibile che ne ha amplifica, nel tempo, effetti e dimensione drammatica, palesando commistioni particolarmente evidenti in una declinazione precisa del fenomeno: il terrorismo islamico, esplorato attraverso la sua eziologia, la sua struttura e le sue azioni, come risultato ultimo e maggiormente esaustivo di un processo che, grazie all’effetto moltiplicativo dei media, realizza e costruisce nuove spazialità.

Esiste un legame biunivoco tra comunicazione e terrorismo: le nuove tecnologie diventano, come detto, parte integrante del fenomeno, diventandone testimonianza visiva ma, al contempo, concedendosi come ambienti virtuali su cui concretizzare le proprie ideologie e perseguire i propri scopi. Un connubio che si risolve in una macchina propagandista molto efficace, finalizzata a costruire la percezione spettacolarizzata del fenomeno stesso, a mantenere il consenso e a fidelizzare nuovi adepti, mutando significati geopolitici sedimentati nel tempo.

Tale scenario ha esteriorizzato le tecniche comunicative che abitano l’universo semantico del marketing del terrore e, come tali, influenzano prepotentemente le politiche e le geografie mondiali nonché l’assetto, l’organizzazione e l’evoluzione delle medesime. Un processo che palesa una proficua dialettica, intesa in un’accezione drammatica, tra territorializzazione fisica e digitale.

Prima Al-Qaeda e poi l’ISIS hanno concretizzato, nel tempo, gli effetti di tale legame, da un lato catalizzando il passaggio e il dialogo tra vecchi e nuovi media e, dall’altro, esacerbando tutte le possibilità comunicative elargite dall’invasività del web, scenario concepito anche da un punto di vista strettamente spaziale come nuovo campo di battaglia su cui combattere le netwars, come insieme di nuove nazioni digitali da colonizzare. Un processo che ha generato nuovi codici, nuovi linguaggi, ma soprattutto nuovi contesti che proiettano un singolo atto in una dimensione globale.

Un’ immediatezza che si manifesta attraverso il tentativo di offrire al pubblico esperienze profondamente reali in cui il mezzo di comunicazione si cela nell’apparenza di un luogo condiviso, un nuovo panorama virtuale, sfruttando le aree, interattive e multimediali, che connotano i new media.

Conclusioni

In questo contesto di interazione globale, che vede neutralizzata la dimensione spazio-temporale, si inserisce il terrorismo internazionale, un fenomeno che si attualizza come uno dei più accaniti ricercatori di promozione nel mondo. A causa della barbarica e prepotente lacerazione della normalità quotidiana di cui si fa portatore, esso si configura, come detto, come un catalizzatore di notiziabilità costante per l’universo mediatico, in tal modo emerge come un fenomeno altamente simbiotico, specialmente nel caso di Al-Qaeda, con la televisione e poi con il web.

La Rete è diventata un luogo di scambio, di interazione e di condivisione, soprattutto per i più giovani, grazie all’utilizzo e alle innovazioni introdotte dai social network. Se queste nuove possibilità di utilizzare la Rete appaiono da un lato rivoluzionarie e innovative, dall’altro hanno permesso la diffusione e la condivisione globale di contenuti deprecabili come quelli che raccontano il terrorismo. Quest’ultimo le utilizza con grande maestria per annientare la percezione della sicurezza, perpetuare la paura nelle società e creare accettazione e consenso alla propria causa.

Terrorismo e media, evidenziano un rapporto simbiotico che si traduce in una duplice territorialità: Quella reale dove avvengono gli attentati e le battaglie e quella digitale dove si concretizza la comunicazione e la guerra virtuale. Perciò il fenomeno continua, anche per questo motivo, a rappresentare una grave minaccia, nonostante, nel tempo, abbia perso territori e uomini. La sua presenza in uno spazio fisico può essere combattuta militarmente ma quella internettiana, immateriale, volatile e proteiforme sembra rigenerarsi e moltiplicarsi ogni volta che subisce un attacco e, nei suoi intenti, punta alla conquista del mondo.

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[1] Il sostantivo ipermediazione è la traduzione del neologismo inglese hypermediacy, introdotto nel dibattito mediologico alla fine degli anni Novanta del secolo scorso da Jay David Bolter e Richard Grusin (Remediation Understanding new media 1999). Il concetto indica uno dei due modi con cui le immagini si presentano al fruitore dei mezzi di comunicazione contemporanei. Le immagini tendono alla caratteristica dell’immediatezza e appaiono ipermediate, cioè moltiplicano i segni del loro essere mediate, cercando di riprodurre la ricchezza sensoriale dell’esperienza umana

[2] Guolo R., L’ ultima utopia. Gli jihadisti europei, Guerini e associati, Milano 2014, pp. 26-49.

[3] Bauman Z., Stranieri alle porte, Laterza, Roma, 2016, pp. 65-88.

[4] Allam K. F., Il jihadista della porta accanto. Isis, Occidente, Piemme, Roma 2014, pp. 91-122.

[5] Allam K. F., op. cit., pp. 91-122.

[6] Altheide D. L., Terrorism and the Politics of Fear, Rowman & Littlefield, Washington 2017, pp. 141-173.

[7] Maggioni M., op. cit., pp. 73-90.

[8] Serafini M., L’ ombra del nemico. Una storia del terrorismo islamista, Solferino, Milano 2020, pp. 97-120.

[9] Luizard P., La trappola Daesh: Lo Stato islamico e la Storia che ritorna, Rosenberg & Sellier, Torino 2015, pp. 88-119.

[10] Maggioni M., Terrore mediatico, Editori Laterza, Bari 2015, pp. 90-115.

[11] Rizzi S., Io ho paura, dovreste averne pure voi, “Lo Spiffero”, 9 gennaio 2015 http://lospiffero.com/ls_article.php?id=19817

[12] Plebani A., Diez M. (a cura di), La galassia fondamentalista, tra Jihad armato e partecipazione politica, Marsilio, Venezia 2015, pp. 66-87.

[13] Maggioni P., Magri P. (a cura di), Twitter and jihad. The communication strategy of ISIS, Epoké, Novi Ligure 2015.

[14] Weiss C., Islamic State launches mobile app for children, “The Long War Journal”, 11 maggio 2016.

[15] Bauman Z., Globalizzazione e glocalizzazione, Armando editore, Roma 2005.

[16] Maggioni P., Magri P. (a cura di), op. cit.

[17]Eco U., Sulla televisione. Scritti 1956-2015, a cura di Gianfranco Marrone, La Nave di Teseo, Milano 2018, pp. 54-77.

[18] Serafini M., PlayStation e Isis, cosa sappiamo delle comunicazioni del Califfato, “Il Corriere della Sera”, 27 novembre 2015

[19] Napoleoni L., Isis. Lo stato del terrore. L’attacco all’Europa e la nuova strategia del Califfato, Feltrinelli, Milano 2016, pp. 88-119.

[20] https://www.hackmageddon.com/2011/06/16/consumerization-of-warfare/

[21] Jean C., Geopolitica del XXI secolo, Laterza, Bari 2004, pp. 32-59.

[22] Avola M., Demirel S., Di Gregorio P., Filiu J., Melfa D., Nicolosi G., A proprosito di Charlie. Una riflessione oltre la cronaca, Euno edizioni, Leonforte 2015, pp. 76-105.

[23] Allam K. F., Il jihadista della porta accanto. Isis, Occidente, Piemme, Roma 2014, pp. 45-70.

[24] Khanna P., Connectography. Le mappe del futuro ordine mondiale, Fazi, Roma 2016, pp. 156-190.

[25] McLuhan M., Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano 1967, pp. 55-80.

[26] Baudrillard J., Codaluppi V., La seduzione del simbolico, Feltrinelli, Milano 2017, pp. 43-69.

[27] Peverini P., Social Guerrilla. Semiotica della comunicazione non convenzionale, Luiss University Press, Roma 2014, pp.120-140.

[28] Giansante G., La comunicazione politica online, Carocci, Roma 2014, pp. 145-175.

[29] Hovland, C., Janis, I., & Kelley, H., Communication and persuasion, Yale University Press, New Haven 1953, pp. 81-115.

[30] Chung-Yin Yeung J., A Critical Analysis on ISIS Propaganda and Social Media Strategies. University of Salford, Manchester 2015, consultabile su https://www.researchgate.net/publication/316146537_A_Critical_Analysis_on_ISIS_Propaganda_and_Social_Media_Strategies.

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