L'analisi

Perché il Governo cinese teme le big tech e le vuole addomesticare

Il caso della multa miliardaria comminata dall’Antitrust cinese ad Alibaba rivela nuovi aspetti sul rapporto tra le piattaforme digitali e i Governi. Con possibili impatti anche in Occidente

Pubblicato il 14 Apr 2021

Umberto Bertelè

professore emerito di Strategia e chairman degli Osservatori Digital Innovation Politecnico di Milano

tencent alibaba

L’antitrust cinese ha comminato ad Alibaba, con l’accusa di abuso di posizione dominante, la multa più elevata nella storia del Paese – 2,8 miliardi di dollari – e la Borsa ha reagito con un rialzo del titolo, in discesa dall’inizio di novembre, del 7,8 per cento.

Un paradosso, ma solo apparente, che la dice lunga sul clima in Cina per le big tech.

Il mercato finanziario – memore di quanto successo a novembre quando l’IPO di Ant (il braccio finanziario di Alibaba), che si avviava a essere il più grande di tutti i tempi, fu bloccato dall’authority di controllo a soli due giorni dalla data prevista su ordine sembra dello stesso Xi – temeva che la scure cadesse su Alibaba in misura molto più pesante, andando a colpire non solo l’e-commerce ma la molteplicità di attività in cui Alibaba, analogamente all’altra big tech cinese Tencent, è coinvolta.

Perché tanta incertezza? Perché dietro al blocco dell’IPO di Ant e all’avvio delle procedura antitrust contro Alibaba c’era una vittima designata – Jack Ma, fondatore e primo azionista di Alibaba – sempre più percepito (anche per le sue prese di posizione contro le autorità) come un pericolo per l’autorevolezza del partito comunista e un concorrente per visibilità dello stesso Xi.

Piattaforme digitali, il contesto cinese

E perché le misure contro Alibaba, almeno per il momento, non sono state così radicali? Io penso che la Cina – ma per gli Stati Uniti valgono per certi versi considerazioni simili – sia combattuta fra la visione da un lato delle grandi piattaforme digitali come un pericolo, per il loro forte e potenzialmente crescente potere, e il riconoscimento dall’altro del ruolo che esse giocano come strumento di innovazione all’interno e come strumento di penetrazione e di influenza su scala globale.

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Un segnale molto forte su chi conta di più – il partito o le imprese – è stato dato e a quanto pare è stato percepito. Pony Ma, co-fondatore e CEO di Tencent, ha fatto ripetute dichiarazioni sull’importanza di una più stretta regolamentazione delle grandi piattaforme. Colin Huang Zheng, fondatore di Pinduoduo (l’astro nascente dell’ecommerce cinese), si era dimesso da CEO e aveva ridotto la sua partecipazione azionaria un po’ prima, forse preoccupato dalla visibilità crescente che gli derivava dal successo della sua creatura.

E Ant, poche ore dopo la comunicazione della multa ad Alibaba (che ne è secondo azionista alle spalle di Jack Ma), ha chiuso dopo mesi di trattative l’accordo con le authority finanziarie e la Banca Centrale, che la assimila (con tutti i vincoli conseguenti) alle altre istituzioni bancario-finanziarie e che pone forti limiti all’utilizzo monopolistico che essa ha fatto di Alipay (il sistema di pagamento principe di Alibaba) come leva per lo sviluppo di una serie di altri business correlati.

I dati dello scenario

Qualche numero, per dare gli ordini di grandezza. Il PIL cinese 2020, ai tassi di cambio correnti, è stimato pari a 14,72 trilioni di dollari (sette volte circa quello italiano). Alibaba, dopo i cali degli ultimi mesi, “vale” poco più di 600 miliardi e Tencent 765. La forza e popolarità dei due gruppi sta nel loro enorme livello di penetrazione: Alibaba nel 2020 ha avuto 779 milioni di clienti unici del suo ecommerce; WeChat, la super app di Tencent, ha oltre 1,1 miliardi di utenti attivi mensilmente.

Qualche confronto con gli Stati Uniti, che ai cambi correnti (non però a parità di potere di acquisto) hanno tuttora un PIL – 20,93 trilioni – superiore a quello cinese, ma hanno un numero di abitanti molto inferiore, 335 milioni circa contro 1,44 miliardi, cui corrisponde una quota significativamente minore di fatturato realizzato all’interno (poco più di un terzo ad esempio nel caso di Apple) da parte delle big tech statunitensi rispetto alle cinesi. Con una capitalizzazione delle 5 big tech (2.230 miliardi Apple, 1.930 Microsoft, 1.700 Amazon, 1.540 Alphabet-Google e 890 Facebook) che – complessivamente pari a 8,29 trilioni di dollari [9 aprile 2021] – rasenta il 40 per cento del PIL. Una percentuale impressionante che fa capire perché, anche in un Paese con un sistema politico assolutamente diverso, le big tech vengano percepite – al di là dei loro veri o presunti peccati – come oggettivamente ingombranti per dimensioni e prospettive di crescita: con attacchi feroci alla loro stessa esistenza da parte della sinistra del partito democratico, ma con un consenso comunque bipartisan verso una qualche forma di loro contenimento.

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Il fronte data protection

La privacy e le fake news – così importanti nel mondo occidentale – non lo sono in Cina, dal momento che lo Stato è da sempre a conoscenza di quanto accade in rete (avendo accesso continuo ai dati delle imprese) e ha il pieno controllo sulla circolazione dell’informazione; mentre quasi inesistente in occidente (con rarissime eccezioni) è la preoccupazione che i capi delle grandi imprese acquistino troppo popolarità e oscurino i capi politici. C

ondivisa è l’idea generale che le piattaforme digitali vadano in una qualche misura regolamentate, per il profondo impatto che esse hanno sull’economia e sulla società. Sostenuta da alcuni anche in Occidente, soprattutto in Europa, l’idea in discussione in Cina di rendere disponibili i dati in possesso delle piattaforme a soggetti specifici (ad esempio le informazioni sul mercato a chi vende attraverso le piattaforme di ecommerce) o per usi più generali.

Il possibile impatto delle scelte della Cina

Una ultima osservazione: le misure che i cinesi assumeranno nei riguardi delle loro piattaforme potranno avere un impatto su quelle che verranno adottate negli Stati Uniti? Io credo di sì. Uno dei principali argomenti delle big tech statunitensi, a fronte di leggi o comportamenti delle authority che possano danneggiarle, è che non debba essere indebolita la loro competitività su scala internazionale, nei riguardi in particolare delle big tech cinesi.

Una minore protezione da parte della Cina dei suoi campioni digitali renderebbe più debole questa argomentazione e aprirebbe la strada a misure potenzialmente più dure negli Stati Uniti e in quelle aree – a partire dall’UE – che rischiano ritorsioni (come più volte accaduto) a fronte di azioni non gradite agli Stati Uniti stessi.

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