Con la sentenza n. 7846 del 5 settembre scorso, il Tribunale di Milano chiarisce, sia pur in via incidentale, come il diritto alla deindicizzazione sussista anche rispetto a notizie soltanto inesatte, ancorché in assenza del decorso di un tempo sufficiente a integrare i presupposti del “diritto all’oblio”.
La deindicizzazione “globale”
La decisione accoglie il ricorso avverso un provvedimento del 21.12.17 con cui il Garante ha ordinato la deindicizzazione “globale” (dunque anche dalle versioni extraeuropee di Google) di 26 url inerenti post su blog o brevi articoli anonimi pubblicati nel luglio 2017.
Tali post attribuivano all’interessato – residente all’estero e iscritto all’AIRE – la responsabilità per una “opera seriale di diffamazione nei confronti di docenti, università, studenti e donne” in Italia e Usa, condotta dal sito presto.news di cui egli sarebbe stato gestore, peraltro asseritamente fingendosi professore di diverse università. Gli si attribuivano anche reati quali molestie sessuali, stalking, cyberbullismo, grooming, insinuandosi anche sia affetto da infermità mentale. Nessuno di questi post conteneva elementi circostanzianti su tali presunte attività illecite. A sostegno dell’istanza, oltre alla pretesa falsità delle imputazioni attribuitegli, il ricorrente adduceva anche la ricezione di un’email proveniente da persona riconducibile al sito su cui sono stati pubblicati molti dei post in questione, con la quale e-mail gli veniva richiesta una ingente somma di denaro per la rimozione dei post stessi. Da ricerche condotte dal ricorrente, il gestore di tale sito sarebbe stato condannato per estorsione per fatti analoghi.
Il Garante ha accolto il ricorso relativamente alla richiesta di deindicizzazione globale dei post, in considerazione dell’impatto sproporzionatamente negativo, sulla dignità dell’interessato, della perdurante reperibilità degli articoli/post in questione (citandosi anche un punto delle Linee guida del WP 29, che introduce una sorta di presunzione di meritevolezza dell’accoglimento delle istanze per la deindicizzazione in presenza di “campagne personali contro un determinato soggetto, sotto forma di “rant”, esternazioni negative “a ruota”)”. L’adesione all’istanza di deindicizzazione globale –all’esame della Corte di giustizia su rinvio francese- è stata motivata in base all’esigenza “di rendere effettiva la tutela assicurata al ricorrente nel caso di specie, tenuto conto anche che quest’ultimo ha dichiarato di risiedere al di fuori dell´Unione europea, occorra estendere l’attività di rimozione degli URL in questione anche alle versioni extraeuropee del motore di ricerca”.
Il ricorso di Google
Il provvedimento è stato impugnato da Google tanto rispetto alla deindicizzazione globale (contestando dunque la carenza di attribuzione del Garante in ordine a un ambito territoriale secondo la direttiva 95/46 e il Codice, allora vigenti, sottrattogli) quanto rispetto al merito, sostenendo che la causa petendi, in quanto riconducibile all’onore, fosse sottratta alla competenza del Garante e rimessa all’esclusiva competenza dell’autorità giudiziaria ordinaria.
La sentenza non affronta la questione della deindicizzazione globale, ritenendola assorbita dai profili di merito e ribadendo la necessità di attendere la valutazione della Corte di giustizia sul rinvio pregiudiziale.
L’accoglimento del ricorso è tutto fondato sul merito del ricorso e sulla correttezza ed esattezza dei dati contenuti nei post deindicizzati, desunte da elementi probatori emersi successivamente alla pronuncia del Garante.
L’interessato è infatti stato oggetto, nei primi mesi dell’anno, di alcune inchieste giornalistiche essendosi egli candidato alle politiche nelle circoscrizioni Centro e Nord America, quale rappresentante degli italiani all’estero, sebbene si stia accertando la presunta falsità della firma notarile apposta sui documenti presentati al Ministero dell’interno all’atto della registrazione della sua lista. I servizi giornalistici avrebbero anche confermato la veridicità del contenuto di gran parte dei post deindicizzati.
Conclusione del Tribunale e linea del Garante
La conclusione del Tribunale è stata, dunque, di ritenere corrette, esatte, aggiornate, pertinenti e meritevoli di interesse pubblico le informazioni contenute nei post, relativamente peraltro a un personaggio da ritenersi pubblico in quanto candidato alle scorse politiche.
Tale conclusione – giocata tutta su profili di merito ed elementi probatori ignoti al Garante – sottende tuttavia, implicitamente, la conferma della correttezza della linea interpretativa adottata dal Garante, volta ad ammettere la deindicizzazione non solo nei casi di oblio stricto sensu intesi (legati cioè al decorso del tempo di una notizia in passato degna di interesse pubblico), ma anche nei casi di inesattezza dei dati trattati.
Il Tribunale ammette infatti che- pur non potendo naturalmente il Garante sindacare la diffamatorietà di determinati contenuti, rimessa alla competenza dell’autorità giudiziaria ordinaria- egli possa certamente valutare la liceità del trattamento realizzato con la diffusione dei dati in questione, ammettendosi espressamente la possibilità che si verifichino “sia una lesione del diritto al corretto trattamento dei dati personali sia una lesione del diritto all’onore, alla reputazione, all’immagine”. In tali casi, il Garante esamina la questione inerente l’onore solo come “conseguenza della lesione dell’identità personale (realizzata con un illecito trattamento di dati personali)”.
Lo stesso motore di ricerca – precisa il tribunale – non può essere chiamato che a rispondere della correttezza del trattamento realizzato con l’indicizzazione e non già della diffamatorietà dei contenuti diffusi da terzi, spettando il bilanciamento tra il diritto all’onore e il diritto alla libertà di espressione non certo al gestore, ma al giudice.
Ricorda infatti il Tribunale che “chi invoca la tutela del diritto all’onore e alla reputazione deve agire il giudice ordinario e, prima di ottenere un provvedimento che limiti il diritto di espressione, tutelato ex art. 21 Cost., deve attendere una pronuncia almeno esecutiva e irretrattabile dell’effettiva violazione del diritto individuale all’onore e alla reputazione (cfr., in tal senso, Cass., SSUU 23469/2016); spetta al giudice ordinario e non al motore di ricerca operare il bilanciamento tra diritto all’onore o alla reputazione e diritto alla libertà di manifestazione del pensiero (che come da tempo affermato dalla Corte costituzionale rappresenta il “più alto, forse, dei diritti primari e fondamentali della Costituzione: Corte cost., 168/1971).
Il Tribunale sembra dunque ammettere la deindicizzazione a tutela del “diritto alla dis-associazione del proprio nome da un dato risultato di ricerca”, ritenendo che “il c.d. ridimensionamento della propria visibilità telematica rappresenta un aspetto “funzionale” del diritto all’identità personale, diverso dal diritto ad essere dimenticato, che coinvolge e richiede una valutazione di contrapposti interessi: quello dell’individuo a non essere (più) trovato on line e quello del motore di ricerca”.
Deindicizzazione e tutela dell’esattezza dei dati trattati
Il Tribunale sembra, dunque, ammettere la deindicizzazione anche a tutela dell’esattezza dei dati trattati (in funzione di garanzia del diritto all’identità personale), in casi nei quali il decorso del tempo (elemento costitutivo dell’oblio) non rileva, come affermato dal Garante nelle decisioni più recenti. Soluzione sostenuta, del resto, dal combinato disposto degli artt. 5, par.1, lett.a e d) e 17, par.1, lett. d) del GDPR.
Quanto, infine, al tema – come detto, nella sentenza non esaminato nel merito – della deindicizzazione globale, va ricordato che nella controversia Google, Inc. v. Equustek Solutions, Inc.., la Corte suprema del Canada, nel 2017, ha ammesso la deindicizzazione globale, sebbene poi la United States District Court (Northern District of California) abbia negato efficacia nel territorio statunitense alla pronuncia, invocando l’articolo 230 del Communication Decency Act del 1996, che esime piattaforme quali Google, che ospitano i contenuti di siti terzi, da responsabilità, per prevenire quel “chilling effect” su cui si fonda una consolidata giurisprudenza della Corte suprema. Tale indirizzo sarà verosimilmente destinato a soccombere con l’applicazione del GDPR, che come noto esplica efficacia anche rispetto a titolari stabiliti al di fuori del territorio dell’Ue, i quali offrano beni o prestino servizi ovvero monitorino il comportamento di quanti si trovino in Europa.